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Elisa Rainolter: a Srebrenica mi sono ritrovata

13.8.2015, autrice

Sono stata indecisa fino alla fine se fare o meno questo viaggio. La voglia c'era, ed era tantissima. Volevo prendermi una vacanza dallo studio, volevo visitare un paese nuovo, volevo "camminare" dove Langer era stato anni prima. Eppure, c'era ancora qualcosa che mi tratteneva. Un pò il costo, un pò la paura di rimanere delusa.

Ho passato l'ultimo anno della mia vita tra alti e bassi, tra momenti illuminanti per nuove persone conosciute, per progetti iniziati etc, seguiti da profonde delusioni. Avevo paura di investire tanto in termini economici ed emotivi e perdere altrettanto. Allora per un pò ho tentennato. Poi alla fine qualcosa mi ha convinta, ed il due luglio mi sono trovata a Bolzano.

Sono arrivata un pò in ritardo (mi sono fatta scappare ben due treni, chissa a cosa pensavo!) e arrivo al Centro Trevi solo verso le sei mentre Edi stava tenendo un discorso. A seguire un bel Recital ed è solo a questo punto che avviene la consegna ufficiale del Premio Langer 2015 a Bekir e Nevena, lì come rappresentanti di Adopt.

Poi che dire, c'è stato un ottimo buffet etnico, che è piaciuto a me ma credo anche agli altri vista la coda per fare il bis.

 

Mi infilo sul pullman e si parte in direzione Tuzla che raggiungiamo verso pranzo.

Dopo aver cambiato dei soldi e mangiato corro alla conferenza stampa in hotel delle tre, ma arrivo ancora in ritardo e capisco poco o niente. Poi nuovamente mi faccio mezza Tuzla a piedi per arrivare nella piazza principale ed assistere alla piantagione del tiglio in memoria di Alexander Langer. Ma anche qui mi perdo qualcosa, perchè arrivo nel momento degli applausi diretti al gruppo di attori.

Come sempre volevo fare tutto, e non faccio bene niente.

Insomma, un'inzio non perfetto.

Cosi decido di farmi un giretto per la città da sola.

Ho l'opportunità di unirmi a dei gruppetti già precostituiti di persone che si conoscono da tempo. Ma io so quanta fatica mi serve per entrarne a far parte, e so benissimo anche quanto mi piace girare da sola e poter andare dove mi pare. E cosi faccio.

Dopo la prima cena bosniaca a buffet, mi preparo per andare al teatro. Vista la mia smania per la puntualità parto un pò prima degli altri. Mi incammino insieme ad Irfanka, Nemanja e altri. Siamo i primi ad arrivare, ma sulla porta ci annunciano che l'inzio è posticipato di mezz'ora.

Ecco, mi dico. Elisa sei in Bosnia, qui gli orari vanno presi un pò cosi, alla larga.

Entare in quel luogo mi spaventa, è tutto cosi scuro e rovinato. Le sedie tutt'altro che comode. C'è un odore forte tale da dar fastidio. Ad un certo punto, le deboli luci accese si spengono e il sipario pesante si apre. Inzia lo spettacolo. Devo confessare di non averlo visto completamente, ci sono stati dei momenti in cui ho ceduto alla pesantezza delle palpebre. Magari per pochi secondi eppure tali da perdermi dei pezzi. E nei miei momenti lucici, ho visto che non ero l'unica a cui succedeva. La cosa mi rincuora, dopo la notte insonne sul pullman c'era da aspettarselo. Comuque la compagnia non mi è dispiaciuta, non sono un'esperta di danza sia chiaro. La cosa che non ha capito del tutto è perchè la la violenza messa in scena era soltanto verso le donne. Non ho realmente capito se era quello il tema oppure se la violenza viene percepita come unidirezionale.

In ogni caso, faccio un bel applauso a ballerini e coreografa. Poi all'uscita mi fido di Francesco che vuole andare per locali! No, mai più. Io volevo dormire. Pensavo che si trattasse di una pivo e via invece la cosa si è dilungata un pò troppo per i miei gusti. Cosi quando Sara dice di aver freddo e di volere tornare in albergo mi aggiungo a lei e torno all' hotel Tuzla.

Sono in camera con Patrizia, alla numero 805. Siamo all'ottavo piano e io putroppo soffro di vertigini e ho paura a prendere l'ascensore. Ma penso che un pò di ginnastica su e giù dalle scale non mi faccia del tutto male.

La prima giornata vera e propria a Tuzla inzia con una super colazione carica di zuccheri, e poi cominciano le conferenze.

