Giorgio Mezzalira: Una lezione senza tempo
La figura del migrante è il soggetto di un’unica storia, che sta dentro il profilo di una condizione sociale immutata nei secoli e contrassegnata dalla privazione dei diritti, dalla precarietà, dallo spaesamento, dallo sfruttamento, dall’emarginazione. Sono tratti riconoscibili di un fenomeno, quello della migrazione, che per essere meglio compreso andrebbe scomposto nei tanti retroterra di provenienza, culturali, linguistici. Ma quella del migrante è una patente omologante che non distingue, poco rispetta le differenze e non riconosce le ragioni che motivano le scelte ad andare via (disagio, bisogno, necessità, ma anche desiderio di emancipazione).
Ai cosiddetti “viaggi della speranza” sono affidati progetti di vita proiettati verso la nostra cosiddetta società del benessere – sulla cui poca sostenibilità siamo tra l’altro avvertiti da tempo – nonché verso modelli di uniformazione che contrastano con la ricchezza e il pluralismo delle culture di cui le migrazioni sono portatrici, nella comune convinzione (falsa) che modernità sia contrapposta alla tradizione e che l’essere fuori dalle dinamiche del cosiddetto nostro progresso, come ricordava Alexander Langer, sia sinonimo di sottosviluppo e arretratezza. Sullo sfondo, la nostra contemporaneità si spalma con uno dei suoi tratti distintivi: la coesistenza di compressione spaziale delle culture, delle forme di vita e diaspora temporale, ovvero i diversi modi in cui noi e “gli altri” facciamo esperienza del tempo, in altre parole le nostre diverse storie. Tale coesistenza, plasticamente rappresentata dalla compresenza in Italia come in altri paesi europei di comunità di immigrati provenienti da altri continenti, ha tra i suoi possibili esiti la cristallizzazione delle proprie appartenenze culturali in termini rigidamente identitari e, se non governata, lo scoppio di conflitti. La domanda di convivenza non si presenta, da questo punto di vista, come l’attesa o lo slancio disinteressato di un atto di buona volontà, bensì come un bisogno: un vero e proprio investimento per il futuro. Volgendo lo sguardo al passato dove gli spostamenti di popolazione di grandi proporzioni avevano generato violenze, guerre e intolleranza, Langer sollecitava le nostre società ad affrettarsi ad imboccare la via della convivenza. Non abbiamo alcun diritto di porre sbarramenti a coloro che vengono da un emisfero svantaggiato – sosteneva ancora – se poi noi, figli dei continenti prosperi e avvantaggiati, possiamo andare dove vogliamo. Ma allo stesso tempo c’è bisogno di un equilibrio delle proporzioni, per la stessa praticabilità di una politica dell’accoglienza.
In Sudtirolo fino a 60-70 anni fa tedeschi e italiani si sentivano minacciati, l’uno dall’altro, e avrebbero volentieri fatto a meno l’uno dell’altro; oggi la convivenza è un dato di fatto, una conquista raggiunta attraverso una strada non facile ma l’unica percorribile.