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BOUBACAR BORIS DIOP - MITTERAND SARA’ GIUDICATO
1.3.2004, da UNA CITTÀ n. 119 / Marzo 2004
Un gruppo di scrittori africani ha vissuto per due mesi in Rwanda per poi raccontare il genocidio. Il problema che pone l’uso della fantasia letteraria e di lingue leggibili da pochissime persone. Le responsabilità storiche gravissime delle potenze coloniali e quelle politiche, altrettanto gravi, della Francia rispetto al genocidio. Il pregiudizio razzista che l’Africa sia un problema in sé, che sia diversa. Intervista a Boubacar Boris Diop.Boubacar Boris Diop, romanziere e giornalista senegalese, è nato nel 1946 a Dakar. Consulente tecnico al Ministero della Cultura del suo paese, è stato professore di letteratura e di filosofia. Recentemente è stato tradotto in italiano il suo romanzo, Rwanda-Murambi. Il libro delle ossa, per le edizioni E/O.
Questo romanzo è nato dal soggiorno di un gruppo di scrittori africani in Rwanda. Puoi raccontare?
L’iniziativa, che si chiama “Rwanda: scrivere per dovere di memoria”, è nata sotto l’impulso di Nocky Djedanoum -uno degli scrittori del gruppo- e di sua moglie, Maïmouna Coulibaly. Secondo loro, gli intellettuali africani e in particolare gli artisti, non si erano ancora espressi con sufficiente determinazione sul genocidio rwandese. Hanno quindi voluto che la scrittura fosse messa al servizio della memoria per contribuire all’elaborazione del lutto. C’è da dire che l’impiccagione dello scrittore Ken Saro Wiwa ha avuto un peso non indifferente in tutta questa faccenda. L’esecuzione dello scrittore da parte del dittatore militare Sani Abachi risale al 1995, mentre a Lille si svolgeva il convegno annuale degli autori africani, Fest’Africa. Venne impiccato insieme ad altri compagni mentre si stava battendo in difesa dei diritti del suo popolo che, disgraziatamente, vive su una terra ricca di giacimenti petroliferi. Ken Saro Wiwa non si opponeva allo sfruttamento dei giacimenti, chiedeva semplicemente che anche il popolo Ogoni potesse trarne dei vantaggi, a livello economico, sociale e culturale. E’ stato considerato un nemico dello Stato e, in base a questa accusa infondata, condannato a morte insieme ai suoi otto compagni.
Questo fatto ci colpì profondamente. A parte il suo talento letterario, alcuni di noi avevano appena perso un amico. Seduta stante organizzammo una piccola cerimonia. Era comunque palese a tutti quanto la mano degli scrittori, africani e non, fosse impotente di fronte alle dittature sanguinarie. Irrisorie e ridicole erano le nostre urla di rabbia, così sostanzialmente lontane dai processi politici reali.
Dopo il convegno di Lille, segnato da questa tragica scomparsa, la riflessione proseguì. Mentre in Rwanda venivano uccise 10.000 persone al giorno, gli intellettuali e scrittori africani avevano mantenuto un vergognoso silenzio. Ma, a parte il genocidio, ci rendemmo conto che noi intellettuali africani, da tempo ormai, non prendevamo più posizione sulle dolorose vicende del nostro continente. Per viltà, per interesse, o per una cronica sottomissione avevamo abbandonato ogni forma d’intervento e di critica. Questa amara constatazione si trasformò, nel corso dei mesi, in un bisogno impellente di far sentire la nostra voce. Alcune discussioni con la comunità rwandese di Parigi ci convinsero della necessità di interessarci maggiormente al genocidio del 1994. Nacque in questo modo l’idea di invitare alcuni scrittori in Rwanda per un soggiorno.
Le cose non erano però così semplici come pensavamo. Ci sono voluti circa due anni per riuscire a convincere le autorità rwandesi, all’inizio reticenti, a lasciarci entrare nel loro paese. Bisogna anche dire che la presenza di un gruppo consistente di scrittori francofoni non li rassicurava per niente, dal momento che ai loro occhi la Francia aveva sostenuto i pianificatori del genocidio. Ad ogni modo, dopo i necessari chiarimenti, tutto è proseguito per il verso giusto.
