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Alexander Langer - Critica della ragione sanitaria ; infermiere e pianeta

25.6.2013, Rivista L'invito estate 2013 - Teso allegato

Relazione di Alexander Langer al 9. Congresso Nazionale dell’ANIARTI (associazione infermieri di area critica www.aniarti.it). Riva del Garda 14-17 novembre 1990

II tema odierno «Infermiere e pianeta» lascia riflettere su di una analogia: il «pianeta» è un paziente, un paziente forse di «Area critica», come voi dite.

E in tal senso, probabilmente, tutti quanti ci troviamo nella necessità di fare da infermieri o da medici, dal momento che la salute del pianeta oggi, per molte ragioni che io adesso qui non elenco, e spesso in «Area critica». La sua condizione di paziente è forse dovuta ad alcuni fenomeni mai esistiti in epoche precedenti; dalla seconda guerra mondiale, ma soprattutto dagli anni '60 il pianeta, non riuscendo più a vivere dei frutti, intacca ormai l'albero. La rigenerazione oggi è seriamente compromessa. La quantità di inquinamento chimico ma anche radioattivo causa l'appesantimento complessivo dei polmoni verdi della terra (le foreste, i boschi), non ha mai raggiunto i tassi di oggi e non può che crescere.

L'effetto serra, di cui tanto si sente parlare in questi giorni, è destinato solo a crescere. Secondo gli esperti, dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, un quarto degli alberi della terra è sparito: è come se a ognuno di noi fosse stato tagliato un quarto dei suoi polmoni; la mutilazione è quindi molto forte. È stato calcolato, anche se non siamo in grado di controllarlo, che oggi sulla terra in un giorno brucia una quantità di combustibili fossili (benzina, carbone, sostanza biologica depositata) per la cui formazione sono necessari mille anni. La sproporzione tra distruzione ed eventuale ricostruzione, o salvaguardia è quindi enorme. Questo forse fa capire come a volte anche gli ecologisti, o chiunque rifletta sulle condizioni del pianeta, lo confronti in qualche modo con un paziente su cui discutere per un trattamento con terapie mediche aggiornate e sofisticate. A tal proposito è interessante notare come la lista delle tecnologie ambientali sia lunga quanto quella delle tecnologie sanitarie.

 

Si discute se per salvare questo paziente occorra una forte autorità, un dirigismo che sostanzialmente e centralmente decida quanto si può prelevare dalla dispensa del pianeta, chi deve controllare il razionamento, a chi spetti eventualmente fare e consumare i prelievi e così via. Come succede anche nella vostra professione, molto spesso non si riesce a capire come mai un paziente, seppure avvertito e consapevole della gravita della sua malattia, della sua situazione, non abbia né la capacità né la forza necessarie ai cambiamenti. In tal senso è inutile parlargli della nocività del fumo, dell'alcool o dello stress, se essi non hanno già compromesso la sua salute; i meccanismi che spingono nella direzione distruttiva sembrano dunque più forti.

 

Così come nella vostra riflessione, emerge a questo punto con chiarezza che le norme, le tecniche, e le burocrazie non riescono a dare una risposta adeguata alla malattia ma possono, a volte anche molto efficacemente, curare dei sintomi, bloccare dei degradi e forse anche invertirli. Nell'insieme possiamo dire che la tendenza che porta al diffondersi così endemico di malattia non si corregge se non si lavora per una svolta, per una conversione, per un cambiamento.

Il tipo di cambiamento che ritengo sia richiesto per la salute del pianeta mi pare che oggi consista essenzialmente nella individuazione e nella accettazione di limiti; in sostanza, la specie umana dovrebbe limitarsi ed evitare di procurare un danno maggiore di quello che è in grado di correggere. Purtroppo, allo stato attuale dei fatti, il bilancio negativo supera quello positivo.

