Una Città - Diario di Angalià 2015
Articolo di Ghiorgos Tyrìkos-Ergàs, Katerina Efstathìu Selàcha, Elèni Efstathìu Selàcha
tradotto da Umberto Cini
L’incredibile e commovente diario dell’associazione Angalià, situata nell’isola di Lesbo, che nel giro di poche settimane è passata dal seguire i locali messi in difficoltà dalla crisi allo sfamare e dare riparo a migliaia di profughi in fuga verso l’Europa; l’enorme responsabilità che toglie il sonno, la fame, talvolta la salute e al contempo la scelta, fermissima, di non accettare finanziamenti nazionali e comunitari e di non “fare cassa”. Di Ghiorgos Tyrìkos-Ergàs e Katerina ed Elèni Efstathìu Selàcha.
L’isola di Lesbo ha una superficie di 1630 chilometri quadrati, che ne fa l’ottava isola del Mediterraneo in ordine di grandezza. Le sue coste settentrionali e orientali sono addossate alla massa continentale anatolica, dalla quale in certi punti distano meno di sei miglia nautiche. Con una popolazione di 85.000 abitanti, di cui poco meno della metà concentrati nel capoluogo (Mitilene, nome che si applica talvolta anche all’intera isola), Lesbo vanta una buona produzione olivicola e ha una zootecnia discretamente sviluppata. Celebri le sue distillerie, che producono un ouzo finissimo. Il turismo, che patisce dei collegamenti difficoltosi e di una stagione più breve rispetto ad altre destinazioni dell’Egeo, ha una presenza modesta.
Dall’inizio dell’anno a oggi (12 novembre) si calcola che metà dei profughi sbarcati in Europa, soprattutto siriani ma non solo, siano passati da Lesbo: 400.000 su 800.000, ma le cifre continuano a crescere. Nei momenti di massima congestione, dovute a difficoltà nei collegamenti marittimi con il Pireo, questa folla dolente è arrivata a rappresentare più d’un terzo della popolazione dell’isola.
L’Ong "Angalià” (in greco "abbraccio”) è stata fondata nel paese di Kallonì, situato nella parte centrale dell’isola, da un prete del posto, Papa-Stratìs (che potremmo tradurre come "don Eustràtio”), nel 2007. Concentratasi inizialmente nell’assistenza alle vittime locali della crisi economica, Angalià ha preso a occuparsi anche dei profughi, che prima alla spicciolata, poi sempre più in massa, hanno cominciato a sbarcare a Lesbo. Papa-Stratìs è morto di cancro ai polmoni all’inizio del settembre scorso, in piena crisi migratoria. La cronaca che segue, ripresa dalla testata online di Lesbo Lesvosnews (www.lesvosnews.net) è firmata da Ghiorgos Tyrìkos-Ergàs, attualmente portavoce di "Angalià”, e da altre due volontarie.
Sei mesi di solidarietà con "Angalià”
Domenica 1° novembre 2015: "Cronaca di un semestre tragico”.
È a maggio che è cominciata la fiumana dei profughi. Sono ricomparsi a Kallonì. Da allora fino a giugno è stato necessario lanciare appelli drammatici per ricevere soldi. Appena pochi mesi prima, quando ci davano 50 euro sorridevamo con Papa-Stratìs perché avevamo "i quattrini”: con l’avvento della crisi ci è toccato pagare di tasca nostra per garantire integralmente il funzionamento elementare di "Angalià”. Ci davano 50 euro e ci pareva una gran notizia. La gente offriva vestiti, ma soldi no. Le cose però sono cambiate come mai prima era successo. I numeri erano spaventosi. Mentre negli anni precedenti avevamo 60-70 profughi al mese, o anche meno, d’improvviso ci siamo ritrovati con 60-70 persone al giorno. Chi l’avrebbe detto che in poco tempo saremmo arrivati, in una sera, a doverci occupare di mille persone stremate? Chi l’avrebbe mai detto… Il magazzino che avevamo accanto al commissariato di Kallonì l’abbiamo aperto per far entrare la gente: profughi afgani, siriani, somali, iracheni, palestinesi, pakistani, persino dello Sri Lanka. È stato un giugno piovoso, non ci reggeva il cuore di lasciare le famiglie all’addiaccio e i pianali di scatolame al riparo.