Nel pomeriggio si tengono dei workshop. Io mi iscivo a " I dieci punti per la convivenza". Dopo aver sbagliato sala, arrivo di corsa in quella dove si dovrebbe organizzare il mio. E li scopro che ci sono dei cambiamenti. Visto che due workshop erano stati sottoscritti solo da tre persone, si è pensato di unirli insieme a quello tenuto da Luca ed Elisabeth. Risultato: un grand casino. Iniziamo con il loro workshop sulla Partecipazione. Capito in gruppo con Andrea, Ruben, Bekir, Matilde ed Elisabetta. Per prima cosa facciamo un brainstorming con la parola democrazia. È bello vedere come ognuno di noi riconosca concetti cosi diversi rispetto ad un'unico tema. E faccio un sorriso amaro quando Bekir, come prima parola scrive <Justice>. Poi a noi si aggiunge anche Eugenia, e ora il nostro compito è quello di dare una definizione di Partecipazione a partire dalla parole prodotte dall'altro gruppo. Poi purtroppo il workshop viene bruscamente interrotto, perchè anche gli altri due relatori vogliono prendere la parola e non c'è tempo di finire quello che si era iniziato. Cosi parla Vehid Sehic che presenta l'associazione Igmanska e poi è il turno di Marjana. Poi verso le cinque lasciamo la sala. Arrivo nell'atrio dell'hotel e vedo dei ragazzi in costumi strani. Nessuno ci aveva avvisato di nulla. Vengo a scoprire da altri che nel giro di un'quarto d'ora ci avrebbero divisi in gruppi. Ognuno avrebbe seguito un attore diverso. Io finisco per seguire "Miguel". Insieme agli altri membri del gruppo ci dirigiamo a passo spedito verso il parco, li troviamo un'altro attore e un gruppo di ragazzi del posto. Poi inizia la scenetta vera e propria. Attraversiamo il parco, sostiamo presso il monumento ai partigiani, poi sul bordo di una fontana. Appena più in là ci sono 71 tombe in memoria del ragazzi morti a causa di una granata serba. Si continua poi all'interno dei laghi pannonici sotto lo sguardo tra il perplesso e l'impaurito dei bagnanti. Raggiungiamo la moschea e poi arriviamo in piazza. Siamo in primi a prendere posto, poi arriviamo anche gli altri. Ci disponiamo in cerchio e li, con l'aggiunta di un bel pò di passanti, inzia lo spettacolo. Molto emozionante. Le parti in italiano sono poche, eppure le trovo significative e profonde. Non capisco una parola di bosniaco eppure posso dire di aver capito tutto. Il messaggio era molto chiaro ed esplicito. Il ponte umano finale ne racchiude l'essenza. Dopo questa scarica di emozioni, si inzia a pensare alla cena. D'altronde lo stomaco chiama. Mi aggiungo ad una parte del gruppo veneziano e finiamo in un ristorante musulmano che serve carne. Io, come da un pò di pasti, mi accontento di patatine fritte e pomodori.

La mattina seguente si apre di nuovo con dei seminari, e poi abbiamo il pomeriggio libero. Io mi prendo un pò di tempo per me e ritorno al parco dove sono stata il giorno prima. Voglio passare qualche minuto al memoriale dove riposano le 71 vittime. Cammino tra le tombe e leggono i loro nomi. Per ognuno conto a quale età sono stati uccisi e mi rendo conto che molti di loro erano miei coetanei. Poi più tardi faccio il giro della città con due ragazze della Casa Pappagallo e con loro visito la mia prima moschea. Insieme ritorniamo verso il parco e li mi riposo un pò cercando dell'ombra. Verso le 17 mi incontro con Luca ed Elisabeth e altri ragazzi per terminare il workshop. A grandi linee il mio gruppo si mantiene tale, e iniziamo a riflettere sul tema della diversità. Ci si chiede di indicare quali possono essere gli interventi sia del singolo che delle istituzioni per promuovere la diversità. Cosi mi trovo a discutere sulla situazione attuale di Bolzano, città che non conosco. Scopro mio malgrado quanto la convivenza sia ancor oggi difficile e ostacolata da più parti. È stato davvero bello poter concludere il lavoro e dare un senso a quello cominciato il giorno prima. Mentre noi siamo distesi sul quel prato mi accorgo che vicino a noi c'è un gruppetto di uomini che insegna a due ragazzini a combattere. Hanno in mano soltanto un bastone, ma basta poco per sostituirlo con un coltello, mi dico. Inizio a pensare a quegli uomini, chissa che ruolo hanno avuto durante la guerra, chissa cosa staranno dicendo ai quegli adolescenti, chissa perchè stanno li invece che correre oppure nuotare.

