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Antonio Marchi: in bicicletta con Alex da Telves a Srebrenica nei luoghi del ricordo

27.7.2015, autore

Prima di cominciare il mio scarno racconto del viaggio nel ricordo del ventennale sacrificio di Alex e della strage delle migliaia di civili musulmano-bosniaci avvenuta a  Srebrenica, sento il bisogno di ringraziare in particolare Edi Rabini e Giulia Levi della “Fondazione” con i quali ho confidenzialmente costruito il viaggio e Gianni Palma (un creativo nell'ambito del settore pubblicitario di Trento) per avermi disegnato la maglietta dedicata ad Alex...e poi mio figlio Daniele che mi ha accompagnato fino a Telves e mia moglie che ha svolto pazientemente il ruolo di “ponte” nelle difficili comunicazioni telefoniche in Bosnia... in più, sento il bisogno di fare una riflessione umana e filosofica sui motivi che mi spingono a ricordare uomini e fatti a me vicini, non nella consuetudine di una pur sentita cerimonia, ma nella fatica del pedalare errante - più consona alla prova del dolore di chi mi ha lasciato - indossando le vestigia del ricordo a me caro, per ascoltare le loro voci lungo le strade dei loro trascorsi.
Ricordare... Nella pletora che mi assilla di libri-mezzi libri, fatti più per essere venduti che letti o più per essere letti che meditati... il libro Il viaggiatore leggero (ma anche In viaggio con Alex) sono come il pane finalmente buono nel quale piantare i denti e da cui trarre nutrimento fisico e morale.
Così è stato più facile spingere sui pedali, perché la forza della volontà non basta... non si fa tutta d'un fiato... richiede preparazione, tempo e attenzione, nutrimento che ho tratto dalla lettura dei sopra citati libri, i quali non investono tutto l'interesse e l'attenzione sul piano narrativo, ma riservano quella dimensione di svolgimento meditativo a cui mi interessa introdurvi...
Negli anni, nei miei frequenti viaggi, ho sperimentato qualche volta una certa stanchezza, altre volte il senso di un'eccessiva insistenza; sono arrivato a provar fastidio per la determinazione inflessibile di me protagonista solitario, di pervenire allo scopo, di arrivare. Ma questo ho pensato prima di accorgermi di un fatto fondamentale: la storia, i personaggi e le situazioni sono del tutto secondari rispetto al fluire del pensiero.  Il “romanzo” dei miei viaggi risulta così il pretesto per svolgervi sopra qualcos'altro, come una di quelle sinopie tratteggiate su cui l'artista stende la ricca materia dell'affresco. Infatti così è: la scena che vi si rappresenta è quella dell'uomo e del suo riscatto pagato e non quella di un debito indefinitamente pendente, quella di un Eden ritrovato e non rinviato indeterminatamente ad un'utopia da realizzare.  Affrontando nel viaggio la fatica, la solitudine, il dolore, non rinvio l'esaudimento delle aspirazioni e proiezioni umane (che sono universali), ma le affronto - strada facendo - con spirito nuovo e come in un romanzo dico: “apri gli occhi e accorgiti della tua unicità, della tua forza, della gioia e della felicità che hai a disposizione e trova nella difficoltà tuo nutrimento”.
Questo è ciò che davvero conta: il progetto, la storia, gli stati, i regnanti (anche la Chiesa), hanno sempre rimandato la realizzazione dell'uomo, condannandolo a un'esistenza di espiazione e di servilismo, di attesa e di falsità, a danno della sua emancipazione e della sua libertà.
Alex, che certo non è solo, ma se fosse solo meriterebbe maggior gloria, nella sua visione limpida e concreta (all'estremo opposto dell'utopia) mi e ci guida ad un presente consensuale da realizzare subito per salvarci e salvare dal disastro economico la terra e l'umanità: il futuro si sta consumando nel presente egoisticamente capitalistico e la socialità organizzata viene a coincidere con l'individualità di ciascuno, con la sua responsabilità di opporsi per dare dignità alla propria esistenza e un futuro alle generazioni che verranno.
“Il padre non è adirato con i figli, ma guarda con amore le loro opere e accorda fiducia all'uomo e alle sue possibilità” (Adriana Zarri – Quaestio 98. Nudi senza vergogna). Nell'idea di altri uomini, spuntati dai bassi sentieri, Alex è un gigante. All'estremo opposto avvicina il cielo della gioia alla terra del pianto e, nel coraggio e nella paziente costruzione di ponti, avvicina, ai sinceri innamorati di Dio e a qualche innamorato dell'uomo, le vie del cielo e della terra.
“A volte, la parola, sembra avulsa dalla Realtà, solo perché non ha ancora terminato di muoversi in essa, la Realtà.” Sapeste quanta storia è passata sui miei inutili diari di viaggio e quanta vita s'è consumata sulle strade dei giardini opulenti italiani ove straccioni di colore giocano a flipper la loro dignità di uomini. Sopravvivrò a questa isteria d'odio che abbatte i muri di sabbia e le scritture dei profeti incise nell'ombra dei minareti? Passo in rassegna i grandi sogni di Alex, sbriciolati a colpi di scoop propagandistici nella costante di un perbenismo utilitaristico-borghese e ricordo i morti inutili di Srebrenica che rientrano nella norma di una guerra bastarda dove il “diverso” (musulmano o no) è straniero del “diritto” di chi comanda di eliminarlo.

