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Elisa Grazzi - Veronica Fratelli: Tuzla, Bosnia-Erzegovina. Trasmissione inter-generazionale del trauma e giustizia nel post-conflitto: alcune riflessioni.

Jul 1, 2005, Quaderni Satyagraha
Questo breve scritto raccoglie le nostre riflessioni sull’operato di un’associazione bosniaca, Tuzlanska Amica, che si occupa di fornire sostegno a persone traumatizzate dalla guerra. Abbiamo conosciuto quest’associazione nell’estate del 2004, quando vi abbiamo trascorso cinque settimane nell’ambito dello stage previsto dal corso per “Operatori/operatrici di pace” di Bolzano. Negli ultimi anni, il lavoro di Tuzlanska Amica si è concentrato soprattutto su bambini e adolescenti, in un’ottica di prevenzione rispetto alla trasmissione alla trasmissione inter-generazionale del trauma. Un problema, questo, che è al centro di ogni situazione post-conflitto: come spezzare la catena delle conseguenze, per girare pagina definitivamente?

L’esperienza bosniaca, inoltre, ci è sembrata particolarmente significativa anche rispetto ad un altro tema ricorrente nelle società che escono da un periodo di conflitti violenti: quello della giustizia. Una giustizia chiesta con la forza della disperazione da chi aspetta di seppellire i propri cari da più di dieci anni, ma che purtroppo, nella sua declinazione più intransigente, non sempre riesce a superare la logica del conflitto.

Le attività di Tuzlanska Amica

Tuzlanska Amica è una organizzazione non governativa bosniaca nata dall’impegno di un gruppo di donne, principalmente medici, psicologi e psichiatri1, che già durante la guerra hanno incominciato ad occuparsi dei traumi delle donne e dei bambini giunti a Tuzla come sfollati2.

Nel corso degli anni, anche avvalendosi del sostegno di organizzazioni non governative e di varie associazioni italiane, tedesche e svizzere, Tuzlanska Amica ha potuto ingrandirsi e, alla prima attività di sostegno psicologico a profughe vittime di violenze, ha affiancato un impegno sempre maggiore per l’infanzia e l’adolescenza. Sono stati avviati alcuni progetti di adozione a distanza con partner italiani e si è poi curata sempre più l’organizzazione di momenti di animazione per bambini.

I progetti di adozione a distanza sono intesi come strumento per sostenere i bambini e le loro famiglie in generale, fornendo non solo un aiuto materiale, ma anche e forse soprattutto affetto, contatti regolari, apertura e disponibilità ad incontrarsi. I bambini coinvolti nei progetti vengono selezionati dall’associazione secondo criteri di maggiore o minore bisogno e provengono principalmente dalle campagne circostanti Tuzla, nonché dall’intera zona del Podrinje, area di provenienza della maggior parte degli sfollati3, dal campo profughi di Mihatovići presso Tuzla e dall’orfanotrofio municipale di Tuzla.

I “donatori”4 vengono incoraggiati ad andare a trovare i bambini in Bosnia, conoscere le loro famiglie e vedere le loro reali condizioni di vita. L’associazione si impegna a fornire aggiornamenti regolari sulla situazione dei ragazzi e delle famiglie, puntuale traduzione di tutta la corrispondenza, accompagnamento, assistenza di vario genere e interpretariato in caso di visite a Tuzla. Tutto questo fa sì che sia possibile coltivare una relazione interpersonale diretta tra donatori e beneficiari dei progetti. La chiave del particolare lavoro di Tuzlanska Amica sta proprio in questo, ovvero nella radicata convinzione che il mero aiuto materiale non debba esaurire il rapporto di adozione, che invece diventa soprattutto una relazione di tipo emozionale. Nell’esperienza dell’associazione è infatti proprio lo spiraglio di speranza, la visione di un futuro migliore potenzialmente trasmessa dall’affetto di qualcuno, anche a migliaia di chilometri di distanza, a riattivare le risorse di molti ragazzi, molto più che un magari succoso sostegno economico.

Tale rapporto quasi terapeutico tra ragazzi bosniaci e donatori stranieri è reso possibile dalla costanza con cui Tuzlanska Amica cura la conoscenza del territorio compreso tra Tuzla, il confine di stato con la Croazia a nord e il fiume Drina ad est. Il team mobile dell’associazione visita tutte le famiglie coinvolte nei progetti, che attualmente sono circa ottocento, almeno una volta ogni due mesi. Le operatrici specializzate dell’associazione5, conoscono personalmente i membri delle famiglie e dispongono di schede su cui di volta in volta registrano tutte le informazioni utili.