Così Koulsy Lamko e Nocky Djedanoum del Ciad, Monique Ilboudo del Burkina Faso, Meja Mangi del Kenia, Véronique Tadjo della Costa d’Avoria, Abderam Waberi di Djibuti, Terno Monenembo della Guinea, Jean-Marie Vianney Rurangwa e Venuste Kayimahe del Rwanda e io del Senegal, siamo rimasti due mesi in Rwanda, nel luglio e agosto del 1998. Abbiamo visitato i luoghi del Memoriale del Genocidio, abbiamo discusso con le Ong, gli Avvocati senza frontiere e il Collettivo Pro Donne; abbiamo incontrato l’Associazione dei giornalisti e degli scrittori, e gli animatori del Policlinico della Speranza, che si occupa degli orfani e delle donne violentate durante il genocidio. Abbiamo anche tenuto alcune conferenze presso l’università di Butare e in alcuni licei e scuole elementari. Ci siamo ovviamente intrattenuti con i sopravvissuti -alcuni di loro fanno parte dell’associazione Ibuka- e con alcuni dei 120.000 detenuti accusati di aver partecipato, a diversi livelli, ai massacri. Larghi spazi del programma erano dedicati alla stesura degli appunti e alle nostre iniziative individuali. Mi preme sottolineare che non siamo stati condizionati in alcun modo, riuscendo a lavorare in tutta tranquillità. Sulle dieci opere previste, nove sono già state pubblicate. Manca all’appello solo Great sadness, di Meja Mangi, che l’autore ha già terminato. Non capisco perché il suo editore, nonostante Meja Mangi sia uno scrittore affermato, si rifiuti di pubblicarlo. Le nostre opere sono state presentate al pubblico rwandese nel giugno del 2000 durante un Colloquio internazionale a Kigali e a Butare. Il drammaturgo Koulsy Lamko, basandosi su diversi testi, ha creato un eccellente spettacolo teatrale dal titolo “Corpi e voci, parole, rizomi”.
Cammin facendo, intorno al progetto, sono sorte altrettante iniziative in altre discipline artistiche. Il regista camerunese François Wokouache ha realizzato un film di 150 minuti dal titolo “Noi non siamo più morti”, e un altro regista, il senegalese Samba Felix Ndiaye, ha realizzato un ambizioso documentario sullo stesso argomento, intitolato “Rwanda, per la memoria”. L’artista sudafricano Bruce Clarke sta progettando un gigantesco monumento in pietra, dedicato alle vittime, da erigere sulla collina di Nyanza, che vuole chiamare il Giardino della Memoria. La coreografa senegalese Geramine Acogny in questo momento è impegnata in una tournée in Usa con “Fagaagal”, uno spettacolo di danza tratto dal mio romanzo Murambi, le livre des ossements. “Fagaagal” è una parola wolof che significa appunto “genocidio, sterminio”.
Il tuo romanzo è in bilico tra realtà e finzione. Come hai voluto costruirlo e che importanza hai inteso dare ai due piani?
Mentre scrivevo Murambi dissi ad un amico che stavo scrivendo il mio romanzo con una forte dose di cinismo. Sul momento non ha capito cosa intendessi dire. Gli ho spiegato allora che questo romanzo procedeva nel disprezzo più assoluto della tecnica narrativa. Me ne fregavo completamente. Nei miei racconti precedenti avevo la sensazione di errare in un labirinto chiedendo al mio lettore di raggiungermi, insistendo: “Forza vieni, è un po’ pesante, intricato ma è tutto sommato così delizioso”. In questo romanzo è andata diversamente. Dopo quello che avevo visto in Rwanda, non avevo proprio voglia di imbastire formalismi inutili. Sarebbe stato veramente vergognoso da parte mia, una volta rientrato, dire: “Guardate che bravo che sono, che belle frasi che sono capace di scrivere con il sangue degli altri!”