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Migrazioni - Per una cultura dell'accoglienza

30.8.2016

MIGRAZIONI - PER UNA CULTURA DELL'ACCOGLIENZA

(Articolo pubblicato sulla rivista Lo Straniero, numero 194/195 Agosto/Settembre 2016)

A partire dall'assegnazione del Premio Internazionale Alexander Langer del 2014 all'associazione Borderline Sicilia, la Fondazione Langer ha deciso di dedicare una parte del proprio lavoro al tema “Borderlands – Migrazioni, accoglienza: Alle Menschen (-Rechte) geschützt?” di cui si legge nella sezione del sito http://www.alexanderlanger.org/it/891.

La Fondazione è diventata così parte attiva di una rete tra soggetti che, non solo in Italia, sono impegnati in questo settore e costituiscono esempi di buone pratiche ben radicate nei diversi territori.

Da settembre 2014 l'iniziativa "Brenner/o Border Monitoring" realizza una presenza di monitoraggio attivo al Brennero a dal 2015, anche nella stazione di Bolzano, nell'ottica dei Corpi civili europei di pace e dei Mediatori di conflitti, attraverso il dialogo con tutti gli attori coinvolti. Comprende presenza, osservazione, intervento, informazione minima legale, lavoro in rete, in certi periodi supporto agli  umanitari in collaborazione con volontari, sensibilizzazione e advocacy. Il monitoraggio é una forma di impegno civile e volontario, avviata inizialmente da Monika Weissensteiner per la Fondazione e da Sonja Cimadon per l'Associazione per un Mondo Solidale di Bressanone, e poi allargata ad altri volontari lungo l'asse Verona - Innsbruck.

Momenti importanti di un processo ancora in corso di autoformazione e presa di coscienza sono stati gli incontri del 23 ottobre 2015 su Menschen auf der Flucht – Integration, Aufnahme, Erfahrungsaustausch & Integrazione e microaccoglienza diffusa - scambio tra esperienze territoriali”, e quello del 18 giugno 2016Il Sudtirolo: territorio di accoglienza, di transito e di confine & Menschen auf der Flucht: Aufnahme-, Transit- und Grenz-Land.

Uno dei tre tavoli di lavoro di quest'ultimo incontro è stato condotto e introdotto da Salvatore Saltarelli, sul tema controverso e ancora poco esplorato dell
aMicro-accoglienza in famiglia”,

Una sfida decisiva in un territorio di confine in cui si incontrano e scontrano culture e lingue diverse. E che vede nella vicina Austria emergere forti tendenze xenofobe che mettono a rischio la struttura di frontiere che la comune presenza nell'Unione Europea aveva reso ben permeabili.

SALVATORE SALTARELLI

La micro-accoglienza in famiglia

L'accoglienza familiare dei profughi, forma particolarmente evoluta della micro-accoglienza diffusa, inizia a svilupparsi nel contesto italiano grazie all'impegno di enti di ispirazione cattolica e del suo volontariato particolarmente animati dalle esortazioni di Papa Francesco relative alla responsabilità all'accoglienza “di ogni parrocchia, monastero, santuario...”. Essa ha trovato nell'ambito degli affidi familiari dei MISNA (minori stranieri non accompagnati) le forme più attuali e concrete della sua realizzazione. La famiglia, spazio privilegiato di integrazione e accoglienza, è intesa, in questo contesto, come “la vera scuola di umanità, dove si diventa persone”, secondo l'espressione della Gaudium et spes e nello spirito dei principi espressi dal Vaticano II.

Ma la questione fondamentale è che l'accoglienza diffusa, fatta dai piccoli numeri, distribuita nelle famiglie, accompagnata e supportata adeguatamente da operatori qualificati, evita i il concentramento di tante persone e dei grandi numeri nei centri di accoglienza che, sicuramente funzionali alle esigenze di controllo e contenimento, rischiano di frantumare e distruggere definitivamente speranze, progetti e soggettività di tante persone che scappano dalle guerre, dalle persecuzioni e dalle ingiustizie.

Le influenze e relazioni familiari ed extra-familiari contribuiscono a modellare gradualmente e progressivamente la personalità: secondo studi di psicologia contemporanea, la personalità non è un'unità elementare, ma un prodotto complesso basato sulla capacità di crescita di un organismo che impara a soddisfare i suoi bisogni nell'ambito delle pressioni dell'ambiente sociale e delle opportunità che vi incontra. In qualsiasi contesto culturale, il primo ambiente sociale che si incontra è proprio quello familiare e i teorici social-cognitivi hanno ben evidenziato come le funzioni principali svolte dalla famiglia sono da una parte strettamente connesse con le pratiche del controllo sociale e dall'altra con quelle collegate con la promozione dell'individuo e della sua personalità. Queste due piste sono e risultano per lo più invariate in molteplici contesti culturali: può predominare l'una o l'altra, ma comunque la loro presenza garantisce la stabilità del sistema.