 

Se fosse qui, Ivan Illich probabilmente parlerebbe della soglia della controproduttività, quella cioè superata da un progresso, che alla fine si capovolge su se stesso. È come se si dicesse: «La macchina dà libertà di movimento a tutti, ma se tutti la usano c'è l'ingorgo»; il vantaggio acquisito da questa promessa tecnologica di libertà viene così capovolto e conduce a paralisi e frustrazione. Saper scoprire, accettare, valorizzare i limiti, rendersi conto che molte volte il minimo può dare il massimo, ci rende consapevoli del fatto che nella difficile accettazione di un limite possiamo individuare aspetti positivi. Risulta difficile motivare l'accettazione di un limite, l'etica, di cui ha parlato Antonio Autiero (allora direttore dell’Istituto di Scienze religiose di Trento ndr.) che con la sua relazione mi ha preceduto, è senz'altro una motivazione forte.

 

La questione dei limiti e dei confini è quella che maggiormente ho visto collegata al vostro lavoro. Pur sapendone pochissimo, tendo a vedere le infermiere, gli infermieri, i dottori e le dottoresse in medicina e così via, che lavorano in quella che mi è stato spiegato essere l'«Area critica», un po' come delle guardie di un confine molto delicato; guardie che, nel complesso, spesso lavorano anche per spostare un po' più in là il confine tra la morte e la vita.

 

Posso fare un suggerimento di lettura interessante. E’ un libro di Joseph Roth che si chiama in italiano “Il peso falso” edito da Adelphi. Il luogo centrale di questo romanzo è una piccola osteria di confine tra l’ex impero austroungarico e l’ex impero zarista. Ed è un luogo malfamato, frequentato da gente un po’ ambigua di confine, in cui però i pesi veri – ritenuti tali dalla società ordinata – vengono poi sostanzialmente smentiti…insomma si rivelano falsi. E’ la storia di un misuratore, verificatore di pesi e di misure.

E penso a una storia di guardie di confine che mi è sempre piaciuta molto; è una poesia di Bertold Brecht, ed è la leggenda sulla nascita del libro «Taute King». Qualcuno di voi forse conosce questa poesia: c'è il vecchio Lao Tse che va in esilio perché i cattivi hanno preso il sopravvento nella sua terra; è accompagnato da un suo servo e arriva al confine. La guardia di confine chiede: «Ha qualcosa da dichiarare?» E il servo, che risponde al posto di Lao Tse (in un rapporto bello tra subalterni, come potrebbe essere tra infermieri), risponde: «No, non ha niente da dichiarare. Sapete era un maestro, quindi è chiaro che non poteva guadagnare niente». A questo punto però, l'altro subalterno, la guardia di confine, si sveglia e dice: «Ah!, allora era maestro! Allora forse, ha qualcosa da insegnare». E non contento del «niente da dichiarare ai fini delle tariffe doganali», aggiunge: «Se è un maestro avrà scoperto qualcosa. Fermati, io ho una cena per te, ho un letto. Fermati finché non avrai scritto quello che hai scoperto perché può essere interessante per qualcuno».Questa, nella leggenda, è la nascita del «Taute King», un libro di saggezza. Conclude Brecht: «Lode non solo al saggio che lo ha scritto, ma lode anche a chi glielo ha strappato», lode a chi era riuscito, appunto, a prendere questo sapere.

 

Per il momento io vi vedo da non utente (altra brutta parola) ma credo comunque che molta della saggezza delle guardie di confine potrebbe essere esplorata.

Le guardie di confine spesso conoscono qualcosa di entrambe le parti, anche se stanno poi da un solo lato (e il vostro confine poi è a senso unico) e hanno, ritengo, anche una dimestichezza non solo con i passanti ma anche con i contrabbandieri, con altri funzionari di confine (nel vostro caso, forse, i sacerdoti); come i rifugiati e i pendolari sanno dove ci sono i passaggi migliori, dove è meglio non passare... Io penso che il vostro ruolo di guardie sia oggi molto difficile, visto che si discute se abbia ancora un senso presidiare i confini e obbligare le persone a restare al di qua con raffinate tecnologie di trattenimento talvolta forzato. Questa è una domanda che forse voi vi ponete, per la quale sarei curioso di conoscere la vostra risposta, anche se so che è difficile rispondere a freddo.