. Ciò che mi premeva era l’immediatezza narrativa. Per non spingere il lettore a chiudere gli occhi ho accuratamente selezionato le scene da descrivere. Di fronte ad una situazione così esasperata era forte la tentazione ad esagerare, e quindi ho evitato di cadere in questo tranello. In questo senso penso di aver scritto questo romanzo cercando di contenermi. Ogni qualvolta gli avvenimenti mi sono apparsi troppo crudeli e incredibili mi sono guardato bene dal parlarne. Non si può rimproverare alle persone di sentirsi terrorizzate di fronte alla sofferenza; il mondo è fatto così e noi preferiamo le partite di calcio ai genocidi. Al lettore piace credere che ciò che viene descritto nei romanzi sia frutto di invenzione poiché l’aiuta a sentirsi meglio, senza avere l’impressione che l’universo che lo circonda sia così spaventoso. A questo proposito vorrei citare un aneddoto. Poco prima che venisse pubblicato Murambi, ero stato invitato da alcuni amici svizzeri, Thomas Laely e Krummenacher, a una serata di lettura presso l’università di Zurigo. Una signora, non potendo sopportare alcuni passaggi, pur trattenendo la sua collera, a un certo punto sbottò dicendo: “Non leggerò il suo libro perché ho dei figli”. Sembrava che io fossi responsabile di quanto successo in Rwanda, per il semplice fatto che lo raccontavo! Sul momento non seppi cosa rispondere. Trascorsi alcuni mesi, dopo la pubblicazione del libro, ne abbiamo riparlato e le ho detto : “Lei non riesce a sopportare il racconto di questi orrori, ma si metta al posto di coloro che li hanno vissuti sul serio”. Ha capito. Aggiungo inoltre che Murambi, espedienti narrativi a parte, racconta una storia vera; i personaggi s’ispirano a persone che esistono realmente. L’obiettivo che avevo, mentre scrivevo Murambi, era quello di spingere ogni lettore a mettersi nei panni delle vittime, invece di credere che tutto fosse troppo orrendo per essere vero o troppo lontano perché potesse coinvolgerli. Ho anche pensato che mettere a nudo i personaggi avrebbe potuto caratterizzarli meglio. Inoltre, mentre scrivevo questo libro, ho sempre pensato ai giovani di ogni paese. E’ uno dei motivi per i quali, tra tutti i miei romanzi, è il più facile da leggere.
Prima di aderire all’iniziativa eri un po’ reticente ed eri indeciso se andare o meno in Rwanda.
Ero indeciso perché ero ignorante e perché avevo in qualche modo anch’io “minimizzato” la tragedia. Massacri, genocidio: le parole scivolano via da sole perdendo la loro vera accezione. Tutta questa gente che continua ad uccidersi: che cosa vorrà mai dire? Dopo essermi deciso avevo comunque pensato di limitarmi a prendere degli appunti per stendere un piccolo diario di viaggio.
Piombato in mezzo a questa tragedia sono stato colpito dalla forza dei pregiudizi. Avevo sempre pensato che hutu e tutsi fossero due etnie completamente diverse l’una dall’altra, ognuna con la propria lingua ed il proprio immaginario filosofico e religioso. Li immaginavo riuniti in uno stesso spazio per una malaugurata sorte della storia e di conseguenza incapaci, da millenni, di sopportarsi reciprocamente. Fino al mio romanzo Le Cavalier et son Ombre, apparso nel 1997, ero convinto di tutte queste baggianate. Nonostante la mia età e i miei studi ero un semplice ignorante! Mi sono quindi comportato come un bambino facendo domande del tipo: “Perché?” o “Com’è possibile che...”. Le risposte sono venute dai libri, ma soprattutto dalla bocca dei rwandesi. Il genocidio non è stata l’improvvisa devastazione di ataviche barbarie, ma al contrario l’epilogo di un lungo processo politico nato -non esito più a dirlo- dall’incontro di questo popolo con l’Occidente. Tutto ciò che è avvenuto in Rwanda dal 1959 in poi, non è altro che l’espressione delle malefatte del colonialismo belga e del neocolonialismo francese. L’etnologia razzista europea del XIX secolo ha anch’essa un’enorme responsabilità. E’ del tutto evidente la colpa dell’amministrazione coloniale, ma ancora di più della Chiesa. Si parla molto oggigiorno, in Occidente, d’integralismo islamico, ma ciò che è avvenuto in Rwanda è il risultato di un certo fondamentalismo cattolico. Imana è stato sostituito con il Dio cristiano e tutto d’un tratto i valori culturali rwandesi sono diventati una forma di paganesimo.
Nel tuo romanzo ci sono alcuni passaggi di un cinismo e di una crudeltà inauditi. Attraverso i dialoghi sembra che i tuoi personaggi, prescindendo per un attimo dal genocidio, evochino il dramma di un continente intero.