Nel raccontare il viaggio potrei cavarmela dicendo che sono partito da Trento e sono arrivato a Srebrenica e basta. Sarebbe però come se ci fossi andato in auto o in corriera e non con un mezzo cosi leggero e fragile come la bicicletta. Farei mancare tutta la credibilità del sudore e della fatica di arrivarci.

Giovedì 2 luglio, ore 15 a Trento in via Guardini dove abito. Assieme a mio figlio Daniele posiamo per una foto e una intervista filmata (da Marta, mia figlia). Siamo pronti per partire: biciclette lucidate per l'occasione, maglietta rigorosamente nuova e profumata. Sul davanti spicca la figura sorridente di Alex Langer con la scritta che lo ha contraddistinto: “lentius, profundius, suavius”; dietro il logo di “Fratellanza Euromediterranea” con la scritta: “ama la terra di cui sei parte”.
Partiamo in direzione Bolzano con un sole che cuoce il cervello, ci aspetta l'inaugurazione del percorso di “Euromediterranea” che mi e ci porterà a Srebrenica: “io” in bicicletta avendo cura di fare tappe per non dissolvermi, “Loro” in corriera con fermate a Tuzla, Sarajevo e Srebrenica.
A Bolzano al Centro Trevi di via Capuccini si svolge l'incontro a più voci con interventi vari (molto toccante quello del rappresentante delle vittime di “Stava” - val di Fiemme) che si concludono con il premiare l'attività dei giovani di “Adopt Srebrenica”  per la loro costante attività nel segno della riconciliazione tra la gente bosniaca rompendo steccati, odi e diffidenze ancora presenti (il premio annuale Alexander Langer della Fondazione va a loro).

Venerdì 3. 20° anniversario della libera morte di Alex.
Si riparte (c'è ancora mio figlio Daniele) per Telves per deporre sulla tomba di Alex una targa ricordo, dopo aver lasciato, in piazza Gries a Bolzano, due amiche di tanta leggera e generosa ospitalità.
La giornata sembra mantenersi serena, ma a Vipiteno nuvole nere la minacciano.
La pioggia fa capolino e in poco tempo si tramuta in temporale estivo. Un attimo di esitazione, ma poi si sale la dura salita che ci porta in cielo sotto un'acqua torrenziale. Siamo bagnati fradici ma ce l'abbiamo fatta: ora anche Alex (come Mauro) ha un riconoscimento.
Mio figlio ritorna a Trento in treno e io proseguo lungo la Val Pusteria fino a S.Candido.
Una brutta strada per la bicicletta nonostante la tanto propagandata pista ciclabile (inesistente).
A S.Candido non posso che rimanere estasiato dalle dolomiti di Sesto. La sera, con un cielo illuminato dalle stelle, appaiono come sentinelle a proteggermi (ma da chi?). Riesco a vedere tutti i contorni nel più assoluto silenzio rotto solo dal mormorio dell'acqua.