Dov’è andata tutta questa gente, migliaia, e come ce l’abbiamo fatta? Facendo una stima per difetto del loro numero (calcolato in base a quanti toast abbiamo preparato), da maggio a oggi sono passate più di 17.000 anime. Più gente in sei mesi di tutta quella che avevamo soccorso negli anni precedenti. Questo periodo è stato segnato dalla morte di Papa-Stratìs. Abbiamo perso l’ispiratore, la guida, l’amico. L’uomo che era l’anima di "Angalià”. Senza di lui non esisterebbe nulla e noi non saremmo che dei volontari anonimi.
Negli ultimi, difficili mesi abbiamo informato quotidianamente la gente, allertato, lanciato appelli, pregato, minacciato. Gli appunti raccolti sono il nostro lascito. Il "Diario di Angalià” o, come lo chiamiamo fra di noi, "Antidoti alla bruttezza”. Questi testi hanno fatto conoscere la situazione che stavamo vivendo, le nostre paure, i nostri sogni, parlando di un mondo d’infinita umanità, di bontà ma anche d’insensibilità. L’azione instancabile di Papa-Stratìs, pur nella malattia, ha seguitato a dare slancio a tutto quanto. Siamo andati avanti sapendo che due erano le cose importanti: che nessuno se ne andasse da Kallonì affamato o disperato e che il mondo sapesse cosa stava succedendo. In contrasto con la legge, scordandoci orari, stanchezza, contro le esortazioni dei familiari e degli amici, abbiamo fatto infinite volte avanti e indietro con le nostre auto e con altri volontari, a spese nostre e correndo il rischio di essere messi dentro come trafficanti (questo prima del disegno di legge sulla cittadinanza che ha consentito ai volontari di trasportare i profughi fino ai centri di registrazione), e abbiamo caricato donne e bambini dalla strada per portarli ad "Angalià”. Gente inseguita dalla guerra e dalla povertà, che camminava per chilometri e chilometri, persino da Sigri [approdo situato a 100 km dal capoluogo di Lesbo, ndt] per arrivare a Kallonì. Messaggi su Facebook per radunarci, una telefonata e via. Aghìa Marina, Archea Àndissa, Skalochori, Petra, Mòlivos, tutta la parte nord di Lesbo. Due o tre viaggi ogni volta... e poi ad "Angalià”, per prestare assistenza a persone che avevano bisogno di mangiare, riposarsi e rimettersi in sesto per poi farsi altri 45 chilometri a piedi fino a Mitilene. Quante volte siamo stati svegliati da telefonate a metà nottata? Ci chiamavano dai semplici cittadini fino alla polizia e alle organizzazioni grandi e potenti. Noi correvamo per tutti. Quante volte abbiamo raccolto per la strada gente mezza morta? Ricordiamo ancora il bimbo di tre anni che piangeva sopra la madre svenuta di stanchezza alle Saline di Aghìa Paraskevì, vicino alla cabina che hanno costruito per i bird watchers... Ad "Angalià” dovevamo fare un lavoro rapido e metodico: non c’erano solo i profughi che trasportavamo con le auto, questi erano pochissimi in proporzione, la maggioranza arrivava per conto proprio. Occorreva innanzitutto vedere se qualcuno aveva urgente bisogno di un medico. I casi difficili li mandavamo al Centro sanitario di Kallonì, aspettavamo di vedere se tutto era a posto o se occorreva portare la persona a Mitilene. Se le cose si mettevano male, chiamavamo un taxi, che con la diagnosi del medico partiva sparato per l’ospedale del capoluogo (le ambulanze avevano sempre la benzina razionata).
