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Radicali: l'amarezza di un ex-iscritto

1.3.1987, Da "il manifesto" - Il viaggiatore leggero
Sono tra coloro che di fronte alla scommessa esistenziale del partito radicale, nel 1986, per la prima volta hanno deciso di iscriversi. E sono anche tra coloro che non hanno rinnovano la tessera per il 1987.

Vedo e riconosco con ammirazione alcune grandi intuizioni e Scelte esemplari dei radicali. Tra le piu recenti voglio ricordare la stessa proposta di sciogliersi per sciogliere la partitocrazia, la dimensione transnazionale, l'Europa come dimensione "attuale" dell'iniziativa politica ed ecologista, il passaggio dai "no" di opposizione ai "si." di governo. Non condivido invece molte delle scelte pratiche che ne vengono fatte derivare, dall'enfatizzazione del sistema elettorale uninominale e maggioritario alla riscoperta ed esaltazione del "mondo libero euro-atlantico", dalla denigrazione degli "ecopacifisti" alla minimizzazione della 123esima e 124esima centrale atomica in Europa (la battaglia sul trentamillesimo detenuto in un'istruttoria ingiusta, chiamato Enzo Tortora, riguardava anche gli altri 29.999 detenuti di una giustizia non giusta). Oltretutto questa minimizzazione fatta da Marco Pannella diventa una sorta di autorevole autorizzazione a procedere offerta al fronte nuclearista. Ma c'è un aspetto del Pr che forse solo in questo congresso sono riuscito a capire appieno, e che mi fa rivisitare con sofferenza i miei rapporti con esso. Il Pr sta ponendo, negli ultimi mesi ed in questi giorni, un accento particolarmente rilevante sullo stato di Israele, e da qualche tempo chiama apertamente in causa l'ebraismo e gli ebrei, quasi come una metafora in qualche modo affine all'esistenza radicale. Per ragioni profondamente personali, di provenienza familiare, sento un intimo e saldo legame con l'ebraismo, pur non essendo e non essendo mai stato ebreo, e tantomeno osservante. Da qui mi deriva un'attenzione tutta particolare e fortemente coinvolgente verso lo stato d'Israele, un paese che pero non ho mai visitato e che sempre più difficilmente riuscirei a visitare con serenità e con gioia, pur contandovi amici e compagni di idee. Nel 1967 , allo scoppio della guerra dei 6 giorni (mi trovavo nella sinagoga di Firenze, assieme a centinaia di amici democratici di Israele e degli ebrei), non so cosa avrei dato per poter contribuire alla sopravvivenza di un paese che ritenevo minacciato. C'è stata la guerra, con l'esito che sappiamo, e ne e seguita una trasformazione e profanazione sempre più angosciante e tragica dello stato d'Israele, costruito al suo interno e nella sua politica estera sempre più nettamente come "stato contro i palestinesi, contro gli arabi", quasi più che come focolare degli ebrei e dell'ebraismo, contribuendo ad innescare e perpetuare una tensione che ha bloccato tanti possibili processi democratici in tanti paesi dell'area coinvolta. Le discriminazioni e le barriere etniche contro i cittadini israeliani non-ebrei, ed in particolare contro i palestinesi, ed il ruolo indubbiamente repressivo verso i palestinesi dei territori occupati; la contrapposizione armata verso tutti i suoi vicini; una tragica solitudine che cerca affinità e solidarietà, piuttosto che con i propri vicini, oltre gli oceani; la crescente militarizzazione della convivenza civile; l'essere sempre in guerra; l'aver infine come statalizzato l'ebraismo e fatto diventare "prima patria", statuale, l'ideale seconda e profonda patria di tutti gli ebrei, escludendone altri che l'avevano anch'essi per patria: tutto questo e molto altro, per quanto comprensibile in una logica della forza più che del diritto, e per quanto mille volte contraccambiato da simmetriche minacce ed aggressioni, non può essere quell'Israele della speranza e della ragione che i Baruch Spinoza, i Mar- tin Buber, i Walter Benjamin, le Hannah Arendt, e tanti altri maestri di sapienza biblica, di scienza e di vita ci fanno amare. Il Pr, da ideale "secondo partito" della speranza e di tante ragioni socialiste, libertarie, ecologiste, conservatrici, rivoluzionarie..., sembra voler percorrere sempre di più una parabola simile a quella dello stato d'Israele. Voler essere irriducibilmente diversi da tutti, ma affidarsi poi alle logiche del mercato politico; essere soli contro tutti, ma stringere anche alleanze magari le più "innaturali" rispetto alla propria storia; proclamare il rigore del diritto e dell'obiettività dell'informazione, ma arrivare poi ad una feroce ed unilaterale amputazione dei giudizi; costringere attraverso le proprie incursioni l'intera area circostante a laceranti riassetti, ma stringere al tempo stesso la propria comunità in una logica di compattezza da emergenza e quindi povera di dialettica interna; diventare insomma potenza tra potenze: sono, questi, alcuni tra i parallelismi che mi fanno temere un paradigma che lo stato d'Israele in grande, ed il Pr in corpore oili, sembrano proporre. Con non so quanto beneficio per l'ebraismo e, rispettivamente, per il patrimonio radicale.

Da "il manifesto", I° marzo 1987.
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