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Giuseppina Ciuffreda: La nostalgia del paradiso e la conversione ambientalista

29.11.2005, La conversione ecologica-Euromediterranea 2005
E’ paradossale ma proprio quando la condizione dell’ambiente si aggrava in tutto il mondo con fenomeni negativi straordinari - dall’intensificarsi degli uragani, alle siccità prolungate allo scioglimento dei ghiacciai - il degrado della natura è oggetto di una rimozione collettiva.

E’scomparso dai media, surclassato da una miscela di terrorismo, guerre e violenza conditi da una forte dose di gossip, mentre l’agenda politica è rimasta con le stesse priorità. E questo accade nonostante una ricchissima documentazione scientifica su problemi ambientali ormai talmente gravi da minacciare l’esistenza stessa della specie umana, malgrado la mobilitazione della società civile mondiale e l’esistenza di alternative tecnologiche non invasive. Ma la sordina non ferma i disastri e nemmeno la resistenza attiva ai modelli di vita consumisti e materialisti che impoveriscono la nostra vita. Nel mondo milioni di persone pensano secondo nuove linee adatte a risolvere i problemi provocati dall’intervento umano sulla natura, lottano e sperimentano alternative. Il problema, sempre più difficile, resta la formazione di un’opinione pubblica internazionale capace di ri-orientare politica ed economia. Che cosa può far decidere il cambiamento necessario, quel cambio di rotta verso una vita semplice che soddisfi i bisogni materiali e immateriali di tutta la popolazione mondiale?
La critica di Alexander Langer alle strategie ambientaliste troppo puntate sul catastrofismo e auspicanti «ecodittature», forse non teneva abbastanza conto del mutato scenario internazionale che nel 1994 remava contro l’ambientalismo, dopo un ventennio ambientalista straordinario.
Nel 1972, a due anni dal primo Earth Day celebrato negli Stati Uniti, si svolgeva infatti a Stoccolma la prima Conferenza sull’ambiente delle Nazioni Unite, usciva il rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo e Teddy Goldsmith, direttore dell’Ecologist, pubblicava Blueprint for Survival. Negli anni Settanta-Novanta si palesano infatti con drammatica evidenza gli effetti negativi della rivoluzione industriale e del consumismo usa e getta. Le strategie di sviluppo della Banca mondiale e del Fondo monetario vengono contestate e l’opinione pubblica mondiale si mobilita per salvare boschi e foreste tropicali. Nascono o si rafforzano le associazioni, i gruppi e i partiti verdi. I media seguono con attenzione la novità che emerge nell’Occidente opulento mentre aumenta il divario economico tra Nord e Sud del mondo. Il vertice dell’Onu su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro, nel 1992, chiude la speranza di un cambiamento di rotta dell’economia e della politica mondiale. Dalla fine degli anni Ottanta si susseguono poi grandi eventi politici ed economici che accentrano l’attenzione dei politici e dei mass media. Crolla l’Impero dell’Est creato dall’Unione sovietica, gli Alleati vanno in guerra nel Golfo, esplode il conflitto tragico che devasta la Jugoslavia. Nel 1994 entra anche in vigore il Nafta, l’accordo sul libero commercio del Nord America, e a fine anno si vara il Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, che non prevede clausole sociali e ambientali: nulla deve ostacolare la circolazione delle merci.
Oggi, dopo più di dieci anni di arretramento netto nelle politiche ambientali, la situazione è ben più grave. Come affrontare questa fase nuova e delicata? Come comunicare la necessità di convertire produzione e consumo secondo una cultura ecologicamente orientata, e a farlo in fretta?
Articoli e scritti recenti attribuiscono il fallimento delle politiche verdi all’estremismo cieco degli ambientalisti. Lo sostengono ad esempio «l’ambientalista scettico» Bjorn Lomborg e l’autore di best sellers Michael Crichton, ampiamente pubblicizzati da tutti i media. Opinioni le loro che hanno il diritto di esistere ma che sono ben leggere rispetto alla letteratura imponente e ben documentata sull’attuale sesta estinzione di massa delle specie e sugli effetti negativi del riscaldamento globale. In realtà, la debolezza delle associazioni e dei partiti verdi nasce proprio nella scarsa radicalità delle loro posizioni, motivo per cui nell’opinione generale l’ecologia è rimasta un settore e non una cultura che cambia il nostro modo di produrre e di consumare.