Nei casi più facili (insolazioni, scottature, disidratazioni, dolori, colpi di freddo) somministravamo semplicemente antidolorifici e pomate; chi si ricorda quanti piedi piagati abbiamo curato, lavato e fasciato con le nostre mani, mentre i profughi facevano smorfie di dolore. Poi dar da mangiare. Poi capire dove mettere a dormire donne e bambini, quantomeno non sul cemento. Un’angoscia e una lotta quotidiane. Al principio noi quattro da soli e quattro-cinque volontari che ci sono stati accanto nei momenti facili e in quelli difficili. […] Un periodo da incubo. Anche il nostro paese stava attraversando una fase difficilissima che pesava su tutti noi, ci consumava i nervi. Eravamo abbastanza ingenui da credere che, facendo quel che facevamo, tra le altre cose assolvessimo il nostro dovere patriottico, dessimo la nostra parte di sostegno a una speranza di cambiamento che ancora stiamo aspettando. Elezioni, negoziati, referendum... e poi, con i Capital control, a un certo punto, non potendo riscuotere i soldi ricavati dai nostri appelli, abbiamo cominciato a chiedere aiuto a parenti e amici -come se negli anni precedenti non li avessimo già assillati abbastanza. Di nuovo, per ragioni ideologiche, non abbiamo accettato alcun finanziamento da fondi nazionali o comunitari. A quel punto, alcuni nostri amici dall’estero, ma anche l’Irc (International Rescue Committee), sono arrivati come un deus ex machina e ci hanno aiutato acquistando per noi le provviste, pagando in anticipo frutta, pane, medicine. Allora abbiamo visto il nostro compaesano sconosciuto, con cui mai avevamo avuto rapporti, metterci in mano cinque euro dicendo di non averne altri e che dobbiamo insistere. Allora abbiamo visto persone che non ci avevano mai rivolto la parola arrivare con borsate di arance; pastori, gente di fatica e addirittura migranti economici che vivevano nelle ristrettezze, portare alimenti tutti i giorni a fine lavoro e lasciarli alla chetichella ad Angalià; abbiamo visto contadini trasportare ad Angalià delle famiglie in macchina e dirgli, quando scendevano, "buona fortuna ragazzi”. Abbiamo visto un popolo intero non perdersi d’animo davanti alle banche chiuse e pensare allo "xenos” affamato, allo "xenos” perseguitato non per altro, ma per amor proprio e nobiltà d’animo. Abbiamo visto la Grecia, abbiamo visto il contrappeso alla nostra disperazione e l’antidoto al veleno che ci fanno bere. Non possiamo descrivere a parole l’umanità che hanno visto i nostri occhi. E i numeri dei profughi continuavano ad aumentare.
A fine agosto siamo arrivati ad avere ogni giorno, in due o tre mandate, centinaia di persone mentre la nostra resistenza fisica e psichica si andava esaurendo. Papa-Stratìs era in difficoltà e, ciò nonostante, sempre davanti alla nostra sede per vedere i bisogni e darsi da fare, sempre in contatto con noi. Abbiamo festeggiato ad Angalià i nostri compleanni in compagnia di siriani e afgani. Abbiamo perso peso in modo innaturale, una piccola influenza si tramutava in spossatezza totale e gastroenteriti, la sera il sonno non arrivava e la notte era piena di incubi, vedevamo scolari uscire in strada e li prendevamo per profughi con lo zaino... E quando si strapazza così tanto il corpo, iniziano altri problemi. Vedere ogni giorno bambini stremati, ragazzini come tuo figlio spossati e non poter fare granché, sentire ogni giorno la pena del popolo della guerra, chiedersi con angoscia come aiutarli, come nutrirli... Alcuni di noi erano più forti, altri hanno avuto bisogno di sostegno, di parlare -e ancora lo fanno- con assistenti psicologici. A quel punto, seguendo il buon senso e i consigli di amici specializzati nell’affrontare crisi del genere, abbiamo avviato un enorme sforzo per organizzare il movimento volontario, per far venire gente a dare una mano. Ne abbiamo ricavato un vantaggio pratico, perché da soli ormai non ce la potevamo più fare, ma anche qualcosa di forse più importante. Abbiamo sempre creduto che nulla sarebbe cambiato se non si fosse saputa la verità. A chi voleva aiutarci dicevamo questo: "Non mandateci soldi o vestiti, venite per poter poi raccontare la storia”. Una storia che tutti devono sapere, e di prima mano. Questo nostro appello ha avuto una risonanza sconvolgente. Decine di volontari da tutta la Grecia e anzi da tutto il mondo sono venuti ad affiancarci unendo la loro solidarietà a quella di centinaia di altri che da ogni angolo della terra ci stavano accanto inviando vestiti, denaro o semplici messaggi di vicinanza. Secondo i nostri calcoli, in questi mesi sono passati da Angalià più di quattrocento volontari. Se esiste un’Europa dei popoli, l’abbiamo vista quest’estate. Esiste.
