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Federico Faloppa: «Le parole d’odio non crescono soltanto sui social». Intervista di Giovanni Accardo

20.10.2020, Alto Adige quotidiano

Intervista a Federico Faloppa. Lo scrittore e docente ospite della Fondazione Langer «La scomparsa di modelli virtuosi nella politica e nella società civile, amplifica il fenomeno» L’analisi in un libro dal titolo “Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole»

 «Di linguaggi, discorsi, parole d’odio o, per usare l’originaria locuzione inglese, di “hate speech”, sentiamo parlare tutti i giorni. Tuttavia non è facile definirlo con precisione perché la gamma di sentimenti, stati d’animo e reazioni che queste locuzioni e le forme con cui si articolano suscitano in ognuno di noi è così ampia e diversificata da sfuggire a una definizione sola. Nel dizionario Treccani, ad esempio, viene definita come “espressione di odio e incitamento all’odio di tipo razzista dei nuovi media e di Internet, tramite discorsi, slogan e insulti violenti, rivolti contro individui, specialmente se noti o famosi, o intere fasce di popolazione (stranieri e immigrati, donne, persone di colore, omosessuali, credenti di altre religioni, disabili, ecc.)”. Tuttavia, per quanto chiara e concisa, non è una spiegazione esaustiva. La questione è aperta, non è un caso che il nuovo Comittee of experts in combating hate speech del Consiglio d’Europa, di cui faccio parte, la consideri prioritaria.» A parlare è Federico Faloppa, professore di Italian Studies and Linguistics all’Università di Reading (GB) e autore del volume “#Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole” (UTET, 2020), che su iniziativa della Fondazione Langer è stato presentato alla Kolpinghaus di Bolzano. Per l’occasione l’abbiamo intervistato.

C’è chi ritiene che l’hate speech rientri nella libertà di espressione. Cosa obietta?

Calunnia, diffamazione, minaccia, e ingiuria non rientrano affatto nella libertà d’espressione ma pertengono al codice penale, almeno in Italia. D’altronde nel nostro sistema giuridico, come in molti altri sistemi giuridici europei, il diritto alla libertà di espressione non è assoluto, ma deve essere in equilibrio con il ripudio delle discriminazioni su basi etniche, “razziali”, religiose, nazionali, linguistiche, ecc. È un equilibrio delicato ma fondamentale, che individua non solo diritti ma anche tutele, responsabilità, limiti.

Il fenomeno è legato solo ai social-network o essi l’hanno ampliato?

Quando ho cominciato a occuparmi di “razzismo linguistico” e di come possiamo discriminare attraverso il linguaggio, studiavo la storia di modi di dire ed espressioni ingiuriose verso alcune minoranze (ebrei, persone dal diverso colore della pelle, gruppi religiosi considerati “eretici”, popolazioni nomadi, ecc.) diffusi da secoli, non solo in Italia. Tuttavia è indubbio che proprio sui social media si stia assistendo a una rapida intensificazione del fenomeno, grazie ad alcune caratteristiche precipue dei social, tra cui la permanenza del messaggio, la sua diffusione potenzialmente incontrollabile, il suo anonimato, la sua “virtualità”, che ci permette di essere incuranti degli effetti su chi lo riceve, la spirale del silenzio che ci inibisce dall’esprimerci se ci consideriamo isolati o minoranza. Ma è dovuto anche alla scomparsa di modelli virtuosi – si tende a scrivere e parlar male quasi in tutti i contesti, perché tutti fanno così – e alla mancanza di responsabilità politica e civile di chi invece cavalca l’hate speech per gestire il consenso e manipolare l’opinione pubblica.

Quanto c’è di inconsapevole in certe espressioni di odio che usiamo quotidianamente e che responsabilità hanno i mass media

Sul piano linguistico e formale il discorso d’odio è molto più variegato di quanto si pensi. Ne fanno parte certamente le parole per ferire (ad esempio gli insulti razzisti), certi termini che hanno connotazioni molto negative e risultano spregiativi. Ma ne fanno parte anche forme più implicite (“è gay, ma innocuo”), registri ironici e sarcastici, cattive argomentazioni che vogliono farci condividere una conclusione (“prima gli italiani”, e quindi i non-italiani sono una minaccia e non possono avere gli stessi diritti) sulla base di false premesse, e modalità pragmatiche che tendono a zittire l’altro, a negargli uno spazio discorsivo e quindi pubblico. Di ciò dovrebbero essere consapevoli almeno i professionisti dell’informazione: riproducendo contenuti d’odio senza discuterli, frame sessisti e degradanti delle donne, generalizzazioni e stereotipi non solo legittimano chi diffonde discorsi d’odio, ma fanno un pessimo lavoro di informazione, infantilizzando l’opionione pubblica e producendo allarme sociale ingiustificato.

Le parole di odio possono essere l’anticamera della violenza fisica?

Insultare, calunniare, diffamare, minacciare un’altra persona non anticipa necessariamente una violenza fisica. Tuttavia, le aggressioni fisiche, motivate da razzismo, omo-lesbo-transfobia, misoginia, islamofobia, antiziganismo, spesso sono accompagnate da insulti alla persona che si sta per colpire. La violenza fisica è il risultato di un processo di de-umanizzazione dell’altro, cosa che consente di sfuggire ai vincoli morali. Le parole d’odio, però, lasciano ferite profonde sul piano psicologico, dalla perdita di autostima allo stress post-traumatico, da un senso di frustrazione a forme depressive.

Come si può contrastare? A scuola, per esempio?

La prima cosa da fare è conoscerlo, avere dati, far emergere i casi, avere consapevolezza di come si manifesti il discorso d’odio. Se online il fenomeno può essere indagato con una certa ampiezza, per strada, a scuola, in luoghi pubblici o privati, resta spesso “sotto i radar”, soprattutto in assenza di testimonianze. Se si manifesta online, attraverso le piattaforme social, bisognerebbe sempre segnalarlo e assicurarsi che la segnalazione venga presa in carico, sperando che il contenuto d’odio, soprattutto se rientra in una categoria giuridica, venga rimosso. Se l’hate speech si basa su stereotipi e pregiudizi, occorre adoperarsi alla loro decostruzione. E in questo sono fondamentali il lavoro nelle scuole, per una lettura critica dei libri scolastici ad esempio, soprattuttto nella scuola dell’obbligo, o per un’educazione all’argomentazione. Ma anche una maggiore attenzione da parte dei mass media in genere

 

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