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Caffè Sarajevo, reportage da Srebrenica

Oct 25, 2007, Lorenzo Anania, http://caffesarajevo.amisnet.org/2007/10/04/caffe-sarajevo-reportage-da-srebrenica
La strada è piccola, un po’ dissestata; tutto intorno sono legna, animali al pascolo, grandi montagne, donne e uomini che sembrano ripetere gli stessi gesti ormai da sempre. Il loro è il volto aspro e provato di chi vive in luoghi lontani dalla modernità. Gli sguardi che si incontrano sono uniti nel condividere con dignità il destino che li accomuna: disoccupazione, case ancora completamente trivellate dai proiettili e granate, cimiteri. I ricordi sono impressi anche negli occhi vitrei di Fathima, che nella lingua dei gesti mi indica le case dove vivevano i suoi fratelli e suo padre, tutti “kaput”. Siamo a Srebrenica, luogo del genocidio europeo di più larghe dimensioni dalla fine della seconda guerra mondiale.


I crudi dati servono giusto a rintracciare le grandi coordinate. La regione di Srebrenica, che prende il nome dalle sue miniere d’argento note anche agli antichi romani, dal 1993 era stata dichiarata dal Consiglio di sicurezza del Palazzo di Vetro “UN safe area” ed era popolata per il 75% da bosniacchi. Complice anche questa decisione, Srebrenica divenne un centro di accoglienza di molti sfollati mussulmani di buona parte della Bosnia e Herzegovina –BiH, confermandosi ancor di più come vera e propria enclave a pochi chilometri dal fiume Drina, che ieri come oggi segna il confine con la Serbia. Fino al 1995 Srebrenica contava almeno 30.000 abitanti, oggi sono appena 5.000. Dall’undici luglio 1995 quasi tutti i maschi sopra i 14 anni furono trucidati; le donne deportate e abusate. Il tutto avvenne sotto gli occhi chiusi della comunità internazionale e del contingente olandese delle Nazioni Unite posto in difesa della regione.


Dopo la guerra conclusa con gli accordi di Dayton, almeno 97.000 vittime sono state identificate in BiH. I corpi riesumati a Srebrenica, vittime di quei folli giorni di inizio luglio del 1995 e delle truppe comandate da Ratko Mladic e Radovan Karadzic, sono 8372… I puntini di sospensione sono d’obbligo visto che ancora molti corpi mancano all’appello del memoriale di Potocari. Ma guai a parlare di semplici numeri: tutte le vittime hanno nome e cognome, sono figli, mariti, padri e fratelli, uccisi con un colpo dietro la nuca dopo essere stati fatti inginocchiare. Il lavoro per la loro identificazione è stato e continua ad essere straziante quanto necessario per i sopravvissuti.

Chi non morì fu sfollato, fuggendo tra le montagne, in una disperata marcia che lasciava dietro i ricordi di generazioni. In pochissimi hanno fatto ritorno. Caso emblematico il sindaco in carica Abdurahman Malkic che, come i due terzi del consiglio comunale, non vive a Srebrenica bensì a Sarajevo, a circa 150 km di distanza.


“Ci sono state vittime anche tra noi serbi! Mio padre è stato ucciso dai bosniacchi perché non voleva lasciare Srebrenica. Forse la sua morte conta meno di quella di un padre mussulmano?” A squillare è la giovane voce di un serbo di Srebrenica che ha preso la parola durante la prima settimana dell’International Cooperation For Memory, svolta proprio nella città del genocidio alla fine di agosto 2007, 12 anni dopo i tragici fatti. La scommessa delle settimana era riuscire a parlare di Srebrenica a Srebrenica, dopo più di due lustri di silenzio, con persone intenzionate a creare una prospettiva di memoria condivisa, oltre la routine della commemorazione annuale. Una scommessa difficile che rientra nel più ampio progetto Adopt Srebrenica i cui attori principali sono Tuzlanska Amica –l’associazione della psicologa Irfanka Pasagic di Tuzla, cittadina bosniaca, che si occupa di traumatizzati dalla guerra e dei figli delle famiglie distrutte nel corso del conflitto- e la Fondazione Alexander Langer di Bolzano. Un azzardo, realizzato in condizioni difficili, in una città disastrata, dove poco funziona e che ha accolto con amicizia gli ospiti internazionali.