Di lunedi mattina partiamo per Sarajevo. Per me il viaggio vola. Ma una volta nelle vicinanze della capitale inizio ad emozionarmi, non so lo perchè ma fin dall'inizio Sarajevo mi fa uno strano effetto. Una volta dentro capisco che sono emozioni positive. Sarajevo mi piace fin subito, è mix di tutto, di stili, di culture, di edifici religiosi. È una citta viva e rumososa. Il canto del Mujaedin è favoloso, e lo riascolterei volentieri più spesso. Qualcuno mi dice che si tratta di un cd registrato. Eppure, ci trovo un non so che di reale, di spontaneo. Girovago per il cento prima in compagnia e poi sola. Incontro Francesco, Piero,Chiara, Livia, Sara e Rocco proprio alla biblioteca e insieme decidiamo di mangiare al ristorante di fronte. Poi, la serata decolla al Kino. È uno di quei posti che se non ci fosse andrebbe inventato. Penso per un pò a chi ha avuto l'intuzione di trasformare un teatro in bar ma poi l'aria irrespirabile mi sveglia dal film che stavo girando nella mia mente. È pieno di giovani, e ancora una volta arrivo a pensare che tutte le persone che vedevo davanti a me avevano una storia di lutti e perdite da raccontare. La tristezza mi prende di petto, davvero mi diventa difficile continuare a stare li.

La mattina seguente andiamo in pullman da Divjac. Io prima di allora non sapevo chi fosse, davvero. Mi sono fatta spiegare due cose da Patrizia, proprio per non arrivare impreparata. E una volta li,mentre racconta della guerra e dell'assedio di Sarajevo, mi viene da pensare a quei 100 folli pacifisti che vi entrarono la notte dell' 11 dicembre 1992 per portare un chiaro messaggio: stop alla guerra. Tra di loro c'era il papà di un'amica. Penso a Lorenzo, a quanta paura possa aver avuto in quei momenti, e alla soddisfazione davanti ai sorrisi dei civili che capivano di non essere soli. Cosi penso di dover chiedere a Divjac che ricordo ha di quel momento e se, soppratutto si ricorda di quell'inziativa. La risposta mi spiazza. Dice che lui ha partecipato all'organizzazione e che ha tenuto un discorso in francese davanti a loro. La cosa mi fa davvero piacere eppure non so perchè non risco a fidarmi completamente di Divjac. Forse è perchè non conosco a fondo la sua storia, forse perchè semplicemente è un militare. E per questo non riesco a vederlo come una sorta di icona o mito. Apprezzo quando ci racconta di non aver mai ucciso nessuno, apprezzo il suo lavoro ed impegno che mette per la sua associazione, eppure lui ha fatto parte di quelli in divisa e con un fucile in mano. E faccio fatica a vederlo "pulito".

Nel pomeriggio ritorno in centro, spedisco qualche cartolina, e poi mi faccio trovare al museo della resistenza. Li dentro fa un caldo assurdo, e ogni tanto ho come l'impressione di svenire. Mi piace molto la nostra guida, perchè si vede quanto ci tiene a mantenere in vita il museo e quanto sente il dovere di raccontare la storia dell'assedio. Ad un certo punto ci avviciniamo ad un tavolino dove sono esposte delle cosiddette " invenzioni ". Cioè degli oggetti di prima necessità che i sarajevesi hanno prodotto a partire da scarti, da altre materie o oggetti. E la guida presenta il sapone creato da grasso animale, credo pollo. Mi sento un pò in imbarazzo perchè io ha casa ho la ricetta per fare il sapone con il grasso di maiale. È una ricetta di famiglia.. Rido di gusto perchè queste cose normalmente si fanno e si pensano soltanto in contesti del genere quando non ti puoi permettere di buttare via niente, quando qualsiasi cosa ha un valore enorme. Eppure c'è bisogno di non ridere di fronte a quegli oggetti ma far riflettere le persone di quanto quelle stesse operazioni di riciclo siano oggi più necessarie che mai. Riutilizzare la bottiglia dell'olio come innaffiatoio dovrebbe essere fatto anche in contesti non di guerra. Eccetto questo davvero il museo mi è garbato.

Ma non è finita, perchè in quei stessi locali si da l'avvio alla "seconda" del teatro.