Queste visite hanno varie funzioni: da un lato, attraverso osservazione e domande mirate, permettono di rilevare i veri bisogni delle famiglie, dall’altro diventano strumento di verifica sull’utilizzo degli aiuti e sulla veridicità delle informazioni trasmesse dalla famiglia. Inoltre hanno la fondamentale funzione di stabilire legami tra persone, favorire il dialogo e creare fiducia, ottimizzando cosi l’utilizzo delle risorse messe a disposizione dai progetti.


Il lavoro sulla trasmissione inter-generazionale del trauma

Come abbiamo osservato sopra, l’attività di Tuzlanska Amica è cambiata con il passare degli anni, focalizzandosi sempre di più sul lavoro con bambini e ragazzi. Questo cambiamento è partito dalla considerazione che la generazione direttamente coinvolta nella guerra non era l’unica ad essere segnata dal trauma. Le sue conseguenze, infatti, colpiscono indirettamente anche i figli di questa generazione, ragazzi cresciuti in un’atmosfera profondamente segnata e psicologicamente pesante. A lungo andare, questo può mettere a repentaglio la stabilità della pace: nel disagio profondo, infatti, è sempre racchiuso un potenziale di violenza. “La democrazia non può essere costruita da anime ancora ferite” recita il titolo di una conferenza tenutasi proprio a Tuzla6.

Per molti dei ragazzi con cui abbiamo lavorato, la realtà del campo profughi, sospesa ed eternamente provvisoria, è l’unica mai conosciuta. A nostro avviso, sono vari i comportamenti collegati alla loro situazione di profughi: spesso, se si chiede loro di esprimere una qualsiasi preferenza per qualche cosa, questi ragazzi non sanno o non vogliono rispondere. Inoltre, è chiaro che hanno molte difficoltà a pensare al futuro: la domanda “che cosa vorresti fare da grande?” generalmente provoca grande disagio e rimane senza risposte di sorta.

È bene poi ricordare che la guerra ha, come sempre, lasciato un grande numero di orfani. Un altro problema è quello dei bambini abbandonati, che non necessariamente hanno perso entrambi i genitori, ma vengono lasciati agli istituti a causa della forte incidenza di problemi psichici negli adulti che hanno vissuto gli anni del conflitto. Una delle manifestazioni del trauma collettivo è appunto questa, il fatto che tante persone adulte - in particolare tante madri - non siano più in grado di occuparsi né di se stesse né dei loro figli. Le ferite sono estremamente profonde, visto che la maggior parte di queste persone si sottraggono a qualsiasi forma di terapia, conducono una vita apparentemente normale, ma covano dei disturbi psichiatrici che si manifestano soltanto tra le mura domestiche.

Alla fine del suo articolo sulla trasmissione inter-generazionale del trauma in Ex Jugoslavia, Eduard Klain afferma che “il modo migliore per mitigare la trasmissione inter-generazionale di emozioni patogene è lavorare con le giovani vittime della guerra. Anche i loro genitori dovrebbero essere inclusi in questo tipo di lavoro. Perciò, la priorità del lavoro psicologico nei Paesi dell’Ex Jugoslavia dovrebbe essere il lavoro psicoterapeutico con i ragazzi, che poi potrebbero parlare, esprimere e integrare le emozioni e le sofferenze connesse a questa guerra7”.

Per quanto abbiamo potuto osservare, Tuzlanska Amica, interviene sulle due generazioni traumatizzate in due modi diversi: mentre gli adulti vengono curati per così dire “direttamente”, tramite colloqui terapeutici individuali, i ragazzi invece sono seguiti con azioni che non implicano un trattamento diretto del disagio.

È questo il senso della sempre maggiore frequenza con cui Tuzlanska Amica organizza laboratori e momenti di svago, nonché periodi di vacanza (soprattutto in Italia) per bambini e ragazzi. Ed è proprio in queste attività che diventa determinante la presenza di esterni che siano disposti a dedicare tempo e attenzione ai ragazzi. Per Irfanka Pašagić, la psichiatra che dirige Tuzlanska Amica, l’importante è proprio che i ragazzi abbiano l’occasione di stare a contatto con persone non traumatizzate. Tuttavia, spesso si tende a dimenticare questo aspetto: “l’UNICEF ha fatto un programma per insegnare ad ascoltare i bambini, ma si è dimenticata che anche gli insegnanti erano traumatizzati: accadeva che un bambino leggesse un proprio tema e l’insegnante si mettesse a piangere”, afferma la stessa Irfanka nel libro Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina8 .