 

Vorrei a questo punto considerare un secondo parallelo da sottoporre alla vostra riflessione. Ritengo che l'arte sanitaria e quella agricola fin dall'antichità abbiano entrambe operato per correggere e migliorare la natura. Gli specialisti delle due arti e cioè i contadini, i medici, gli infermieri, gli stregoni, i sanitari in genere, anche nelle loro versioni femminili, si sono sforzati di migliorare la natura rilevandone i limiti e hanno quindi senz'altro lavorato per spostare il confine. Si pensi ad esempio alla fertilità spontanea della terra, alla durata della vita, al dolore, alla sofferenza, alla riparabilità dei guasti, dei danni che possiamo avere e/o provocare.

 

Agricoltura e medicina, che dall'inizio dell'umanità intervengono per correggere la natura, oggi appaiono (ritornando alla riflessione di Ivan Illich) come un monumento alla controproduttività. L'agricoltura si trova oggi davanti diversi problemi: sovrapproduzione dei paesi ricchi, enorme settorializzazione nella monocoltura in quasi tutti i paesi e in particolare in quelli impoveriti da noi, enorme deposito di veleni chimici che ormai il suolo comincia a riportare alla superficie. Il primo ciclo di inquinamento comincia già a tornare a noi; si parla di circa un trentennio perché il processo chimico si concluda; questo nei nostri paesi sta ormai avvenendo e molte ricerche, ad esempio sui tumori, mi sembra che lo indichino come un processo già in atto nel nostro Paese. Altrettanto può dirsi della medicina o dell'arte sanitaria in generale che è spesso di fronte alla domanda se non sia diventata controproduttiva, se non controproducente, se non abbia in molti casi superato la soglia in cui i benefici superano in qualche modo gli svantaggi, i costi.

 

Vorrei aggiungere una riflessione più generale (e questo è anche il punto centrale di quello che io vorrei sottoporre alla vostra discussione): il progresso, il miglioramento di tutto, è stato finora concepito, soprattutto negli ultimi 200-300 anni, come ottenibile attraverso processi sempre più spinti di parcellizzazione, di atomizzazione. Si sono parcellizzati e divisi, ad esempio, i processi lavorativi: pensate a quello che chiamiamo, il fordismo e il taylorismo nella fabbrica, e cioè l'introduzione della catena di montaggio in cui ciascuno si occupa di un pezzetto sempre più piccolo. Nella scienza il sapere è stato frammentato, i servizi sono spezzettati per guadagnare maggiore funzionalità; tutto è sezionato, in un insieme di parti giunte non comunicanti.

 

Questa parcellizzazione o atomizzazione ha portato a una forte settorializzazione ma anche a una enorme velocizzazione di tutti i processi che ha favorito la specializzazione dei saperi. La ricomposizione di questi frammenti può essere anche artificiale; si pensi ad esempio al processo che il computer fa riproducendo segmenti di ragionamento umano, trasformati in processi macchinali che possono essere ricomposti più velocemente.

Il progresso molte volte è potuto apparire tale perché è riuscito a distanziare sempre di più l'ottenimento dei vantaggi dal pagamento dei costi. Vantaggi subito quindi e sempre più grandi; costi rimandati sempre più lontani nello spazio, nel tempo, magari in altri paesi, soprattutto del terzo mondo. È come se si lasciasse una bolletta da pagare a chi verrà dopo di noi, o agli strati sociali più deboli, per l'inquinamento, la deforestazione, la distruzione di qualsiasi cosa.

 

La separazione tra costi e benefici (che è un aspetto di questa parcellizzazione, di questa atomizzazione) finora è stata vista come quintessenza del meccanismo che produce progresso, migliora, accelera ogni processo. Questo tipo di progresso ha vinto nella nostra civiltà, da essa ha conquistato le altre civiltà le ha sottomesse; ha portato alla possibilità di misurare quasi tutto (pensate solo agli strumenti che voi usate o di cui avete tra le mani i risultati), a quantificare praticamente tutto; indicatori quantitativi dai quali desumere una notizia sicura sul benessere e sul malessere, sul miglioramento o sul peggioramento.