Sabato 4. Da S.Candido a Udine. Attraverso i passi di Monte Croce Comelico e Mauria e le località di S.Stefano di Cadore e Sappada, giungo nel cuore della Carnia. In una sosta, trovo simpatica compagnia con una bella signora incuriosita dalla mia maglietta e dalla mia storia, mentre altri (maschi) mi ascoltano interessati... All'imbocco della Val Visdende, un torrentello mi scorre incontro. Meraviglia delle meraviglie, quasi non ci credo: è il grande fiume Piave ai suoi primi vagiti. La strada per Udine è lunga. A Tolmezzo trovo un insperato compagno di strada (Gian Mario) - gran cuore e curiosone simpatico - mi guida in una bella pista ciclabile in mezzo alla vegetazione e fuori dal traffico automobilistico, quasi fino alle porte di Udine.
Udine è una città in festa. Gran caldo ma la “notte bianca” e le sue molteplici iniziative culturali culinarie lascia tutti indifferenti.

Domenica 5. Da Udine a Bakar-Rijeka (Fiume). Passando per Monfalcone penso ai suoi cantieri navali e alle tante braccia impiegate ora dirottate da altre parti per indotti più convenienti e più ricchi guadagni. Trieste è la città delle mille contraddizioni ma anche delle meraviglie; tra il mare e il monte risplende nella sua magnificenza “asburgicheggiante”. Salgo verso Basovizza con grande fatica. Sono al confine ma non si nota o non lo vedo. Il sole già alto mi cuoce il cervello. Devo mettere mano continuamente alla mie riserve d'acqua per abbassare la temperatura corporea. Tutto attorno boschi e verde ma poca ombra sulla strada per coprirmi. Cerco il confine con la Croazia quasi con disperazione avendo in tasca solo “la cuna” (moneta croata). Finalmente il confine. Doppio controllo e via. Breve sosta ad un ristorantino con grande abbuffata di verdura e birra e poi giù verso il mare di Rijeka. Il centro è deserto. Non c'è neanche l'aria del mare a rinfrescare l'aria. A 38 gradi e 168 km nelle gambe non si sogna che una fredda doccia e un letto. Ed è così che decido. A pochi chilometri da Rijeka, dall'alto della strada panoramica, scorgo, in un'ansa del mare un piccolo villaggio di pescatori. Mi ci butto a capofitto ed è fatta per oggi.
Al termine della serata pacificato dal meritato riposo e da un'abbondante pastasciutta alle vongole, incontro due ciclisti italiani (Sergio e Isabella) di Asti. Famigliarizziamo facilmente: mi raccontano le loro disavventure matrimoniali. Tutti e due separati, cercano una nuova unione recandosi a Medjugorje. Domani loro partono alle 5 (col fresco), io non so.

Lunedì 6. Nonostante le buone intenzioni mi alzo tardi quando il sole è già alto e la colonnina del caldo è già oltre i 30. Supero le prime difficoltà della lingua alla cassa e parto in direzione di Zadar (Zara). La strada è un continuo saliscendi che entra e esce dal mare disegnando armoniose insenature mozzafiato. Uno spezza gambe che mette a dura prova fiato e muscoli. Il mare è un blu intenso. Più che un mare mi appare sempre più un lago, un gran lago circondato da isole.  Devo continuamente fermarmi per riempire la borraccia di acqua, bere e bagnarmi la testa. Neanche nelle discese trovo refrigerio al gran caldo. Il sudore copioso mi acceca la vista e devo continuamente fermarmi per pulire gli occhiali. La strada ha un dominio assoluto sul mare e sulle folle dei bagnanti. Beati loro mi dico che si godono il fresco dell'acqua... Zadar mi appare ancora lontana e quando sono le 6 del pomeriggio decido di fermarmi a Starigrad all'Hotel Vicko (cosa strana da queste parti: è l'hotel dei ciclisti). L'impressione di questi due giorni di costa croata è che la vita non sia molto meno gratificante delle nostre parti per il lusso che vedo: belle case, turismo, ristoranti pieni, alberghi pure, auto di cilindrata, gente ben vestita e abbronzata. Una nota di colore: l'ininterrotta segnalazione di scritte lungo la strada di affittanze. Stanze, appartamenti, case (Zimmer, Sobe, apartament), tutto a disposizione di un turismo meno disposto a subire i prezzi di alberghi e hotel. Ogni tanto vedo uomini seduti sul ciglio della strada con addosso un cartello segnaletico a invito.