Nonostante lo scetticismo iniziale, relativo soprattutto all’opportunità di far trascorrere vacanze estive in Italia ai ragazzini bosniaci per poi farli ritornare ai loro problemi in Bosnia, abbiamo potuto vedere con i nostri occhi che il metodo funziona, che la sfera emozionale di ragazzi traumatizzati dalla guerra, apparentemente indifferenti a tutto, scontrosi e chiusi in se stessi, può sbloccarsi anche attraverso una vacanza in Italia, o con la partecipazione ad un laboratorio estivo di animazione.

Questo aspetto ci è sembrato particolarmente interessante, perché mette in luce l’apporto positivo di una parte esterna, non coinvolta nel conflitto, quando essa sia disposta alla vicinanza e all’ascolto. Inoltre, costituisce un’ulteriore conferma che le prime caratteristiche di qualsiasi impegno per la costruzione della pace, sono, appunto, empatia e disposizione ad un ascolto vero.

Una concezione di giustizia

Appare evidente agli occhi di chi scrive che allo stato attuale di cose in Bosnia la pace è ancora molto lontana. Essa potrebbe scaturire, come vedremo, dall’utilizzo di strumenti politici e giuridici diversi da quelli applicati finora, che, nella migliore delle ipotesi, vengono giudicati inadeguati o quantomeno insufficienti. Quello della giustizia è infatti un tema ancora attualissimo in Bosnia: la stragrande maggioranza dei crimini commessi durante il conflitto sono infatti rimasti impuniti e nella quotidianità molti sopravvissuti al genocidio continuano a vivere fianco a fianco con i loro carnefici, mentre il Tribunale Internazionale ad hoc per la ex Jugoslavia per forza di cose si concentra principalmente sugli ideologi e mandanti del genocidio.

Tutto questo fa sì che complessivamente in Bosnia, o per lo meno tra i musulmani di Bosnia con cui chi scrive è entrato maggiormente in contatto, non vi sia fiducia nella giustizia. La gente comune9, se interrogata in proposito, si dichiara profondamente insoddisfatta del quadro, arrabbiata e una volta di più abbandonata dalla comunità internazionale.

Anche a livello politico, la situazione della Bosnia appare bloccata. Seppur a distanza di quasi dieci anni dalla fine della guerra, per la natura stessa della particolare forma di governo nata dagli accordi di Dayton, continuano a prevalere i timori nell’affrontare il dibattito sulle questioni tanto delicate10 della giustizia e non si notano sforzi concreti verso la riconciliazione nazionale.

E’ doveroso chiedersi: quale giustizia può esserci per la Bosnia? Quale formula giuridica potrebbe RISARCIRE un genocidio? Questa domanda è a nostro avviso cruciale, in un momento in cui appare chiaro che la pace- non la fine delle ostilità violente ma la ricostituzione del tessuto sociale in un paese che aveva grande tradizione di tolleranza e pluralismo è indissolubilmente legata alla giustizia.

Oggetto del dibattito è a nostro avviso il tipo di giustizia desiderabile o almeno accettabile, più che un generico anelito di giustizia.

Tra le tante prese di posizione sui temi della giustizia che abbiamo avuto modo di osservare e conoscere, ci ha colpito particolarmente quella dell’ Associazione Donne di Srebrenica (Zene Srebrenice). L’associazione, piuttosto nota a livello internazionale, soprattutto grazie al film “11 Settembre 2001”, paradossalmente è quasi sconosciuta agli abitanti di Tuzla. L’undici di ogni mese, in memoria del massacro compiuto l’11 luglio 1995 a Srebrenica, Zene Srebrenice si fa promotrice di una piccola silenziosa manifestazione tra le vie del centro storico di Tuzla. Abbiamo avuto modo di assistere alla manifestazione dell’11 agosto 2004 e di conoscere alcune componenti del direttivo dell’associazione. Donne che nel 1995 hanno perso mariti, figli, fratelli, genitori e che ora si battono per la giustizia e per la memoria, collaborano con il Tribunale Penale Internazionale per la Ex Jugoslavia, rappresentando uno dei principali attori bosniaci attivi nella ricerca della memoria e nella ricostruzione della verità storica.

L’associazione chiede che ogni crimine venga punito, che i colpevoli paghino di persona senza sconti o amnistie, spera in una giustizia che porti in galera tutti coloro che hanno commesso dei reati, dalle menti del genocidio ai vicini di casa che vi hanno partecipato marginalmente e chiede di avere delle tombe su cui piangere, perché “fin tanto che non viene seppellito un cadavere non è possibile elaborare un lutto”11.