La radicalità che l’ecologia impone nasce dall’osservazione dei fenomeni sociali e ambientali, non dall’ideologia, e il pragmatismo, una virtù necessaria per decidere tempi, alleanze e possibilità, non prescinde dall’enunciazione chiara e onesta dei cambiamenti profondi che è necessario operare per risolvere i problemi attuali più gravi: riequilibrare la biosfera ed eliminare la fame e la povertà. Le strategie di molte organizzazioni e partiti verdi, al di là della buona volontà e dall’efficacia di alcune soluzioni parziali, sono rimaste dentro un paradigma urbano e tecnologico. L’ambientalismo ha cercato sovente soluzioni entro lo stesso sistema concettuale che ha creato i problemi o nei rapporti economici esistenti, considerando la natura come risorsa e non come organismo vivente, con una sua intima intelligenza.
Sono limitate anche le visioni politico-economiche vecchia sinistra o i connubi rosso-verdi. La sinistra organizzata - riformista, estrema e anche no global - vive i pregiudizi di una formazione industrialista ed economicista, e anche quando ci prova non riesce proprio a capire come la giustizia sociale sia oggi possibile solo sulla base del riequilibrio ecologico (Salgado) e che la difesa della natura è un valore di fondo e pregiudiziale delle nostre società (Langer).
La conversione ambientalista implica un cambiamento di mentalità e abitudini profondo che però si lega a fili del passato che la modernità ha spezzato. Il cambiamento operato dalla modernità occidentale (e dal post moderno) è stato veloce e di forte impatto. Ed ha sedimentato valori importanti. Ma la resistenza che ha prodotto ha una sua logica e anche un suo valore. I contadini del sud-est asiatico diversificano i raccolti secondo il principio del minimo rischio e non del massimo rendimento. I semi ibridi ad alta produttività introdotti dalla «Rivoluzione verde» (che di verde aveva ben poco) sembrava una scelta migliore. Ma studi successivi che hanno preso in considerazione il lungo periodo hanno dato ragione alla prudenza contadina tradizionale. Conservation in natura vuol dire arrestare la distruzione della biodiversità e i saperi che hanno consentito alla vita sulla Terra di permanere e a intere popolazioni di sopravvivere, hanno valore. La loro svalutazione da parte degli inglesi nell’800 ha portato ad esempio al fallimento in Bengala della gestione coloniale delle acque, basata su tecnologie nate nel clima continentale europeo e non adatte a terre battute dai monsoni. (C. Hill). Il cambiamento basato sull’ecologia è quindi anche conservazione. E’ un nuovo-antico.
Secondo la scuola francese degli Annales, il cambiamento nella storia segue due velocità. La marcia più veloce interessa la superficie. Si torna facilmente indietro: Braudel sottolineava infatti come dopo la caduta degli Imperi seguito alla prima guerra mondiale, le identità nazionali preesistenti fossero riemerse quasi intatte. E anche le abitudini minute permangono, pur se il loro significato è ormai perso. Wolfgang Sachs, al quale manifestavo la mia insofferenza per il gesto assurdo di buttare mozziconi e carta nei vasi da fiori, abbastanza diffuso a Roma, lo decodificava come abitudine secolare dei contadini a gettare rifiuti organici attorno agli alberi. E l’Italia è stato un paese prevalentemente contadino fino agli anni Sessanta. E’ possibile agire quindi sul sedimento storico lento a cambiare: tradizioni identità culturali, saperi, immagini - come Langer ha ben intuito - sui livelli che l’attuale civiltà materialistica non sfiora: «Una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili elaborate fuori dalla politica in larga misura, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, sociali, estestiche, tradizionali persino etniche (radicate cioè sulla storia e nell’identità dei popoli)». Alcuni livelli su cui agire per «rendere desiderabile la conversione ecologica»:
1)Archetipi locali e planetari. Il sacro. Il senso della vita. Ritorno alla natura.
2)Anima. Spiritualità. Bisogni immateriali: la bellezza e il desiderio di armonia
3)Fraternità. Bisogno di pace e di giustizia
Necessità dunque di idee profonde e di soluzioni che le incarnino. I sogni e le utopie non creano totalitarismi o castelli in Spagna ma contribuiscono a realizzare la storia (B. Baczko). E il sentirsi uno, con l’umanità e la natura, non offuscano il nostro spirito critico. La nostalgia del Paradiso, del primo mattino del mondo, momento magico di coesistenza pacifica tra umani e animali selvatici, è un bisogno umano latente. Attivare dunque in positivo parti profonde della pische umana ferita dalla distruzione della natura e il bisogno di natura selvaggia. L’amore per la natura è un emozione che può fare incarnare le idee razionali e necessarie. Sentirsi parte, voler prendersi cura di piante, animali e minerali. Si difende ciò che si ama. Sono innumerevoli le persone ch eoggi nel mondo cercano di curare le ferite inflitte a piante, fiumi, boschi, animali…Riparare. La bellezza è legata alla diversità e il ritmo ciclico della natura.