Martedì 7. Ieri ho rischiato la disidratazione e oggi devo stare più attento a idratarmi meglio e più spesso. La strada è un salire e uno scendere. Un entrare e un uscire. Quando scende, scende a livello del mare e quando sale sembra di andare in montagna... Non ho mai pensato ad un bagno ristoratore, ma con questo caldo non ho avuto esitazioni: con la bicicletta bene in vista mi sono immerso fino alla gola tutto vestito destando non poca curiosità nei vicini bagnanti. Sgocciolante ho ripreso la corsa con maggior lena. Il fresco accumulato è durato poco ma mi ha fatto bene, poi il mio corpo è ripiombato nella savana. Passato Zadar la costa è meno ondulatoria, più pianeggiante, e questo mi ha permesso di aumentare la velocità e di ridurre la fatica avvicinandomi a Split che già era sera. Strano? L'orologio del mio computerino fa le 20. “Non è possibile che già scenda il buio!” Sorpresa? In Croazia non c'è l'ora legale! Fregato. Per fortuna un hotel mi si staglia davanti e non ho alternative: fermarmi o perire in mezzo al traffico pesantemente rumoroso e intenso in una strada sconosciuta e con il buio sulle spalle. Esausto, scendo dalla bicicletta e entro nell'hotel: non avevo dubbi sulla sua eleganza e sfarzosità ma non pensavo al prezzo folle al quale avrei dovuto sottopormi. Ho trattato usando la lingua dei segni ed ho ottenuto un prezzo di favore sempre comunque doppio rispetto alle mie abitudini. Il meno che potevo fare era svuotare il bar in una principesca stanza da letto con bagno e idromassaggio e il mattino seguente fare finta di niente.
La sera faccio due passi per Split. Fa un caldo boia ma c'è molta gente giovane in giro. Vado verso il centro cercando di memorizzare il ritorno. Mi fermo in un chiosco per mangiare una specie di focaccia ripiena di carne e verdure varie. C'è un suono di voci dai vari accenti, la mia attenzione, il mio udito, capta delle voci famigliari (volevo dire amiche...) che riconosco. Mi avvicino: sono due ragazze italiane di Trieste. Senza grandi formalità mi presento e così passo un'ora gradevole con loro tra un racconto e una birra. Conoscono la storia di Srebrenica, un po' meno quella di Langer.
Sono incredule quando le racconto del mio viaggio e del lavoro della Fondazione per arginare il crescente nazionalismo e l'odio etnico ancora esistente negli stati nati dopo la dissoluzione della ex Jugoslavia. Mi dicono che a Split la vita per i giovani non è facile. Che la mescolanza Serbo-Croata la fa da padrona sugli altri e che le gabbie etniche esistono e non si sono estinte, anzi. Mi è dispiaciuto lasciare la compagnia così ben attrezzata culturalmente e politicamente ma la stanchezza ha preso il sopravvento e con grande fatica ho raggiunto l'hotel.

Mercoledì 8. Oggi vorrei passare il confine ed entrare in Bosnia. Me lo dirà la strada se ce la posso fare. Passando per il centro di Split ho potuto ammirare quello che la sera mi aveva nascosto. Molto bello, di una grazia barocca. Bella la cattedrale nella piazza del mercato circondata da graziosi ed eleganti bar e ristoranti. Un continuo di bancherelle ben disposte, lungo strade lastricate di ottimo porfido, manifestano la grande propensione della città per il commercio.
Non è stato facile scrollarmi di dosso Split e trovare la giusta direzione verso Ploce e il confine con la Bosnia che ha voluto dire lasciare la costa adriatica e inoltrarmi nella terra ferma. Dopo Ploce la strada si inerpica nella direzione di Mostar. C'è una località ridente verso Melkovic dal nome ridente di “Bacina”: un vero gioiello di arte naturale creata da case dagli svariati colori che si specchiano nell'acqua del fiume che, nel suo scendere lento, forma una serie di piccoli catini d'acqua simili a quelli del Parco Nazionale dei Laghi di Plitvice. Lungo la strada vari chioschi di frutta e verdura. Troppi perché tutti possano vendere e guadagnare. All'interno il panorama si presenta differente dalla costa. Non sono solo le case, le strade, i pochi alberghi a fare la differenza, ma anche il territorio che da urbano diventa agricolo.
Makarska, cittadina ai limiti della frontiera, mi regala un gran piatto di verdura e formaggio locale con una grossa birra. Non si può capire il cibo e la sua bontà se non dopo tanta fatica, quanto lo introduci in bocca ti dà sensazioni rilassanti ed orgiastiche. Vivo queste soste intensamente e con gratitudine, quasi un privilegio.
La frontiera è a portata di mano ma ho ancora qualche Kuna da spendere e così preferisco fermarmi prima. Località Mekovic.