Intanto i numeri dei profughi aumentavano ancora e ancora. Fino all’ingestibilità. Un piccolo gruppo non può sostituire lo Stato, è impossibile sul piano pratico, malsano sul piano sociale e politicamente sbagliato! Ciò però si verificava su vasta scala, non solo in relazione al nostro gruppo, ma anche ad altri gruppi di volontari dell’isola. Dappertutto erano i volontari a togliere le castagne dal fuoco. Ovviamente nel mutismo generale, con la luminosa eccezione del sindaco di Lesbo e di alcuni esponenti locali che si sono dimostrati all’altezza della situazione e a volte anche al di sopra.
È arrivato un momento in cui i profughi, da tanti che erano, dormivano nel ricovero di "Angalià”, nello spiazzo davanti al commissariato, nei campi intorno e nello spazio del negozio del sig. Charitos -una persona che ha visto la sua impresa andare in malora, il suo spazio personale invaso tutti i giorni e che neanche una volta s’è lamentato con noi, anzi s’è dato da fare per raccogliere l’immondizia, fare coraggio ai profughi, fare le telefonate per noi in caso di bisogno.
Intanto le autorità locali, il governo, l’Ue andavano per la loro strada. Sono passate 17.000 persone da Kallonì: hanno dato fastidio a qualcuno? Grazie ad Angalià, sono passate e se ne sono andate e gli auguriamo buona fortuna, un futuro migliore. Intendiamoci, non abbiamo fatto tutto questo perché i nostri compaesani non fossero infastiditi. L’abbiamo fatto per alleviare ai profughi il pesante fardello della loro odissea, e perché ormai l’impegno, dopo dieci anni accanto a Papa-Stratìs e ai profughi, era diventato parte della nostra identità.
Il 12 settembre 2015 abbiamo lanciato un appello per chiedere alla gente di smettere di mandarci soldi e alimenti. Se il ritmo delle donazioni in arrivo si fosse mantenuto, avremmo raccolto più di quanto eravamo organizzativamente capaci di gestire. Abbiamo fatto un semplice ragionamento: è inammissibile che un piccolo gruppo, a causa della sua troppa popolarità, disponga di un volume di denaro e di materiale che è impossibile spendere con giudizio, in modo mirato e rapido, quando altri gruppi, da altre parti, mancano dell’essenziale. Non volevamo "fare cassa” mentre c’erano e ci sono migliaia di bisognosi. Abbiamo rivolto appelli affinché le donazioni venissero indirizzate sia ad altri gruppi dell’isola, sia altrove in Grecia, mentre iniziavamo una vera e propria lotta affinché il denaro e il materiale raccolti producessero risultati.
Occorrerà adesso descrivere a grandi linee il modo in cui abbiamo usato le donazioni. I dati economici di "Angalià” sono comunque accessibili a qualsiasi legittimo controllo, in qualsiasi momento.