Quando nella seconda metà degli anni '90, per realizzare un progetto di cooperazione decisi di vivere per un periodo di tempo presso i Lebu di Kayar/Dakar - popolazione di pescatori che vivono lungo le coste del Senegal, Capo Verde, Gambia e Mauritania con un sistema linguistico e religioso autonomo e che rispettano tuttora alcune prerogative matrilineari soprattutto per quanto concerne l'eredità – lo chef du village, per assicurarsi il quieto vivere del villaggio, mi assegnò alla famiglia Gueye, potente gruppo di pescatori con frequenti rapporti con gli altri villaggi lebu e con le altre comunità presenti sul territorio. La mia casa divenne il “carrè” della famiglia Gueye: donne, bambini, uomini e vecchi si occuparono della mia accoglienza nel contesto sociale di quella particolare comunità, non solo attraverso il vitto e l'alloggio, ma anche curando le mie relazioni sociali e culturali e, conseguentemente anche la dimensione partecipativa ai principali riti collettivi della comunità lebu quali feste, matrimoni, funerali compreso l'adesione “forzata” ai tabù alimentari del loro particolare sistema culturale (oltre al maiale anche quello di mangiare alcuni pesci appartenenti ad alcune famiglie degli squali). Ero di fatto l'unico bianco che poteva girare senza nessun tipo di problema per i villaggi lebu; questione non certamente semplice dato il forte individualismo che caratterizza la personalità di queste popolazioni votate a passare lunghi periodi in mare sulle “pinasse” durante la lunga stagione della pesca. Dopo un certo periodo, di reciproco studio ed osservazione, le altre comunità lebu mi conoscevamo come “l'homme de Kayar”. Questo anche grazie all'opera della famiglia Gueye, che oltre a controllare quello che facevo ha saputo anche mettere in moto quei processi che hanno di fatto facilitato la reciproca comprensione.

La famiglia, qualsiasi essa sia, è sicuramente una risorsa di accoglienza in tutti i contesti culturali: luogo fisico protetto e sicuro (stavo bene quando dopo una giornata di lavoro arrivavo al mio “carrè”) è al tempo stesso luogo privilegiato di sviluppo e promozione delle relazioni interpersonali. All'interno della famiglia si sviluppa e viene promossa la conquista e ri-conquista dell'autonomia, nei momenti in cui diventa deficitaria, ed è attraverso essa che si creano reti di relazioni e conoscenze che risultano fondamentali per promuovere non solo competenze relazionali ma anche skills professionali che sono alla base dell'autonomia economico-culturale e lavorativa.

Accoglienza familiare dei titolari di protezione internazionale

A partire dal 2015, in alcuni contesti territoriali, per lo più nei comuni che aderiscono alla rete SPRAR, son state attivate alcune significative sperimentazioni di accoglienza familiare dei titolari di protezione internazionale. Le esperienze sinora realizzate, tra le altre, dalla Comunità di Sant'Egidio attraverso i corridoi umanitari (a Trento, non lontano da noi, sono 25 siriani giunti con questo approccio), da Mantova solidale, dal progetto “Rifugiato a casa mia” di Torino, dall'Opera di Padre Marella di Bologna, dal bando del comune di Milano, dimostrano che lo spostare a livello familiare l'accoglienza ai richiedenti protezione internazionale, potrebbe portare significativi vantaggi allo sviluppo delle comunità locali e, contemporaneamente, risultare un buon viatico capace di contrastare le facili paure foraggiate da alcuni partiti e movimenti politici. Si tratta di una tipologia di accoglienza che presenta caratteristiche peculiari e particolarmente significative per i processi di promozione e sviluppo della integrazione delle comunità e della coesione sociale dei territori. Fondamentalmente essa presenta i seguenti tratti salienti:

Nonostante questi elementi di sicura positività, l'accoglienza familiare trova ostacoli e difficoltà a svilupparsi e resta, laddove riesce ad essere avviata, solo e semplicemente un momento marginale nell'ambito delle politiche locali di integrazione dei richiedenti protezione internazionale.

Nel suo aspetto di progetto sperimentale di intervento pubblico, si constata che vi sia una sorta di ostilità e insofferenza dei soggetti istituzionali nei suoi confronti. Basti pensare che S.E. il cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, ha recentemente sostenuto ed affermato che “a frenare l'accoglienza familiare dei migranti è lo Stato; lo Stato preferisce i grandi centri di accoglienza”.