Giovedì 9. Sarajevo mi aspetta ma dista “solo” 195 km.
Passo la frontiera Croata e sono in Bosnia dopo severi controlli e un'attesa estenuante.
Al primo sguardo il paesaggio bosniaco è molto meno “attraente” di quello croato ma non è per niente privo di interesse paesaggistico. Non c'è il mare, ma Mostar con i suoi ponti, le sue moschee e il rinato centro storico e la sua rinata attività e bellezza lo riempie del tutto. La strada è un continuo sali e scendi e per fortuna l'afa è stata sostituita da un venticello che nasce dai fondali del fiume che mi accompagna nel suo scorrere contrario fino a Konjic dove si allarga in un grande lago.
La strada sale terribilmente, la temperatura si abbassa ma non quella del corpo. Che fatica! Sono solo in mezzo ai monti stretto in una gola che da angoscia. Per chilometri e chilometri non incontro niente: ne case, ne bar, ne persone. Ho un attimo di panico pensando ad un guasto meccanico, ad una foratura, ad un semplice malore...ma mi passa subito quando raggiungo Razaric che dista pochi km da Sarajevo. E' una picchiata scendere verso Sarajevo che invece che avvicinarsi si allontana tanto è lunga la sua periferia dal centro dove devo fermarmi.
 