1. Gran parte delle uscite è rappresentata dalle "spese d’esercizio” del piccolo ricovero di "Angalià”, dove più di 17.000 profughi hanno trovato riparo per qualche ora o qualche giorno. Abbiamo cominciato distribuendo dei toast e un po’ d’acqua e si vede che da allora a oggi "Angalià” ha retto un peso da non credersi, anche da parte nostra. Cibo (toast, cornetti, frutta e succhi, latte, alimenti per bambini, alimenti secchi e scatolame), prodotti sanitari, vestiario assortito, medicine, articoli da ricovero (sacchi a pelo, tende, materassini, lenzuola, coperte), ma anche distribuzione di contanti a famiglie di profughi, somme modeste ma determinanti e mirate. Da notare che abbiamo cercato in ogni circostanza di acquistare i prodotti all’ingrosso sul mercato locale, e possibilmente prodotti di origine greca.
2. Altra cosa importante: da un certo punto in poi, una volta accertato, sia pure verbalmente, che potevamo utilizzare pullman per trasportare i profughi senza rischiare sanzioni legali, abbiamo cominciato a farlo ritenendo che non esistesse dono più grande: questo gesto, per quanto costoso, ha fatto risparmiare ai profughi 45 chilometri di cammino spossante fino a Mitilene in piena estate: una tortura di cui non abbiamo mai smesso di denunciare l’assurdità. Calcoliamo di essere riusciti a trasferire da Mòlivos o da Angalià ai centri di registrazione circa 4.200 profughi. Per il trasporto dei profughi organizzavamo regolarmente appelli a volontari, specie quando i numeri erano più gestibili. Escludendo i trasbordi fatti da noi dai monti dell’interno ad Angalià, sappiamo di essere riusciti a trasportare fino a Mitilene, avvalendoci di volontari e a titolo gratuito, circa 2.500 persone in quattro mesi (giugno-settembre).
3. Siccome da fine settembre in avanti i numeri dei profughi ad Angalià sono cominciati a calare, abbiamo deciso di operare direttamente anche fuori dalla nostra "base” di Kallonì. Per aiutare altri gruppi/collettivi/singoli cittadini con meno mezzi di noi in altre parti della Grecia, abbiamo organizzato l’acquisto e la spedizione di tutta una serie di articoli, dai sacchi a pelo e dalle scatolette fino ai medicinali e ai pannolini, e ci siamo anche fatti carico delle spese di spedizione e distribuzione di generi che avevamo in abbondanza nelle isole più remote della Grecia, e segnatamente Càlino, Lero, Telo e Coo. Calcoliamo, complessivamente, di aver spedito rifornimenti in misura tale da soddisfare il fabbisogno alimentare e altre esigenze immediate di vestiario e igiene personale di circa 9.000 persone.
4. Ci siamo fatti carico delle spese di soggiorno e di autonomia operativa di volontari selezionati con qualifiche d’immediata necessità: medici e infermieri in particolare e nuclei con esperienza nella gestione di flussi di profughi e nell’auto-organizzazione in situazioni di grave crisi umanitaria. Sotto questo profilo possiamo legittimamente vantarci di una preziosa collaborazione, quella con il gruppo dell’Iniziativa Autonoma di Solidarietà con profughi e migranti di Atene, che da settimane è letteralmente in prima linea per aiutare i profughi a scendere a terra dalle barche (anche 2.500 persone al giorno), cambiarsi d’abito, trovare da mangiare e assistenza medica immediata.
5. "Angalià”, come componente del collettivo "Choriò Oli mazì” (Villaggio Tutti Insieme) ha contribuito al buon funzionamento del dispensario e ad altre esigenze del Choriò con acquisti di generi vari e sostegno in denaro alle esigenze funzionali immediate, come la copertura delle spese straordinarie delle famiglie di profughi che vivevano nelle tende, l’acquisto di provviste, ecc.
