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Resoconto - incontro tra i premiati della mattina del 2 luglio 2016

29.8.2016

Di Fabio Levi (presidente del comitato scientifico della Fondazione Langer)

La mattinata di sabato 2 luglio ha visto una discussione a ruota libera fra cinque dei premiati dalla Fondazione Langer in questi ultimi anni e alcuni di coloro che sono venuti a Bolzano per l’Euromediterranea 2016: le realtà rappresentate erano Tuzlanska Amica (in Bosnia), in Polonia Borderland Foundation, Borderline Sicila, villaggio ayyub in Somalia, Association Tunisienne des Femmes Democrates in Tunisia. Da subito sono emersi una sensibilità comune e lo sforzo di interrogarsi, ognuno dal proprio punto di vista, su tendenze simili che sembrano richiamarsi da un paese all’altro. Quella che segue è una breve memoria degli interrogativi via via emersi, utile a sollecitare una riflessione ulteriore.

1. Ci sono momenti di grandi speranze e altri, come quello che stiamo attraversando, in cui sembrano prevalere ombre e preoccupazioni. Alcuni segnali in questo senso sono stati richiamati nel dibattito: l’uscita della Gran Bretagna dall’UE come preludio di un progressivo deperimento dell’Unione, le difficoltà a sostenere il fragile percorso della Tunisia verso un esito compiutamente democratico, l’ingresso della Serbia nella UE con i propri criminali di guerra liberi e indisturbati. Segnali questi, insieme a tanti altri, di un processo d’insieme, di una tendenza che, come pensano alcuni, proporrebbe una sorta di riedizione in chiave mondiale di quanto accadde all’Europa negli anni ’20 del secolo scorso? Non è facile rispondere, ma vale forse la pena sottolineare – come ha detto qualcuno - che il nazismo non fu allora inevitabile e che la storia non va raccontata esclusivamente alla luce dei suoi esiti. Conta piuttosto scoprire le alternative possibili momento per momento, le potenzialità contenute in ogni singola situazione, ragionando su come sia forse possibile fare qualcosa per prevenire gli sviluppi più pericolosi: in Tunisia, dove gli islamisti hanno subìto importanti battute d’arresto ma non mollano la presa, in Libia o in Siria, dove il cosiddetto Stato islamico ha subìto evidenti sconfitte militari ma le forze che lo combattono sembrano invischiate in un quadro inestricabile di interessi contrapposti e di cinismo.

2. I gravi momenti di crisi finiscono spesso per portare all’estremo tendenze gìà diffuse normalmente, portando a esiti paradossali: per esempio che i gruppi umani agiscano mossi più dai sentimenti che non da una valutazione razionale della realtà in cui vivono e dei loro stessi interessi. Fra quei sentimenti tendono a prevalere la paura o magari la speranza di governare il proprio futuro attraverso scorciatoie illusorie e a volte perverse: si pensi ai successi così vistosi della propaganda populistica o alla capacità di attrazione esercitata del messaggio assolutistico lanciato dalle organizzazioni terroristiche, tanto più se capaci di presentarsi con un’aura di invincibilità.

Come reagire a questo clima? Può essere efficace agitare lo spettro di un disastro generale prossimo venturo, come se un’altra paura più grande, per qualcosa destinato inevitabilmente a tutti, nessuno escluso, potesse scacciare la paura che ognuno ha maturato dentro di sé, motivata dalle proprie difficoltà individuali? La dimostrazione – dopo l’omicidio della deputata laburista Jo Cox – delle conseguenze cui il clima infuocato della Brexit stava provocando non è servita a fermare i fomentatori di odio né gli elettori del sì. Ed è prevedibile che la stessa Brexit non aiuti a produrre un salutare ripensamento. Dunque, ancora una volta, il catastrofismo sembra non essere di grande aiuto.

Serve allora proclamare a gran voce valori veri, quelli che l’umanità, malgrado tutto, dovrebbe saper riconoscere come irriunciabili? O gli atteggiamenti predicatori possono troppo poco contro le idee guida chiamate a illuminare l’attivismo dei demagoghi, impegnati a dare una veste di universalità agli egoismi più vieti e ad offrire il terreno della forza come luogo privilegiato di autoesaltazione dei loro adepti?

Resta forse una terza alternativa: quella di lavorare con metodo perché la difesa dei diritti fondamentali sappia incarnarsi nella vita e nella politica di ogni giorno: una prospettiva più faticosa e meno esaltante, ma capace di fare i conti con le necessità dei singoli e con una prospettiva di medio-lungo periodo, nonché di agganciare le opportunità offerte dalla fortuna, quando essa decidesse di manifestarsi.

3. Stiamo assistendo a un generale riassetto dell’ordine internazionale per opera di fattori diversi e interdipendenti, che stanno producendo rotture parziali, frane fino a poco tempo fa imprevedibili e sconvolgimenti di lungo periodo: sui confini della Russia, nel Medioriente o nella stessa Europa continentale, ritenuta finora uno dei luoghi più stabili del mondo. Tutto questo su uno sfondo attraversato da processi di straordinaria portata, sui quali esercitare qualsiasi controllo sembra molto difficile: la globalizzazione nelle sue varie dimensioni, i fenomeni migratori, ecc.

Di fronte a tutto questo il sentimento prevalente sembra ancora una volta essere la paura, per rispondere alla quale la forma di protezione più convincente pare essere l’idea di tracciare e consolidare nuovi confini. Al riguardo non sono venute nel dibattito fra i premi Langer indicazioni generali e tanto meno risolutive, quanto piuttosto ulteriori interrogativi. Ad esempio: non può forse essere utile, prima di giudicare, chiedersi se le tendenze alla chiusura, all’imposizione di nuove frontiere, siano o meno efficaci? Ed efficaci per chi? I confini sono una realtà innegabile, che oltre tutto cambia nel tempo. Una realtà che va necessariamente negoziata, che può essere limitata, resa più mobile, più permeabile, che soprattuto non va solo misurata in metri di muro o in spessore di filo spinato, ma va valutata in primo luogo per come esercita i propri effetti invisibili sui comportamenti degli individui.

4. Al centro dell’attenzione di tutti c’era naturalmente l’Europa di oggi. Un’Europa di cui la Brexit ha fatto risaltare tutti i limiti e le contraddizioni, pur evidenti anche nei momenti di maggior successo: la tendenza a volersi imporre come luogo di centralizzazione, senza che peraltro esista un vero potere centrale né che siano date effettive opportunità di decentramento; la propensione a trasformare l’assenza di fiducia nei cittadini in un apparato ridondante di disposizioni burocratiche; la preminenza dell’economia sulla politica; l’assenza di un vero interesse a investire sulla cultura; la ricorrente disponibilità a cedere sui diritti fondamentali, come nel recente tentativo di comprare dalla Turchia la sua disponibilità a ricacciare i richiedenti asilo fuori dai confini dell’Unione.

Di fronte a tutto questo sono emerse numerose domande. La prima richiede una risposta chiara, tanto più in questo momento: vale più il rifiuto di procedere sulla strada dell’integrazione o lavorare invece per riformare concretamente l’Europa? E ancora: è possibile avviare politiche diverse agendo asttraverso le strutture esistenti? Può avere un senso – ha cioè un peso reale – accompagnare quegli sforzi con iniziative dal basso? Può servire preoccuparsi anche solo di un singolo individuo, pensando ad esempio forme di educazione che sappiano contenere la così diffusa propensione all’odio?

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