Quella notte i coraggiosi marciatori partono in direzione di Tuzla mentre gli altri se la prendono un pò più con comodo. Aspettiamo il ritardatario Cristiano e poi lasciamo la città. Verso le due arriviamo a Skocic, il villaggio di Zijo. Entriamo nella casa in cui è cresciuto, una casa ormai abbandonata che sta per essere coperta dalla ortiche. Poi ci spostiamo verso la casa dei suoi parenti dove il tempo sembra essersi fermato a quel 17 luglio. Lassotto Zijo ci racconta di quella notte. Non sto qui a ripete quei fatti che credo tutti noi abbiamo ben impressi nella mente. Ci spostiamo verso il cimitero rom e poi rimontiamo assettati sul pullman. Srebrenica è davvero vicina.

Arrivati alla chiesa ortodossa, giriamo a sinistra e imbrocchiamo la valle per alcuni kilometri. È assurdo vedere quante case sono vuote e come quelle nuove siamo solo di mattoni. Questa cosa l'avevo notata appena varcata la frontiera Bosniaca. Mi fa davvero senso pensare che ci sono famiglie che vivono in case non completamente terminate. Mi da l'idea che non siano case "per sempre" ma che chi vi abita le potrebbe lasciare da un momento all'altro. Ecco, io non le definirei case perchè non trovo in loro quel senso di stabilità e sicurezza. Ne parlo con Livia e ci chiediamo se fosse solo un problema di tipo economico. Non avendo abbastanza soldi, si aspetta un pò di tempo prima di intonacare. Può darsi, ma non ne sono totalmente convinta. Mi dico che dovrei chiedere lumi ad Andrea Rizza. Ma poi questo pensiero viene surclassato dalla vista delle foto di Putin ovunque all'entrata di Bratunac. Dopo qualche minuto di incredulità in cui mi dicevo <no, sarà qualcuno che gli assomiglia> devo cedere e ammettere che è proprio il suo faccione e che è dappertutto. Si passa Potacari e poi raggiungiamo la nostra metà. Scarichiamo e veniamo divisi nelle diverse le famiglie. Io insieme ad Emilio e Hugo vado a casa di Zora letteralmente dentro la chiesa ortodossa. Cioè non proprio in chiesa, ma in una casa dentro il perimetro della chiesa. Lei si mostra subito dolce e gentile con noi. Emilio conosce qualcosina di bosniaco, ma poi preferiamo affidarci a Google Translate. Lei sembra apprezzare il mio olio d'oliva e poi ci sistema nelle camere di sopra. Doccia veloce e via al centro giovanile, che d'ora in poi sarà il nostro punto di riferimento. Li ci viene servita una cena ottima. Il primo pasto in cui le verdure superavano in quantita (e sopratutto qualità !!) la carne. L'unico vero pasto in cui i vegetariani hanno sorriso. Evvai.

In mattinata si visita Potocari e il compound dell'Onu. Fervono i preparativi per il sabato successivo. E mentre passi da una tomba all'altra ti sfiora l'imbianchino o il tecnico del suono. La vecchia industria è ancora più caotica. È in allestimento una mostra fotografica e gli addetti si muovono da un posto all'altro per sistemare i pannelli. Torniamo in quei luoghi nel pomeriggio. Siamo li per assistere all'arrivo delle 136 bare verdi. C'è molta più gente della mattina, molte donne ma sopratutto troppi fotografi e giornalisti. Io mi sento un'estranea. Incontro lo sguardo di una donna, forse una vedona o una figlia, e mi chiedo cosa possa provare a vedere me, e cosi tanti curiosi. Che senso ha andare ad aspettare qualcuno che neppure si conosce? Le cose si fanno lunghe e i minuti si sommano tra di loro. Alla fine il camion arriva con più di un'ora di ritardo e la causa di quel ritardo fa male e paura allo stesso tempo. Le porte si aprono e inizia quella lenta processione di bare sollevate in aria da altri uomini. Piano piano la gente inzia ad entrare nella sala. Io aspetto ancora un pò fuori. Provo un profondo ribrezzo per tutti quei fotografi che iniziano a schiacciare a raffica un bottone. Menomale non è un griletto, ma l'ossessione con cui il gesto si rincorre mi spaventa. Io in risposta nascondo la macchina fotografica. Non ho nessuna foto di quel momento, ne di Potocari. Non me la sono sentita di fare agli altri quello che non vorrei essere fatto a me. Verso la fine riesco ad entare insieme a Livia, vedo un gruppo di donne in ginocchio e famiglie che pellegrinavano tra le file in cerca di un particolare numero. Do un'occhiata veloce ma esco subito dopo. Il venerdi seguente ci organizziamo per una camminata tranquilla fino alle terme. Faccio colazione con Zora e lei appena mi vede mi chiede se deve stirarmi la camicia. No, terribile. Non sapero che il partito del ferro da stiro esisteva anche qui! Come faccio a spiegarle con Google Traduttore che sto portando avanti una battaglia per il risparmio di energia elettrica e tempo? Perchè faccio cosi fatica a fare proseliti? A parte questa sorpresa di prima mattina esco di casa per l'appuntamento. siamo un bel gruppo di ragazze che tornante dopo tornante arrivano alla fonte. Incontriamo della gente del posto li per raccogliere l'acqua. Ci dicono che non può essere bevuta ma è ottima per gli occhi. Una volta tornati a valle visitiamo la piccolissima chiesa cattolica tenuta aperta da una calda coppia di anziani. E poi deciamo di pranzare con un Burek da Ado. Di corsa, andiamo ancora una volta al centro giovanile per seguire l'intervento di Bekir e Nemanja ad una conferenza. Putroppo qualcosa con la traduzione non fila liscio. Il ragazzo non traduce e cosi chi sente in inglese si perde i primi due interventi. Poi Nevena, dopo una scena comica che racconterò a mezzo mondo, sostituisce il ragazzo e si mette al comando. Cosi sentiamo i due ragazzi di Adopt.

