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Ibu Robin Lim il 9 ottobre a Pescara. Un'intervista di Maria Rosa Tomasello
15.10.2006, Il Centro-10-10-2006
Ibu Robin Lim, l’ostetrica che ha soccorso le vittime dello tsunami «Il parto dolce farà nascere la pace»di Maria Rosa Tomasello
PESCARA. Quello in cui Ibu Robin Lim crede è che una nascita dolce, un parto sereno, possano segnare l’inizio del processo di pace nel cuore degli uomini e delle donne di tutto il mondo. Può sembrare, eppure la sua non è un’utopia. E’ una convinzione ferma, che nasce da trent’anni di lavoro in Indonesia, dove «l’ostetrica dai piedi scalzi» lavora, perché a tutti i bambini sia data la possibilità di nascere felici, con le famiglie povere e con i superstiti dello tsunami del 26 dicembre 2004, che spazzò via 280 mila persone. Il 29 settembre, a Bolzano, Ibu Robin ha ricevuto il premio internazionale intitolato ad Alexander Langer, il grande intellettuale, ambientalista e pacifista e ieri, nel suo viaggio in Italia, ha fatto tappa a Pescara.
In che modo una nascita non violenta può migliorare la condizione umana?
«Se c’è un trauma alla nascita, i nostri pensieri e i nostri sentimenti saranno separati, un taglio tra cuore e mente, e potrà essere necessaria una vita per guarire. Se danneggiamo una persona all’inizio della vita, questo lo condizionerà le sue capacità di costruire un mondo di pace. Se noi immediatamente tagliamo il cordone, portiamo via il bambino, e trattiamo male la madre durante l’esperienza della nascita, danneggiamo la relazione tra madre e figlio, e allora come potremo avere una società sana? Abbiamo bisogno di un parto medicalizzato solo se è davvero necessario. Ma se non serve, se non è malata, ogni donna compie il proprio viaggio eroico per avere un bambino. Quando il bimbo nasce, dovrebbe essere orgogliosa di se stessa».
Quindi dice no ai farmaci contro il dolore?
«Dolore e sofferenza sono due cose diverse: la sfida di una nascita naturale rende la donna molto eroica. Io ho dato alla luce tante volte. E’ stata una sfida, ma sono stata felice di averlo fatto così, e a casa».
Tutti i bambini dovrebbero nascere a casa?
«Sì, ad Aceh i bambini nascono anche nelle tende, non ci sono più case. Bisogna accogliere il bimbo nel mondo in famiglia, mentre in ospedale il piccolo viene portato via dalla madre, questo è completamente innaturale e crudele».
Perché avviene?
«Non so, sono protocolli crudeli. La tecnologia alimentare che si sta diffondendo nel mondo sta creando un nuovo tipo di diritti, ma ha distrutto la capacità delle donne di nutrire i bambini e ancora oggi la malnutrizione è la prima causa di morte a Bali, mentre è comune la morte per parto».
Come ha cominciato?
«È iniziato tutto quando sono diventata madre per la prima volta, a 19 anni. Sin da quando ero incinta ho sentito una sorta di “chiamata”. E poiché ho una formazione multiculturale, la mia è una famiglia molto mista e abbiamo viaggiato in tutto il mondo, è stato per me molto naturale cercare di usare la mia passione per promuovere la pace».
Lei è molto impegnata anche nella conservazione delle conoscenze tradizionali delle donne.
«Mia nonna aiutava le donne a partorire, conosceva bene le erbe e le medicine tradizionali, io ho seguito i suoi passi. Noi usiamo la medicina tradizionale ogni volta che è possibile nelle nostre cliniche e lavoriamo molto vicine, specie ad Aceh, ai guaritori e alle donne che hanno “poteri” e conoscenze tradizionali».
Conoscenze che le donne stanno perdendo...
«Naturalmente, perché i medici e gli ospedale fanno un sacco di soldi con la nascita, mentre se le donne scelgono la tradizione non ci sono soldi da fare. L’allattamento è un’arte ed è necessaria per far crescere bene un bambino, ma nessuno può farci i soldi, mentre si fanno grandi affari con i cibi artificiali».
E’ contraria all’uso del latte artificiale?
«Sì, perché penso che ogni donna con il giusto sostegno possa allattare, ha solo bisogno dell’aiuto dell’ostetrica e del supporto della famiglia e della società. Le donne rinunciano perché nessuno le aiuta, ma l’allattamento produce un ottimo essere umano, intelligente, di successo, sano».