6. In questi mesi abbiamo collaborato strettamente con tantissime organizzazioni di volontariato, sia locali sia internazionali. Tale cooperazione non è stata solo di natura organizzativa, né soltanto in materia di ripartizione del potenziale di volontari, sostegno psicologico, intervento organizzato sul terreno sociale e politico, cose di per sé importantissime, ma anche di collaborazione materiale. Abbiamo aiutato il gruppo di Mòlivos con il sostegno morale ma anche pratico, con migliaia di razioni alimentari, specie i toast preparati dai nostri volontari, frutta e conserve che acquistavamo all’ingrosso per far fronte ai picchi di afflusso dei profughi. Eravamo e siamo quotidianamente in contatto con il gruppo "Asterìas” (Stella marina), sul quale abbiamo da dire solo questo: quel che abbiamo fatto come Angalià moltiplicatelo per cento e capirete che lavoro eccezionale hanno fatto a Mòlivos. Asterìas ha bisogno ogni giorno di migliaia di razioni alimentari, il che fa sembrare trascurabile il nostro aiuto.
7. Abbiamo cercato di fare tutto il possibile per risolvere il gigantesco problema del vettovagliamento dei profughi, soprattutto a Mitilene città. Abbiamo così sostenuto i costi di spostamento e funzionamento della "Cucina Sociale per l’Altro”. Ci lega a Konstandinos Polichronòpulos una vecchia amicizia. Konstandinos e i suoi volontari sono venuti, a volte chiamati da noi, a volte per conto proprio, e non solo ci hanno aiutato a metter su la festa della Pace e della Solidarietà a Dafia, in occasione della quale ha fatto la sua ultima apparizione pubblica Papa-Stratìs, ma soprattutto sono venuti a cucinare decine di migliaia di razioni a Kallonì, Moria, Kara Tepé, Sikamià e altrove. Come "Angalià” abbiamo offerto una somma consistente affinché la "Cucina Sociale per l’Altro” continuasse il suo lavoro incredibilmente importante. Poi abbiamo anche appoggiato con pre-acquisti di provviste la sezione distaccata della Cucina Sociale a Mitilene, altro gruppo valido che ha già un grosso lavoro al suo attivo in città.
8. Per tutto questo tempo abbiamo collaborato con il Centro sanitario di Kallonì nella prestazione di cure a casi difficili di profughi. Già da tempo aiutavamo il Centro offrendo medicinali, ma siamo tornati a vivere da vicino le tremende carenze che affliggono il suo personale, la sua struttura. Abbiamo così deciso di rafforzare il funzionamento del Centro sanitario per quanto potevamo come offerta al nostro paese. Una somma rispettabile (10.000 euro) è stata destinata a tre obiettivi: acquisto di provviste e medicinali; riparazione delle apparecchiature radiologiche; fornitura di benzina per l’ambulanza, almeno per un po’. Denunciamo in tutti i modi il doloroso e inaccettabile declassamento subìto dal Centro sanitario di Kallonì. Manca la benzina per l’ambulanza! Non esiste la possibilità di una semplice radiografia, mancano dotazioni e farmaci fondamentali! Il personale del Centro davvero combatte per ciò che dovrebbe essere scontato e purtroppo non si tratta di un fenomeno locale. Riteniamo che il nostro impegno sia anche un grido di disperazione che deve trovare ascolto: la sanità dev’essere pubblica, gratuita e di qualità. Spetta a ogni popolo come diritto fondamentale e non negoziabile.
9. Abbiamo sostenuto con denaro e con forniture di provviste un certo numero di famiglie del posto, come pure dei malati o delle persone finite nella marginalità. Queste famiglie e queste persone hanno dovuto affrontare problemi gravi, e l’aiuto gli è stato prestato seguendo un criterio di criticità. Purtroppo, a causa della crisi dei profughi abbiamo "mollato” i nostri concittadini in difficoltà, ma intendiamo tornare ad agire in questo settore.
10. Abbiamo contribuito e intendiamo contribuire nell’immediato futuro alla ripulitura delle coste dal problema -effettivamente gigantesco- dell’inquinamento dovuto ai giubbotti di salvataggio e alle imbarcazioni dei profughi. Abbiamo comprato il materiale necessario per i gruppi di pulizia, abbiamo vettovagliato i volontari durante le giornate di raccolta dei detriti.