Si fa riferimento ad un modello molto rigido di giustizia retributiva, basato sull’accertamento della colpa, sul procedimento secondo le regole del sistema giudiziario criminale occidentale e sulla punizione. L’applicazione di questo modello viene vista dalla Associazione Zene Srebrenice – e anche da moltissime persone che in questa associazione trovano la loro voce politica e sociale - come la conditio sine qua non per la pace e la riconciliazione. Tale vincolo è basato sull’irrealistica speranza di ottenere giustizia mettendo un’intera nazione, o meglio un buon 50% di essa, sotto processo. Progetto questo, politicamente, economicamente ed umanamente insostenibile.12

Gran parte della rabbia e della sensazione di essere stati abbandonati di cui ci parlano i bosniaci è appunto da ricondursi alla presa di coscienza del fatto che la comunità internazionale nella pratica non intende sostenere questo modello di giustizia retributiva13.

Inutile dire che, con queste premesse, l’associazione non può avere alcuna fiducia nel lavoro del Tribunale Internazionale ad hoc per la ex Jugoslavia, nonostante essa ne sia uno dei partner fondamentali per quanto riguarda la raccolta delle testimonianze e quindi la costruzione dell’impianto accusatorio. Questo per vari motivi. Innanzitutto il Tribunale sta limitando il suo mandato d’azione ai pochi grandi nomi noti per aver pianificato il genocidio e impartito gli ordini per attuarlo, ai criminali di guerra celebrati dalla propaganda militare, mentre non intende occuparsi di tutte le persone comuni che all’interno dei confini della Bosnia hanno commesso crimini comuni nei confronti di amici, vicini di casa, persone dello stesso paese.14

In secondo luogo il Tribunale utilizza il meccanismo della riduzione della pena per indurre l’imputato a fornire informazioni riguardo ad altri crimini commessi oppure utili alla localizzazione di fosse comuni. Tale scelta, peraltro diffusa in altri sistemi giuridici di democrazie occidentali15, viene ferocemente contestata dall’Associazione Donne di Srebrenica che con rabbia intravede le caratteristiche della farsa in questo tipo di soluzione.

Di fronte a tanto rigore nella pretesa di giustizia - una giustizia che porti all’ergastolo tutti i responsabili di tutti i crimini - la visione del futuro che si prospetta non è certo di pace e riconciliazione. E con questo non si intende di certo giudicare l’Associazione “Donne di Srebrenica” ( e tutti coloro che da questa associazione si sentono rappresentati) e neanche sminuire la loro pretesa di verità storica e giustizia. Men che meno si mira ad individuare responsabilità riguardo ad un processo di riconciliazione che non sembra decollare. Semplicemente, per chi scrive, di fonte alla tristezza infinita di questa situazione stagnante nasce spontanea la ricerca di alternative credibili.

Forse, ma è fin troppo facile costruire ipotesi quando non si è coinvolti emotivamente e non si hanno subito dei traumi in prima persona, il panorama sul futuro potrebbe essere meno desolante se in Bosnia venisse accettata e condivisa un’idea di giustizia diversa: una giustizia rigenerativa, che, come sostengono gli autori Cannito e Zehr, abbia come scopo quello di “identificare gli obblighi e di provvedere ai bisogni delle vittime per facilitare il processo di riabilitazione delle persone e riequilibrio dei loro rapporti” e che tenda “ad un più ampio cambiamento istituzionale, da strutture e programmi basati sul potere, a strutture e programmi basati sui rapporti”16.

1 Agli inizi, la fondatrice di Tuzlanska Amica, la psichiatra Irfanka Pašagić, si è avvalsa soprattutto del sostegno del gruppo “Spazio Pubblico di donne” di Bologna, attraverso il progetto “Ponti di Donne attraverso i Confini”. La storia di questa collaborazione, e del primo impegno di Tuzlanska Amica in favore delle donne, è raccontata, in parte, nel libro di Patrizia Brunori, Gianna Candolo, Maddalena Donà dalla Rose e Maria Chiara Risoldi Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina, San Cesario di Lecce, edizioni Manni, 2003.

 

2 La città di Tuzla, già dai primi anni della guerra, è diventata il punto di riferimento fondamentale e quindi anche il luogo di ricovero per profughi e sfollati provenienti da tutto il nord della Bosnia Erzegovina. La particolarità di Tuzla nel panorama bosniaco è data dal fatto che durante il conflitto i suoi abitanti hanno rifiutato le logiche di contrapposizione etnica e si sono mantenuti compatti, andando incontro all’isolamento della città, alla morte, alla fame ed al freddo uniti, come cittadini di Tuzla e non come musulmani, ortodossi, cattolici o ebrei. È stata anche questa opposizione al nazionalismo a rendere la città di Tuzla una sorta di “bacino di raccolta” degli sfollati.