Io non credo che il genocidio rwandese rispecchi la situazione africana, ma allo stesso tempo è sintomatico della stato di sottomissione in cui versano diversi Stati africani. Per esempio, tornando al mio romanzo, uno dei personaggi, il colonnello francese Perrin che è incaricato di portare in salvo il sanguinario dottor Karekezi, riassume in sé il dramma africano: un esperto militare straniero, europeo, che di fatto è il vero padrone del paese. Una denuncia simile l’avevo già sviluppata nel mio primo romanzo Le Temps de Tamango. Tornando al Rwanda, io dico che le condizioni politiche erano ormai mature affinché un popolo sprofondasse nell’orrore. Una violenza politica su così vasta scala e con tali alibi ideologici, nel caso preciso del Rwanda, affondava le sue radici all’estero. Non lo dico per il gusto del paradosso.
Il vero dramma consiste nel fatto che le élites africane siano state colpevolizzate al punto da perdere la propria lucidità. L’ho constatato più di una volta nei discorsi di molti intellettuali: il genocidio non è una bella cosa ma non bisogna prendersela con gli altri, siamo noi ad essere fatti così. Ah, sì? E come saremmo fatti? Nessuno osa rispondere a questa domanda, perché si arriva a un punto in cui la riflessione si annebbia, impaurita da ciò che potrebbe scoprire. Tanti sostengono che noi siamo “così” ma nessuno sa “come” siamo. Tanti intellettuali hanno interiorizzato la loro alienazione a tal punto da aver fatto proprie addirittura certe teorie razziste sull’Africa. Questo è ancor peggio di una sconfitta politica e militare e potrebbe mantenerci incatenati ancora molto a lungo.
Sarebbe opportuno recuperare Cheikh Anta Diop. Al centro del suo pensiero politico vi è l’idea che nessun paese debba essere venduto e che, se noi oggi siamo caduti in disgrazia, non è perché siamo indipendenti, ma perché non lo siamo mai stati.
Tu accusi esplicitamente la Francia di aver collaborato e coperto il genocidio...
In Rwanda, per tre mesi, sono state assassinate 10.000 persone al giorno. Gli africani non si sono quasi accorti di nulla. Io francamente mi sono chiesto, con una certa apprensione, come siano riusciti a nasconderci un milione e passa di cadaveri. La frammentazione del continente africano in diversi stati, più volte denunciata da Cheikh Anta Diop e Kwame Nkrumah, si ripercuote, ai giorni nostri, con conseguenze del tutto inaspettate. Una di queste è che l’Africa viene informata, riguardo ai propri problemi politici, dai paesi del Nord. Per quanto strano possa sembrare, molti africani francofoni sono venuti a conoscenza del genocidio rwandese attraverso i comunicati dell’ Agence France Presse, i servizi dei grandi quotidiani francesi e i telegiornali di Patrick Poivre d’Arvor e Bruno Masure. La stampa libera africana, ancora in fase nascente, non possedeva i mezzi per contrastare questa tendenza, e non è neanche detto che ne avesse poi tanta voglia. La verità è che, a forza di fallimenti, l’intero continente non ha più fiducia nelle proprie capacità: qualunque cosa succeda, gli analisti e i commentatori africani lo imputano alla nostra misteriosa incapacità di adattamento al mondo moderno, come se fosse un’antica maledizione.
Gli strateghi francesi sono riusciti a collaborare in maniera così stretta con i genocidari rwandesi, proprio grazie alla nostra insensibilità: specie di strana inettitudine a percepire la differenza fra la vita e la morte.
La Francia si è trovata, dall’inizio alla fine, accanto agli organizzatori del genocidio e la stessa stampa francese ha attribuito a Mitterand alcune terribili dichiarazioni. E’ nota la famosa frase riportata da Patrick de St Exupéry, su Le Figaro del 16 gennaio 1998: “In quei paesi, un genocidio non è poi così importante”. Io allora penso che il Rwanda sia un’ulteriore occasione per riflettere su noi stessi e sui nostri rapporti con gli altri.