Venerdì 10. Srebrenica, Potciari, le donne in nero, il grande cimitero. Il luogo del dolore, della disperazione, della vergogna, della strage (una ex fabbrica lasciata come 20 anni fa dove sono stati rinchiusi e poi trucidati bambini, donne, uomini e vecchi musulmani bosniaci).
A Srebrenica ritrovo Edi, Giulia, Roberto e tutta la compagnia partita da Bolzano.
Ritrovo anche un inaspettato abbraccio di Adriano Sofri.
E' stato un trasferimento emozionale. Una grande fatica fisica per superare importanti dislivelli montuosi accompagnata dall'altrettanta fatica di vivere il ricordo nefasto dei crimini perpetrati su innocenti solo perché diversi, fuori luogo. Lungo la strada che mi porta a Srebrenica incontro i podisti della 100 km con i quali ho momenti di fraterna condivisione e solidali apprezzamenti per quello che comunemente ci unisce nello sforzo fisico e nel sentimento di appartenenza alla storia delle vittime di Srebrenica e ai sopravvissuti di quegli anni.
Prima di Srebrenica c'è Potciari dove è in corso una cerimonia. Una folla immensa che occupa chilometri di sede stradale, polizia dovunque, militari sull'attenti... Giurì d'onore, politici, rappresentanti di chissà chi... Con difficoltà passo in mezzo alla gente a testa bassa. Sono imbarazzato da tanta calca. Sento qualche “bravo” in italiano perfetto, ma non oso voltarmi, la mia testa è altrove: a Srebrenica. Arrivato nella piazza della Moschea mi fermo e scendo dalla bicicletta. Il mio viaggio è terminato. Mi guardo attorno: poche persone nella piazza. Sono confusamente contento di avercela fatta. Dopo 1508 km. Srebrenica è parte del mio destino, è carne e sudore, è contemplazione e fatica, è ricordo e speranza. Non è solo quella località sentita per radio, vista dai rotocalchi televisivi, non è solo quel luogo letto, raccontato, non è solo memoria, immaginazione... No!  Scendere dalla bicicletta e mettere piede per terra e dire, con umiltà e soddisfazione: “sono partito da Trento e sono arrivato dove mi ero prefisso di arrivare”. Quello è. 
Da lontano, è vero, si può immaginare (e non è poco), ma da vicino... vedere con i propri occhi gli occhi di un uomo o di una donna che piange, vedere la loro disperazione nella bocca tremolante che prega, vedere il desolante e aritmetico cimitero di Potocari dalle migliaia e migliaia di “croci”, che non sono croci, ma pali di marmo in cui c'è scritto il nome, la nascita e la morte dello scomparso...non è la stessa cosa. Ti vengono i brividi. Nell'ascoltare le loro preghiere, i loro canti, le loro invocazioni ti emozioni fino al pianto e allora, solo allora puoi comprendere il dolore, fartene una ragione che va al di sopra del sentimento di solidarietà. Solo allora nel guardare queste donne e questi uomini sopravvissuti e ostinatamente convinti a restarci, puoi entrare nei loro drammi, puoi capire lo sdegno e la rabbia contro il provocatore capo Serbo Vucic che prima nega l'eccidio e poi (ma l'ha fatto altre volte) ha il coraggio di partecipare al cordoglio.
Solo se si è fisicamente presenti si può capire senza aver bisogno di interviste e così entrare nel l'abisso di 20 anni fa. Negli occhi di una donna china sulla tomba è scritto il suo dramma di quanto abbia dovuto vedere. E' scritto nella documentata mostra nel padiglione degli orrori: “i corpi cadevano a terra come frutta matura, buona per marcire...nel mentre altri corpi vivi, scheletri viventi cantavano una canzone che invitava a non cadere, a sopravvivere...”. Ci sono racconti dell'orrore che vengono trasmessi alle generazioni più giovani: D.D., giovane donna musulmana di Potocari, ha assistito al massacro dei suoi parenti nelle campagne del villaggio, riesce a scappare mentre i suoi amichetti attendono con la bocca aperta e gli occhi chiusi le promesse dolciarie del boia che li ammazza uno dopo l'altro con un colpo di pistola... Rimane nascosta per mesi e mesi nei boschi fino alla fine della guerra, viaggia tutta la notte prima di rientrare nel paese per assistere alla “festa dei carnefici”...
Primo Levi scoprì di essere Ebreo grazie ai nazisti, e un ebreo in mano ai nazisti “è un morto in vacanza”; morì suicida perché non riusciva a dimenticare ciò che non deve essere dimenticato.
Di Levi qualcuno ha detto: “Lui ha visto qualcosa di tremendo venire, come se tutto fosse accaduto invano”. Forse anche per Alex che aveva già visto l'orrore di Sarajevo, di Tuzla, di Mostar prima del massacro di Srebrenica, aveva visto qualcosa di tremendo e forse gli è assalito l'angoscia che tutto fosse accaduto invano... Parole che sono pugni, oggi più che mai in questo lembo di terra contesa dove i desaparecidos sono ancora migliaia. Ogni singhiozzo, ogni canto, ogni parola diventa pesante come il piombo, i loro echi non fanno “semplicemente” riflettere su un orribile passato, ma si trasportano con sofferenza verso il lercio presente. Dopo Srebrenica ho un gran mal di stomaco e un gran mal di gambe e molta gratitudine per il gruppo di giovani di Adopt Srebrenica che mi ha accolto nel loro sforzo di “costruire fiducia” e nelle poche persone che mi hanno accolto nel loro dolore, un dolore che forse dovrebbe diventare di tutti. Forse... 


ps.

Grazie Antonio

Non erano giorni di festeggiamenti a Srebrenica, quando Antonio Marchi è arrivato il 10 sera, con la sua bicicletta, dopo essere partito il 3 luglio da Telfes, sopra Vipiteno, dove riposa Alexander Langer. 1500 km, via Rijeka, Spalato, Mostar, Sarajevo e infine Srebrenica appunto. Così Antonio si è con semplicità unito ai molti che erano venuti con la Fondazione, con i ragazzi di ADOPT nella loro sede e poi il giorno dopo al Memoriale di Potocari. 
Ha dato così  il suo originale apporto al viaggio della memoria che univa Alex e Srebrenica, ricco di ricordi e insegnamenti che non è facile rendere attuali. E’ quindi di nuovo lui  a raccontarci della strada che ha percorso e delle ragioni che l'hanno ispirato, come ha fatto con un analogo tour nel 2005, quando collegò simbolicamente Alex a Mauro Rostogno, passando nella prigione di pisa dove stava Adriano Sofri.
http://www.alexanderlanger.org/it/52/1500

(edi rabini)

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