  

3 Per informazioni più organiche sul processo di ritorno degli sfollati alle zone di origine si veda la ricerca dell’UNHCR “Survey on displaced persons in Tuzla canton from the Podrinje area, eastern Republika Srpska” del giugno 2003, alla cui realizzazione ha partecipato anche Tuzlanska Amica.

  4 Così vengono chiamati, senza ipocrisie terminologiche, coloro che adottano i ragazzi dei progetti di Tuzlanska Amica. Nonostante all’inizio il termine ci sembrasse troppo asettico, ci siamo ben presto rese conto che non intralciava minimamente il sorgere del rapporto affettivo che contraddistingue appunto il modo di lavorare di Amica.

  

5 Il contatto non a caso viene curato da delle donne, in quanto gli aiuti o il denaro dei progetti vengono in genere affidati alle donne delle famiglie beneficiarie. Nell’ottica dell’associazione è quindi preferibile coltivare un rapporto di fiducia da donna a donna.

  

6 L’intervento di cui parliamo è di Yael Danieli, psicologa, presidente della Società internazionale per gli studi sugli stress da trauma, e si trova in italiano nella rivista Una città, n. 83, febbraio 2000.

 

 7 Nell’originale: “I believe that adequate work with children war victims could best mitigate the intergenerational transmission of pathogenic emotions. Their parents should also be included in that work. Thus, the priority of psychological work in the countries of former Yugoslavia should be psychoterapeutic work with children who could then speak, express, and integrate their feelings and suffering connected with this war”. In Eduard Klain, “Intergenerational aspects of the Conflict in the Former Yugoslavia”, in International Handbook of Multigenerational Legacies of Trauma, a cura di Yael Danieli, New York e Londra, Plenum Press, 1998, p. 294.

 8 Op. cit, p. 120.

 9 Si riferiscono qui opinioni condivise da molti musulmani di Bosnia, opinioni registrate nei nostri incontri casuali di tutti i giorni, parlando con le persone incontrate nei villaggi, discutendo con i collaboratori di Tuzlanska Amica. Per questo, per semplificare, ci concediamo l’ utilizzo del termine generico “gente”.

 

10 L’intero impianto costruito sugli accordi di Dayton si basa infatti su una riconferma dello status quo: la stessa divisione del territorio in Federazione Musulmana di Bosnia e Republika Srpska ripropone la geografia politica del 1995 e almeno per il momento non lascia spazio a ridefinizioni. In tale contesto, con uno stato-nazione inesistente, un ordinamento basato su due entità diverse con grande autonomia reciproca, gruppi politici ed etnici contrapposti, dal peso tuttavia molto simile, l’iniziativa politica è bloccata.

 

11Irfanka Pasagic ha insistito moltissimo sull’argomento di seppellire i propri morti, tra l’altro ricorrente anche nelle dichiarazioni di molte altre persone incontrate. Cfr. Patrizia Brunori, Gianna Candolo, Maddalena Donà dalla Rose e Maria Chiara Risoldi, op. cit.

 

12 Ci limitiamo qui a fare riferimento ad alcuni aspetti pratici quali la capienza delle carceri, la carenza di fondi pubblici a disposizione della giustizia in uno stato appena uscito da un conflitto, la carenza di personale specializzato, di giudici, di forze di polizia… Non entriamo nel merito delle implicazioni politiche di una tale scelta.

 

13 Abbiamo tratto tali affermazioni da quanto detto da Nura Begovic e Hajra Catic durante i nostri due incontri con loro, a Tuzla, nella sede dell’Associazione Donne di Srebrenica, a metà agosto 2004.

  14 In generale secondo quanto affermato dall’Associazione Donne di Srebrenica il Tribunale, come del resto anche parte dell’opinione pubblica di orientamento revisionista, tenderebbe a cercare le responsabilità in Serbia, mirando esclusivamente ai pesci grossi e rinunciando così a priori ad accertare le ben più difficili responsabilità di cittadini bosniaci verso altri cittadini bosniaci

 
15 Basti pensare gli sconti di pena previsti per i “pentiti” di mafia.

 

16 Marinetta Cannito, Howard Zehr, “Una prospettiva di speranza” , in Quaderni Satyāgraha, n.4, dicembre 2003, p.92

  

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