Nel pieno della prima rivoluzione industriale, a metà dell’Ottocento, in Inghilterra, William Morris ha sostenuto il diritto di tutti all’arte e al godimento della natura. Per lui tutto quello che l’uomo produce è potenzialmente arte, e l’arte e la bellezza sono un diritto: «Occorre estendere la parola arte al di là di quegli oggetti che sono ritenuti opere d’arte, per considerare non solo la pittura, la scultura e l’architettura ma la forma e i colori di tutti gli oggetti casalinghi, anzi le stesse sistemazini dei campi per la coltivazione e il pascolo, l’amministrazione della città e della rete stradale, in una parola estenderla all’aspetto di tutto ciò che ci circonda nella vita». Il diritto alla bellezza non è un lusso dei ricchi. Per sfatare questo pregiudizio è sufficiente osservare il gusto strordinario dei cosiddetti primitivi, dei popoli indigeni e contadini per i quali i tessuti, gli ornamenti, gli utensili e lo stesso corpo sono strumenti d’arte. Colori, forme e materiali tutti goduti nella vita quotidiana.
La nuova visione chiede il mutare radicale del nostro modo di vivere e riforme che producano effetti a livello planetario. L’accordo di Kyoto sul clima, che gli Stati Uniti ritengono incompatibile con l’American Way of Life, indica soltanto un 5% in meno di emissioni serra mentre per gli gli studiosi è necessario un taglio di almeno il 50%. Realismo, e non ideologia o sogno utopico, è prendere atto che bisogna tagliare della metà i gas serra e quindi cambiare economia, tecnologia, consumi e modo di produrre. Lester Brown, direttore dell’Earth Policy Institute, in un convegno recente ha citato l’economia di guerra negli Usa, quando F.D. Roosevelt decise di fermare la produzione di automobili per fabbricare le armi necessarie per la seconda guerra mondiale.
Un’azione ambientalista efficace comprende quindi la creazione e il rafforzamento di reti planetarie radicate localmente che producano l’energia di una massa critica capace di rimuovere il blocco che impedisce le azioni necessarie a fondare una convivenza diversa tra umani e tra umani e natura. Rivendicare il valore dell’individuo, dissolvere il senso d’impotenza. Esaltare il ruolo dei piccoli gruppi e delle reti che li collegano. A una nuova visione contribuiscono l’ecologia sociale elaborata nei paesi del Sud del mondo e l’ecologia profonda riscoperta al Nord, da Arno Naess a Gary Snyder. Seguendo magari quel «Principio femminile» creativo insito nella cultura hindu che secondo Vandana Shiva appartiene alla natura, alle donne e agli uomini.
Sull’impossibilità di «tornare indietro» e sulla «inerrestabile marcia del Progresso» bisogna ricordare che ogni civiltà, ogni Impero, ogni formazione statuale si ritiene eterna. Ma se guardiamo alla storia, tutti sono finiti. la differenza è soltanto nelle durata. E abbiamo assistito in diretta alla nascita e alla fine dell’Impero sovietico. La nostra è una civiltà relativamente giovane che in poche centinaia di anni si è estesa su tutto il mondo ed ha imposto il suo modello di produzione e consumo predatorio infliggendo danni forse irreparabili all’ecosistema Terra (novità nella storia conosciuta) che, con assenza assoluta di lucidità, riesce ad ignorare. Siamo diventati una specie invasiva e autodistruttrice. Abbiamo bisogno di partecipazione popolare, di strategie a largo raggio, di leadership di mente aperta e operativi. Una sfida difficile dall’esito incerto. Quel che possiamo fare è esserne consapevoli e lavorare al meglio per ridurre i danni e seminare il nuovo: il cambiamento può arrivare improvviso anche nell’Impero dell’Ovest.

Giuseppina Ciuffreda è giornalista del Manifesto. Ha collaborato a lungo con Alexander Langer nella Campagna Nord-Sud.
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