Lei gestiva una clinica a Bali, ma dopo lo tsunami si è precipitata ad Aceh, nell’isola di Sumatra, per aiutare i sopravvissuti. Qual è stata la cosa più difficile?
«La maggior parte del tempo si vedevano madri e padri che dicevano: “Il mare mi ha strappato mio figlio, perché io devo continuare a vivere?”. Questa è stata la cosa più difficile. Allora noi abbiamo messo queste persone insieme, abbiamo dato loro un the da bere, qualcosa da mangiare, ascoltato le loro storie, aiutandole a ricominciare. Ci hanno dato un grande aiuto i teenager, ragazzi che sono venuti ad Aceh per aiutare: sapevano ascoltare e giocavano con gli orfani e li portavano in spiaggia perché tutti avevano paura dell’acqua, anche i pescatori. Hanno paura ancora oggi».
Che situazione c’è adesso?
«A dicembre saranno due anni, alcune case sono state ricostruite, a Banda Aceh la situazione è abbastanza buona, ma noi siamo a sud, sulla costa, vicini all’epicentro del terremoto: ci sono ancora persone che vivono nelle tende, tutti dipendono da quello che arriva dalla cooperazione internazionale e il cibo non è granché, ma è tutto quello che possono avere. L’acqua ha reso i campi salati e nulla può più crescere. Fortunatamente (sorride) nei campi di riso ora si possono allevare i gamberi».
Di cosa ha bisogno per continuare il suo lavoro?
«Sono arrivata qui per incontrare la gente e chiedere sostegno. A luglio-agosto siamo stati vicini a chiudere la clinica ad Aceh perché non avevamo fondi, a nessuno importava. Ma l’ostetrica che ha fatto nascere il mio primo figlio, trent’anni fa, ha trovato i fondi in California: un volta che hai avuto un’ostetrica, la conosci per il resto della tua vita e lei potrà aiutarti. Se avessi avuto il mio primo figlio in un ospedale, la clinica di Aceh avrebbe chiuso: è la bellezza delle donne che aiutano altre donne, significa instaurare un legame che dura tutta la vita, come le tre donne - musulmana, hindu e cristiana - che hanno partorito insieme nella nostra clinica e sono diventare “sorelle”».
Come ha reagito alla notizia del premio della Fondazione Alexander Langer?
«Quando ho ricevuto la chiamata dall’Italia ero sorpresa, abbiamo pianto, perché avevamo bisogno dei soldi, diecimila euro per noi sono molti...»
Come li spenderà?
«Terrò aperta la clinica».
Lei lavora con cristiani, musulmani e hindu. Crede nella possibilità del dialogo e della convivenza pacifica?
«Tutti pensano che i musulmani siano terroristi, ma stando ad Aceh, dove la maggioranza è musulmana, e abbiamo lavorato con 10-20 mila sopravvissuti, ho instaurato con tutti un rapporto di amicizia, tutti vogliono la pace, non ho mai incontrato un musulmano terrorista. Gli indu di Bali si sentono impegnati ad aiutare i loro fratelli musulmani ad Aceh, così i cristiani. Non so perché così tanti leader del mondo hanno deciso di fare dei musulmani un capro espiatorio, io credo che sia molto pericoloso, mentre l’unico modo di promuovere il benessere è incoraggiare le persone a fidarsi gli uni degli altri. Nella nostra clinica chiunque venga è accolto: è un’area di conflitto (la guerra civile tra governo e separatisti dura dal 1960, ndr), ma persone di entrambe le parti possono usare la nostra clinica, l’unica regola è che non portino dentro le armi. Io credo che occorra essere neutrali, non prendere mai parte e credere nella pace».
Qual è il suo sogno?
«Un sogno di pace. Ho sette figli, un nipotino e uno in arrivo, ho fatto nascere più di duemila bambini: spero che vivano in un mondo pacificato».
Abbiamo detto delle donne. E il ruolo degli uomini?
«Noi diciamo agli uomini che la cosa più importante è pensare al bambino, in ogni momento. Gli diciamo di avvicinarsi alla pancia della mamma e di cantare una canzone. E quando il bimbo nasce chiediamo alla famiglia di cantare una canzone della tradizione, ed è un bellissimo momento: la prima cosa che il bambino sente è una canzone di pace, mentre la prima cosa che succede a un bimbo di sentire in ogni ospedale del mondo è il proprio pianto mentre lo separano dalla madre. Gli indu credono che la prima cosa che tu senti nella vita, quando muori e la tua esistenza ti scorre davanti agli occhi, è l’ultima cosa che ricordi di questo mondo: per questo dovrebbe essere una canzone d’amore».