11. Abbiamo collaborato con chiunque volesse veramente aiutare i profughi. Persino le grandi Ong, nei primi giorni dopo il loro arrivo sull’isola e prima di riuscire a organizzarsi, hanno ricevuto da noi materiale e indicazioni. A parte questo, molti turisti, greci e stranieri, si sono dati da fare come volontari autonomi e hanno riempito le loro macchine di provviste (soprattutto cornetti e bottigliette d’acqua) che noi gli abbiamo consegnato. Non abbiamo mai mirato all’accumulo. Tutte le provviste che compravamo, volevamo che arrivassero ai profughi il prima possibile in qualsiasi modo.
Il tempo è passato. Non si può descrivere il lavoro che c’è voluto per realizzare tutto questo. Quante ore di assenza da impegni personali fondamentali. Va da sé che senza i volontari non ci saremmo riusciti… È passato il tempo e il problema persiste, anzi si acuisce. Non siamo mai stati così ingenui da pensare di poterlo risolvere.
Due parole sul piccolo ricovero accanto al commissariato di Kallonì, il posto dove abbiamo accolto più di diciassettemila persone. Era uno spazio assolutamente inadeguato, che tuttavia per sei mesi ha tenuto la porta aperta notte e giorno a chiunque ne avesse bisogno. Faticosamente lo abbiamo fatto diventare un posto decente. Per tenerlo pulito e ordinato ne abbiamo passate tante. E tutto ciò sotto la nostra responsabilità. Mentre a Mòlivos la situazione si è normalizzata, non in termini di arrivi ma di pullman e di riparo provvisorio, vedi il locale notturno Oxy e lo spazio che sta allestendo l’International Rescue Committee a Megala Therma, da circa un mese a questa parte Angalià è quasi sempre vuota e se ospita qualcuno sono di solito giovani profughi che preferiscono venire a piedi da Mòlivos perché non ce la fanno ad aspettare il loro turno per farsi trasportare quando i numeri sono grandi. Il ricovero rimarrà aperto per poco tempo ancora, quello che ci è stato concesso per provare a non far rimanere nessuna famiglia all’addiaccio.
Presto a Kallonì ci sarà nuovamente bisogno di spazi per accogliere la gente. A quel punto però noi non ci faremo avanti. Abbiamo parlato con ogni autorità locale ribadendo che lo spazio in questione dovrà essere sotto la giurisdizione degli enti locali e operare sotto la loro esclusiva responsabilità legale. Di nuovo e pubblicamente torniamo a dire che è compito delle autorità locali, in collaborazione con il governo e le autorità europee, trovare un ricovero per i profughi, in quanto principio umanitario fondamentale. D’ora in avanti noi agiremo solo a titolo sussidiario. Noi continueremo a esserci, ma non possiamo farci nuovamente carico di qualcosa che ci espone personalmente. Si assumano le loro responsabilità coloro che hanno la responsabilità esclusiva, eletti e retribuiti per fare quello che in effetti è il loro lavoro. E poi, ecco un bel campo di gloria offerto a chi crede di poter reggere il peso. Ci troverà pronti a sostenerlo.
Nei prossimi giorni finiremo di spendere i soldi che ci ha affidato la gente, a parte una somma che sarà destinata alle spese fisse previste (bolletta della luce, approvvigionamenti non pagati, tinteggiatura del locale, ecc.), dopodiché "Angalià” non accetterà di tenere grandi riserve in cassa. Cercheremo di trovare nuovi metodi per rafforzare le modalità che ci hanno reso così efficaci per tanto tempo. Come idea generale vogliamo fare in modo che tra chi fa la donazione e il destinatario finale intervengano le procedure e i tempi più brevi possibili. Inoltre, come abbiamo sempre fatto, seguiteremo a non accettare fondi nazionali o comunitari. Concludendo, denunciamo in tutte le direzioni:
1. che la crisi dei profughi non sarà risolta senza la pace in Medio Oriente. Ognuno deve far sentire la propria voce a questo scopo. Questa gente deve rimanere a casa propria, a fare la propria vita. Sappiamo bene che la situazione in Medio Oriente è fuori controllo e sappiamo bene chi l’ha provocata. Il suo nome è imperialismo, è l’insaziabilità che ognuno di noi nasconde dentro di sé, è tutto ciò che ci rende più vicini alla bestia che all’uomo. Nessuno di noi è innocente. Anche il nostro modo di consumare produce guerre, il modo in cui ci poniamo di fronte al nostro amico, al nostro vicino.