Ma quali le ragioni di questa ostilità?

In primo luogo è evidente che i processi di accoglienza sinora realizzati nella maggior parte dei casi sono caratterizzati da misure specificamente calibrate sul principio del contenimento del fenomeno e, come già ampiamente documentato, sulla tipologia dell'intervento emergenziale. Dal punto di vista del contenimento, la sorveglianza e la punizione – tratti caratteristici dei processi di accoglienza europei dei richiedenti protezione internazionale - appartengono in modo del tutto marginale al “lessico familiare”: il controllo familiare è un controllo sociale per lo più votato e calibrato sulle relazioni affettive ed interpersonali, costruito prevalentemente sui processi di partecipazione e cooperazione. Attraverso il perdono, il controllo familiare tende di fatto a sviluppare e promuovere nell'individuo il senso di appartenenza alla comunità. Chi ha una certa dimestichezza dell'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, non può certamente non riconoscere in alcune pratiche realizzate, anche nel nostro contesto territoriale quei tratti tipici della nascita della prigione, sapientemente messi in risalto dall'acuta analisi storica effettuata da Michel Foucault: “tra il XVI el XIX secolo, si sviluppa tutto un insieme di procedure per incasellare, controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili nello stesso tempo. Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell'esercito, nelle scuole, nei collegi, nelle fabbriche: la disciplina. Il XVIII secolo ha senza dubbio inventato la libertà, ma ha dato loro una base profonda e solida, la società disciplinare, da cui dipendiamo ancora oggi”. (M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino)

Come non riconoscere forti elementi di continuità con le attuali pratiche dettate dall'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale: si tratta di un insieme di procedure che di fatto ancora oggi, in contesti diversi, tendono di fatto a frantumare i desideri di libertà di chi tenta soluzioni alternative alla fame e alla guerra?

Tale processo ha anche coinvolto lo sviluppo dello stesso linguaggio che inizia ad essere contaminato dai processi attuati da questa diarchia istituzionale: le parole “carità” nonché quella di “volontario” non sono più le stesse, non hanno più le trame di significato che sinora contenevano. Ricevo, infatti, in questi ultimi tempi messaggi da varie persone coinvolte nell'accoglienza dei profughi di quella che viene definita la “rotta del Brennero” che si firmano “volontari liberi” proprio per distinguersi da quelli della Caritas e di Volontarius. Anche la composizione del volontariato dell'accoglienza profughi si è profondamente modificata. Si tratta di una nuova categoria, per molti aspetti inedita: dai tratti intergenerazionali essa risulta trasversale rispetto all'associazionismo ed ha una forte valenza etica e politica. (G. GALERA, “Sfida migratoria e imprese sociali: tra ambiguità e innovazione”).

Un tratto particolarmente positivo di questa diarchia è dato tuttavia dal fatto che in provincia di Bolzano non si sono sinora sviluppate forme di gestione dell'accoglienza dei profughi da parte di società e gruppi totalmente estranei al tema, come nel caso di alcune ditte delle pulizie, albergatori in crisi, ristoratori e case di riposo private che in alcune province italiane si sono improvvisamente modificate in strutture di accoglienza profughi.

Un programma sperimentale di accoglienza familiare, non può assolutamente prescindere da un piano dettagliato delle funzioni, obiettivi e azioni dei vari attori coinvolti nel processo di accoglienza. Bisogna assolutamente sgombrare il campo da facili fraintendimenti: non si tratta in alcun modo di “azioni di beneficenza”, sporadiche ed isolate di singole famiglie che desiderano e intendono essere disponibili di fronte al tema dei richiedenti asilo o a quello della emigrazione. L'accoglienza familiare, come modello sperimentale di accoglienza, deve necessariamente basarsi su un progetto condiviso della realtà territoriale dove si sviluppa e realizza e, inoltre, si basa sullo stretto rapporto tra i soggetti istituzionali dell'integrazione: Prefettura, Provincia e Comuni. Esso intende costruire reti e rapporti territoriali, accompagnare le disponibilità delle famiglie in un processo coordinato con i servizi, associazioni e Enti territorialmente presenti, al fine di costruire le basi per lo sviluppo e sperimentazione di nuove forme di accoglienza.

 

Salvatore Saltarelli, Bolzano, collaboratore della Fondazione Alexander Langer Stiftung, insegnante di scuola professionale, è stato tra gli idatori e promotori in Italia dei corsi per Mediatori interculturali e Operatori di pace. Fa parte del Comitato Scientifico di Dossier statistico immigrazione Idos.

 

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