Detto questo, ho l’impressione che la Francia sia molto più traumatizzata dall’esperienza rwandese di quanto voglia ammettere essa stessa. Si rifiuta per esempio di presentare le sue scuse al popolo rwandese, come invece hanno fatto il Belgio, l’Onu, gli Usa e l’organizzazione dell’Unità Africana. I francesi sanno di essere sotto accusa, e questo non è piacevole per una nazione che si considera la patria dei diritti dell’uomo. Ho letto integralmente il rapporto della Mission d’Information del Parlamento francese sul Rwanda. Si tratta di un lavoro vergognosamente ipocrita per la sua manifesta volontà di sdoganare, ad ogni costo, il governo francese. Tuttavia i fatti sono, a volte, così schiaccianti, che qualcuno ha ritenuto necessario lanciare l’allarme. La Mission Quilés ha chiesto che vengano rivisti gli accordi, in materia di difesa, tra la Francia e gli Stati Africani. Ha inoltre preteso che d’ora in avanti il Parlamento venga coinvolto nella gestione delle relazioni con l’Africa.
Non mi sembra ragionevole però sperare in un ribaltamento dall’interno della Françafrique. I politici ben conoscono gli interessi, a lungo termine, dell’ex colonizzatore. E’ bene ricordare che l’Africa è stata conquistata e mantenuta per secoli in servitù, attraverso il controllo delle sue classi dirigenti. Lo stesso metodo continua a essere applicato con successo. Oggi il lavoro si fa nell’ombra, ma con un’efficacia anche maggiore, tanto più che ora si può dire che ogni paese africano è indipendente, e quindi, invece di accusare gli altri, deve assumersi la propria storia. A Biarritz, Mitterand dichiarò: “Cosa può fare la Francia, se dei capi africani decidono di risolvere i propri problemi usando il machete?”. Un argomento quasi inattaccabile, perché ogni protesta sembra una forma di vittimismo. Ciò nonostante, quanto avvenuto in Rwanda è una faccenda così grave e il governo francese si è spinto così lontano, che non può sperare di tirarsene fuori facilmente. Nonostante l’embargo delle Nazioni Unite, ha consegnato delle armi al governo genocidario e ha addestrato l’esercito rwandese, svolgendo inoltre un intenso ed efficace lavoro diplomatico. Come dimenticare che il governo che ha messo in atto il genocidio è stato costituito presso l’ambasciata francese di Kigali, subito dopo la morte del presidente Habyarimana? Ciò dimostra quanta influenza avesse all’epoca la Francia sui genocidari e quanto le sue scuse sarebbero oggi doverose e gradite. Tra qualche settimana uscirà un saggio di Patrick de St Exupéry, che è uno dei migliori conoscitori del coinvolgimento della Francia in Rwanda. La sua opera -L’inavouable, la France au Rwanda- rischia di scatenare un pandemonio. Insomma, la strana profezia di Jacques Julliard -“Guardiamo le cose in faccia: Mitterand verrà giudicato per il Rwanda”- annunciata in uno dei suoi editoriali sul Nouvel Observateur, rischia di avverarsi.
Recentemente il quotidiano Le Monde ha reso pubblici gli atti finali dell’inchiesta del giudice Bruguière sull’attentato del 6 aprile 1994 all’aereo in cui viaggiava il presidente Habyarimana, in cui si accusa l’attuale presidente rwandese Paul Kagame, che avrebbe agito con lo scopo di far scatenare il genocidio per poi vincere la guerra...
Ogni volta che si avvicina l’anniversario del genocidio le autorità francesi vanno in tilt. Il decimo anniversario è l’occasione per esasperare ulteriormente questa loro denuncia. Trovo scandaloso che un quotidiano come Le Monde si presti a questo gioco. Affermare che sarebbe stato Paul Kagame a far abbattere l’aereo significa sottintendere che i tutsi, pur avendo sofferto, se la sono voluta. Come africano, sono scioccato per questa accusa di chiaro stampo razzista. Bisogna proprio avere una pessima opinione degli africani, per immaginare che uno dei loro capi di Stato abbia deliberatamente sacrificato un milione di persone pur di prendere il potere.
Un tale ragionamento parte dall’idea che, anche se si lanciano le accuse più gravi contro gli africani, ci sarà sempre qualcuno pronto a crederci, anche in assenza di prove. Il fatto che queste accuse vengano pubblicate esattamente in questo momento, alla vigilia del decimo anniversario del genocidio del ’94, è indice di un certo malessere e nervosismo. La ritengo comunque una battaglia persa: i rwandesi non accetteranno che si sputi ancora veleno sulle proprie vittime. Questa accusa è un grave insulto al dolore dei sopravvissuti. Per fortuna la società civile francese si è mobilitata per ottenere la verità sulla partecipazione del suo governo nell’ultimo genocidio del XX° secolo.