2. Esistono oggi soluzioni in grado di trasformare la crisi dei profughi da "problema” in una benedizione. Esistono soluzioni per far transitare e far partire i profughi dalle nostre isole in condizioni umane e normali, addirittura con un vantaggio economico per la società locale, ed esiste il modo di far crescere i loro figli in un luogo pacifico. Queste soluzioni non prevedono barriere alla frontiera dell’Evros [fiume il cui corso delimita gran parte della frontiera terrestre fra Grecia e Turchia, ndt], né campi di raccolta, né denaro sporco di trafficanti che si riversa ovunque, né enormi stanziamenti e tonnellate di vestiti; non prevedono Ong strapagate, né fascisti, né giochi politici, non prevedono né abbellimenti né demonizzazioni. Se l’élite dominante volesse risolvere il problema lo farebbe oggi stesso. Purtroppo la guerra tra i più deboli, i profughi e la gente del posto, è qualcosa che fa comodo. Coloro che hanno gettato questo paese nella depressione economica -ma anche i nostri comportamenti lo hanno permesso- e la crisi dei profughi non sono che due facce della stessa medaglia.
Dobbiamo renderci conto che tutti insieme siamo forti e dobbiamo vigilare sulle nostre piccole scelte quotidiane. E stiamo diritti davanti al buio solo se siamo solidali con i profughi e prima ancora critici con noi stessi. È un modo disperato ma profondamente umano. Lottiamo per le generazioni a venire. Se un giorno emergerà un’umanità migliore sarà perché abbiamo educato i nostri figli ad amare senza riserve ogni perseguitato, come ci ha insegnato Papa-Stratìs.
3. I nostri fratelli profughi sono persone coraggiose che fuggono per vivere, fuggono per sfuggire alla morte e alla povertà. Cambieranno la faccia dell’Europa. In meglio se saremo saggi, in peggio se saremo scemi. I loro figli sono il sale della terra, come i nostri. Gli auguriamo con tutto il cuore di portare a buon fine il loro viaggio, di trovare un posto dove mettere radici e godersi le loro famiglie in pace e prosperità fino alla vecchiaia. E ci auguriamo, se mai dovessimo finire al loro posto, di trovare una "Angalià” per ospitarci una sera, per darci magari un pezzo di pane.
Vi ringraziamo tutti di cuore. Ci sostengono i vostri incitamenti e i vostri messaggi. Ci sostiene Rim, che è arrivata a Berlino e ci scrive "ce l’ho fatta”, ci sostiene Rashid, che ci ha spedito la sua foto con le due figliolette dicendo: "Le mie figlie sono al sicuro a casa di mio fratello a Parigi, dormono su un materasso. Ricorderemo per sempre quella notte che ci avete aiutati ad Angalià”. Ci sostiene Siddiqi, che dieci anni fa capitò qui da noi a Lesbo da piccolo profugo e ora, uomo fatto, torna dalla Germania ogni volta che abbiamo bisogno. Ci sostiene Ghiorgos, che finito di lavorare veniva ad Angalià e lasciava di nascosto gli yogurt per i profughi. L’anonimo signore che venne e, dandoci un’amichevole pacca sulla spalla quella sera che eravamo persi, ci mise una banconota in tasca dicendo: "Bravi ragazzi, continuate, sono fiero di voi”. Ci sostiene l’eredità e l’esortazione a non mollare di papaStratìs. Non spariremo, semplicemente adesso vogliamo prendere qualche respiro profondo. Il turno non finisce mai, "Angalià” rimane aperta.
Katerina, Elèni, Ghiorgos e, sempre primo nel
nostro cuore, esempio impareggiabile e luminoso,
Papa-Stratìs.
(Traduzione a cura di Umberto Cini).
Foto di Alessandro Siclari