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Intervista al giornalista Drago Hedl

26.8.2009, Luca de Beradinis e Antonio di Bartolomeo

“SOLO SE RIUSCIREMO A SUPERARE LE NOSTRE DIVISIONI POTREMO ENTRARE IN EUROPA”. COSI’ DRAGO HEDL SUI BALCANI. L’INTERVISTA CON UNO DEI PIU’ IMPORTANTI GIORNALISTI DELL’EX JUGOSLAVIA DURANTE LA TERZA SETTIMANA INTERNAZIONALE DI SREBRENICA

Che cosa ha significato essere un giornalista durante la guerra della ex-Jugoslavia? Quali pressioni ha subito da parte dei governi?

“Oggi lavorare come giornalista è sicuramente molto più facile di allora, anche se si è sempre sottoposti a pressioni quando bisogna riportare fatti che riguardano la politica o la corruzione, non è paragonabile a quello che accade in guerra. Lì un giornalista è sottoposto a un forte stress, in particolare quando scrive cose che le persone non vorrebbero sentire. Se io, croato, scrivo dei crimini di guerra, dei massacri che i serbi hanno perpetrato a danno del mio popolo, allora tutti vorranno leggerti e saranno contenti di quello che hai riportato. Ma se fai lo stesso parlando dei croati e dei crimini che hanno commesso nei confronti dei serbi, nessuno vorrà sentire quello che hai da dire e il tuo lavoro diventerà terribilmente difficile”.

Come si fa a svolgere durante la guerra il lavoro di giornalista? Come si è protetto dagli attacchi, dalle bombe e dagli estremisti?

“Prima di tutto è una questione di scelta. Ci sono tanti modi di fare il giornalista. Puoi raccontare la vita dei personaggi famosi, occuparti di business o altro. Oppure puoi scegliere di seguire vicende più complesse come la guerra o gli scandali politici. Quando ti occupi di queste cose devi aspettarti problemi. In particolare per me, la metà degli anni novanta hanno rappresentato un momento particolarmente rischioso. Non solo perché scrivevo dei crimini di guerra commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto, ma anche perché ho cercato di risalire la catena delle responsabilità di quei crimini, responsabilità politiche. Ed è ovvio che più vai in alto, più incominci a colpire personaggi influenti, più corri rischi. Le cose che vieni a sapere, investigando, possono essere potenzialmente esplosive e certi fatti, certi avvenimenti, se portati alla luce, rappresentano un vero e proprio shock per la popolazione”.

Il suo è un caso isolato nei paesi dell’ex-Jugoslavia, o ci sono altri giornalisti, in Serbia o in Bosnia, che si trovano spesso a dire cose scomode sulla guerra per i propri connazionali?

“No, no in tutti i Paesi della ex-Jugoslavia ci sono ottimi giornalisti che hanno criticato i propri governi e si sono attirati le antipatie di parte della popolazione per aver detto verità che non si volevano sentire. Penso, solo per fare un esempio ai serbi della tv B92 che a Belgrado hanno fatto e fanno tutt’ora questo tipo di lavoro. Anche in Bosnia o altrove ci sono giornalisti che vengono continuamente minacciati perché cercano di portare alla luce i crimini che i propri eserciti, i propri paramilitari hanno commesso durante la guerra”.

Comunque anche adesso non è facile fare il giornalista in Croazia dopo che il parlamento ha approvato una legge che punisce con il carcere chi rivela il contenuto delle indagini di polizia.

“Si questo è vero. Bisogna dire che fortunatamente la legge alla fine è stata approvata ed applicata in una sua forma più morbida. Infatti non è il giornalista che rischia il carcere ma l’ufficiale o l’autorità pubblica che passa queste informazioni. Certo questo ha significato comunque una limitazione della libertà di stampa perché magari ufficiali di polizia o politici dell’opposizione che hanno informazioni in questo senso non le divulgano.”

Oggi per la terza settimana internazionale di Sebrenica è stato proiettato il documentario, di cui è autore, “Vukovar: final cut”, relativo all’assedio e la caduta della cittadina croata da parte dei serbi nell’autunno del 1991. Che tipo di reazione ha suscitato questo lavoro?

“Sicuramente era difficile raccontare l’assedio di Vukovar. Si tratta di uno degli episodi più cruenti di tutta la guerra, parliamo di un evento che ha causato più di diecimila morti, che è durato quattro mesi durante i quali i bombardamenti hanno raso completamente al suolo la città. Abbiamo cercato di essere obiettivi, di far parlare i fatti e le immagini di quel terribile periodo. Penso che siamo riusciti a centrare lo scopo perché quando lo scorso anno il documentario è stato presentato sia al Documentary Festival di Zagabria che al Belgrad Film fest ha avuto un’ottima accoglienza”.

Come vede invece la Croazia del futuro? E che ruolo potrà avere l’Unione Europea nello sviluppo del suo Paese e di tutta l’area circostante?

“Sicuramente l’Ue sarà uno strumento importante in futuro per aiutare tutta la Regione a creare uno sviluppo positivo per le popolazioni. Ma questo è solo un passo successivo, prima ancora di poter parlare di Europa, prima di vedere la Croazia, come la Bosnia o la Serbia, far parte di quel sistema, dobbiamo risolvere i problemi che abbiamo qui. Ci sono ancora troppi muri e troppe divisioni che ci impediscono di avere una chiara visione del futuro. Se non usciamo da certe logiche non potremo mai fare quel salto che tutti si aspettano”.

Una serie di recenti omicidi ha destato molto clamore in Croazia. Un noto giornalista e la figlia di un politico sono stati ammazzati dalla mafia croata. Che cosa sta succedendo nel suo Paese?

“La situazione è molto critica, perché vede in Croazia non è che esista la mafia e lo Stato, ma la prima è ormai parte del secondo. Esiste una corruzione che a tutti i livelli ha permesso alle organizzazioni criminali di penetrare all’interno del sistema politico nazionale. Il brutale assassinio di Ivo Pukanic nell’ottobre scorso ha rivelato che le mafie non si fanno scrupoli di eliminare chiunque disturbi la loro attività e quella di chi fa affari con loro. Io credo che l’unico modo per uscirne sia promuovere quei valori di trasparenza e giustizia di cui si fa portatrice l’Unione europea. Entrare in Europa non basta dobbiamo anche adeguarci alle regole e agli standard che vigono nel vecchio Continente”.

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