L'undici luglio arriva, e io non sono propiamente pronta. Decido di scendere a Potocari a piedi. Una sofferenza tra il sudore, lo smog, le macchine scortate che per poco non ti stendono. Piano piano vedo aumentare la gente e i rumori. Appena prima del memoriale trovo chi inizia a bere e mangiare. Sono sorti come funghi alcuni chioschi che presentano in bella mostra carne cruda. Ogni tanto ne prendono dei pezzi e con delle lame la tagliano. Cerco di restare il più lontano possibile, eppure non riesco a fare a meno di sentire le ossa che si rompono. Penso che esattamente vent'anni prima quel rumore era molto più frequente. Ma si trattava di uomini.

La folla mi da fastidio, mi mette ansia come sempre. Allora decido di cercare un pò di spazio e d'ombra nei pressi del compound. Non faccio a tempo a sedermi che un'uomo della sicurezza mi dice che non posso rimanere li. Davvero scocciata capisco che quel posto non fa per me. Capisco che io li non ci voglio rimanere. C'è troppa gente comune e troppi "vip" che forse sono li per motivi diversi dai miei. Cosi, mi rincammino verso Srebrenica. Quando ci arrivo vedo scendere dal taxi Francesco, Piero e Leonetta. Andiamo a mangiare in una Srebrenica troppo diversa da quella che avevo lasciato la mattina prima. Silenziosa e deserta. A noi si aggiunge Nemanja. Poi immancabile tacca da Amra per una torta e li incontriamo Zijo e la sua ragazza. Per noi il tempo sta per finire. Hugo ci aspetta alle quattro dietro la moschea.

Con qualche difficoltà recuperiamo chi ci aspettava a Potocari e ci mettiamo in viaggio.

C'è stato un momento preciso in cui ho pensato di andare da Giulia Levi e dirle che io mi sarei fermata a Srebrenica. Mi immaginavo già la sua reazione. Invece, con qualche sforzo, ho fatto riemergere la parte razionale del mio cervello e alla fine ho preso posto su quel pullman. Sono giunta a Bolzano e poi verso sera sono rientrata a casa. Ci sono rimasta per poco più di ventiquattr'ore per poi ripartire verso Pisa. Ero ancora scossa da tutto quello che aveva significato il viaggio, volevo poter raccontare a tante persone quello che avevo visto, sentito e percepito. E quando trovavo qualcuno disponibile ad ascoltarmi ero un fiume in piena. Ieri ho avuto sottomano "Internazionale", leggo dalla copertina che c'è un'articolo su Srebrenica. Non credo di avere mai sfogliato un giornale con tanta foga in cerca di un'articolo. Mi luccicano gli occhi, perchè penso <Io, c'ero>. Inizio solamente ora a comprendere il significato di quell'evento a Potocari. Comincio adesso a capirne la portata. Davvero, non ero sufficentemente pronta e consapevole. Mi fiondo su libri presi in prestito in biblioteca e ricerco articoli e interviste (C'è ne una a Irfanka sull'ultimo numero di Amnesty) e porto tutto a fotocopiare. Dovrei anche preparare l'esame di Antropologia Culturale eppure c'è sempre qualcosa di più importante che viene prima.

Io a Srebrenica non mi sono innamorata, mi sono ritrovata.

 

 

Elisa Rainolter

elisarainolter@libero.it

 

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