Il governo francese dovrebbe semplicemente presentare le proprie scuse al popolo rwandese. E’ inammissibile che si facciano questi giochetti politici in presenza di un milione di vittime.
Il genocidio in Rwanda ha segnato per te una svolta, come uomo e come scrittore.
Il genocidio rwandese mi ha fatto meditare e mi sono vergognato di me stesso. Mi sono vergognato della mia ignoranza e del mio disimpegno politico. Studiando e analizzando il genocidio ho preso consapevolezza della nostra disfatta culturale poiché, all’origine del genocidio c’è appunto questo, e noi, scrittori africani francofoni, molto di più degli scrittori africani anglofoni, ne portiamo il peso e la responsabilità. Una disfatta culturale che passa innanzitutto attraverso la lingua. Per anni mi sono crogiolato dei miei successi letterari, all’interno dell’universo della francofonia, trascurando l’impegno e la riflessione sulla storia contemporanea africana.
Questo è un atteggiamento comune agli scrittori francofoni: passività e sottomissione al nostro ex paese colonizzatore. Gli scrittori anglofoni dimostrano una maggiore autonomia, una maggiore fierezza della propria identità, infatti quando ci si incontra ci guardano sempre con un certo disprezzo. E’ per questo che ho deciso di scrivere in wolof, la mia lingua madre, un romanzo intitolato Doomi golo. Scrivendo in wolof si assume anche una posizione politica. Il Senegal è stato una colonia francese per tre secoli. E’ un paese povero e la presenza francese è ancora molto forte sotto tutti i punti di vista. La volontà di emancipazione passa attraverso il ritorno alla propria lingua. Essa infatti è stata al centro di tutte le lotte politiche. A Soweto, i neri in rivolta dicevano: “Non vogliamo più che il nostro insegnamento avvenga in afrikaans”. Noi viviamo in un’epoca in cui nessuno accetta di rinunciare alla propria lingua: basti guardare all’Europa, che pur avendo una moneta unica, è un mosaico di lingue. In Senegal, pur essendo il francese la lingua ufficiale, nessuno lo parla nella vita quotidiana. Da un punto di vista letterario abbiamo quindi la seguente situazione: durante la giornata il romanziere parla una lingua, invece quando scrive deve dimenticare le parole che sente quotidianamente. Ma le parole che giacciono in fondo ai dizionari non hanno lo stesso sapore di quelle che vengono emesse dalla bocca degli esseri viventi. A questo punto mi si chiede: “Chi leggerà mai tutti questi libri in wolof, pulaar o in barbara?”. L’argomentazione, sebbene sensata, non mi convince molto. Infatti l’idea, oggi così diffusa, che un romanzo debba essere letto da tutti, mi sembra abbastanza stupida. Le più grandi opere della letteratura sono state conosciute, sia mentre era ancora in vita l’autore, sia, a volte, diversi secoli dopo la sua morte, da un numero limitato di persone. Un testo si impone nel corso del tempo e il suo pubblico cresce molto lentamente, nel dolore e nella durata. Ho incontrato a Parigi, in ottobre, un autore mozambicano, Mia Couto. Mi ha raccontato che un suo amico ha scritto un romanzo in una delle lingue del Mozambico, ed è riuscito a vendere solo due copie. Noi siamo scoppiati a ridere, e in quel momento gli ho ricordato il caso di Van Gogh.
C’è poi un’altra considerazione da fare, e cioè che scrivendo in francese il riconoscimento e la legittimazione avvengono fuori dal proprio paese e dal proprio continente. Invece, con Doomi golo i lettori sono, in un primo momento, più omogenei.
Quello che posso sperare, di questo mio romanzo in lingua wolof, è che sia abbastanza valido per meritarsi di essere tradotto tra una decina d’anni in italiano, in kiswaili o in yoruba. Io sono molto felice per le reazioni che ha suscitato finora. Non bisogna dimenticare che il Senegal è il paese di Cheikh Anta Diop e, ancora oggi, diversi autori, editori e linguisti, come per esempio Aram Fall, stanno svolgendo un lavoro molto importante. Doomi golo è il romanzo a cui sono più affezionato.
Non escludo la possibilità di continuare a scrivere in francese, pur essendo persuaso che la lingua francese non sentirà di certo la mia mancanza, vista la schiera di accaniti difensori di cui dispone fuori dai suoi confini!
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