Durante la settimana della memoria a Srebrenica, per rinvigorire la necessità di un’elaborazione di una memoria condivisa, sono state avanzate prospettive, esperienze –la scuola di pace di Marzabotto- testimonianze –molto forte quella di Yolande Mukagasana, sopravvissuta al genocidio in Ruanda. Con un’ambizione: coinvolgere non solo le generazioni colpite dal genocidio, ma anche le successive.

Le questioni affrontate nei seminari -e più informalmente nei workshops di fotografia, scrittura e cucina bosniaca- erano apparentemente retoriche: ha senso parlare di come potranno vivere insieme i figli delle vittime e dei carnefici? E come farlo quando ancora i carnefici di Srebrenica non sono stati catturati e alcuni dei serbi che parteciparono al genocidio risiedono nelle case vicino a quelle delle vittime mussulmane? E ancora, si può assorbire un simile dolore in una sola generazione? La metodologia di lavoro langeriana ha permesso dei contributi non sempre banali ribadendo la giustezza dell’intuizione di Alex di non nascondere la memoria, ma connetterla alla vita; di inseguire la pace nel fuoco della guerra. L’utopia concreta è stata quella di pensare ad una via per superare la più grande causa di divisione: il dolore.

La settimana è stata intesa anche a rompere un ciclo perverso che sta portando alla cancellazione di una memoria, quella della strage di Srebrenica, attraverso le sentenze dei tribunali, della politica dei locali e una disattenzione permanente dei grandi paesi europei. Un revisionismo sempre in agguato, soprattutto nella “civile” Europa che vuole rimuovere le sue responsabilità nelle guerre balcaniche. Nel dicembre 2006 molti cittadini ed esuli di Srebrenica hanno raggiunto in autobus i Paesi Bassi per appendere uno striscione lungo 60 metri recante i nomi di tutti i morti identificati nel massacro. Un’iniziativa contro il conferimento di decorazioni ufficiali al merito ai caschi blu olandesi stazionati nel 1995 a Srebrenica. E ancora, lo scorso febbraio ha suscitato molta perplessità la sentenza emessa dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja che dichiara che “a Srebrenica è stato commesso un genocidio, ma la responsabilità non può essere fatta ricadere sullo stato serbo. Le prove raccolte” ha detto Rosalyn Higgins presidente dell’organo “non permettono di mostrare che questi terribili atti rivelassero uno specifico intento di distruggere la comunità musulmana di Srebrenica”. Perplessità ed inquietudine considerando che Slobodan Milosevicchi, organizzatore delle milizie serbo-bosniache di Mladic dalla Serbia, è morto in circostanze ancora da chiarire proprio nel carcere del tribunale dell’Aja.


Intanto Srebrenica, dopo il silenzio e la negazione, cammina verso i suoi ricordi, le memorie delle persone che l’hanno lasciata ma che ritornano, come Elvira Mujcic che per superare il suo trauma di cittadina di Srebrenica ha scritto, in italiano, l’introspettivo Al di là del caos (Infinto Edizioni) e che insieme allo staff di Roberta Biagiarelli -già autrice del monologo teatrale A come Srebrenica- stanno raccogliendo le storie delle feste religiose e di partito di una volta, prima della guerra. “Vogliamo che ci raccontiate i vostri i ricordi di felicità” recita una scritta in più lingue in una lavagna della Dom Kulture di Srebrenica, perché non è sufficiente il ricordo fine a sé stesso, si deve andare oltre e costruire relazioni di pace.

Quello in Bosnia è un viaggio indietro nel tempo, come se molto fosse rimasto immobile dopo la guerra, in attesa di trovare una digestione collettiva. Niente come Srebrenica caratterizza l’aggressione contro la Bosnia e Herzegovina, il negazionismo contemporaneo. Il ricordo collettivo e condiviso rappresenta una possibile via per una ricostruzione di un solido ponte con il passato. Non solo per chi ha direttamente vissuto il genocidio, ma anche per la comunità internazionale che deve accettare il pieno fallimento nei Balcani perché nell’Europa già dell’olocausto, non ci sia mai più un’altra Srebrenica.
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