 

Quello che Galileo sognava come grande conquista per la fisica, il poter tradurre dei criteri di qualità in quantità e quindi renderli misurabili e prevedibili, è diventato legge ordinaria di funzionamento del nostro progresso. Tutto può essere costruito sinteticamente: la vita, la specie vegetale o animale, attraverso macchine sofisticate, tecniche, grande professionalizzazione di esperti dei diversi settori. Tutto questo è stato certamente di grande aiuto ma ha anche originato interrogativi sulla sofferenza, e sull'importanza di vivere in buona salute.

 

Un episodio che mi è stato raccontato mi sembra pertinente al caso: una persona in una discussione sapeva tutto nei minimi dettagli su come erano organizzati i monasteri del medioevo perché aveva condotto grandi studi sul feudalesimo, ma sostanzialmente non sapeva perché la gente ci andasse in monastero, quale fosse la motivazione e cosa cercasse in un tale gesto. Questo suo atteggiamento potrebbe, anche se in forma diversa, ritrovarsi in tanti altri con­testi.

L'aver ritenuto inutile la ricerca di una motivazione ha causato una forte ghettizzazione di molti aspetti della sofferenza: penso al dolore, penso alla malattia, alla vecchiaia, alla pazzia, all'handicap, a tutto quello che in qualche modo sostanzialmente contrasta con la velocizzazione e il progresso di cui sopra.

 

Anche le rappresentanze popolari e democratiche, dalle organizzazioni politiche ai sindacati, hanno via via accettato, forse a volte inconsapevolmente, di trasformarsi in organizzazioni della quantità invece che della qualità. Pensate, per esempio, alle piattaforme rivendicative dei nostri sindacati, a cui contribuiamo direttamente, che hanno una impostazione puramente quantitativa: dal salario, alle condizioni normative, al riposo, alle sostituzioni, alle qualifiche, alle carriere, insomma a una quantità di aspetti che però continuano, molto spesso, a eludere la domanda sul senso del lavoro e sul possibile contributo, anche critico, di iniziativa, di cambiamento che chi svolge quel lavoro potrebbe apportare. E questo, ovviamente, vale per tutti quanti. Consideriamo ancora la storia delle Unità Sanitarie Locali, che all'inizio sarebbero dovute essere il luogo dove anche i pazienti rappresentati dai loro delegati avrebbero potuto intervenire, portando la loro domanda di salute, di organizzazione sanitaria. Naturalmente nulla di tutto questo è stato realizzato(non a caso oggi si chiamano Aziende ASL ndr.).

 

Il vostro presidente, Elio Drigo, ha chiesto di parlare di proposte; è molto difficile, soprattutto per chi non vede le cose dall'interno, fare delle proposte sensate; per questo ho cercato di raggruppare alcuni stimoli intorno a un’idea centrale che vorrei proporre in risposta a quello che ho cercato di tratteggiare.

La mia proposta, tra l'altro già accennata da Elio Drigo, è quella del recupero di interezza. Rispetto allo spezzettamento, alla malattia, alla disintegrazione se vogliamo, sia del pianeta che degli uomini, oggi ritengo sia non tanto richiesto un ulteriore affinamento di diagnosi, di proposte di terapie ulteriormente settorializzanti, che comunque verranno fatte da altri. Anche per l'ambiente ci saranno ancora tanti convegni, tanti simposi di esperti che diranno, quanto inquinamento possiamo ancora sopportare, eventualmente come utilizzare altre risorse di inquinamento, visto che in certi settori siamo già andati oltre. A questo ci penseranno altri.

 

Anche nella vostra professione non mancheranno, anzi non mancano, coloro che su questo aspetto della cura lavorano, guadagnano, motivano le loro carriere e trovano la loro affermazione. Uno sforzo in qualche modo controcorrente può condurre alla riconciliazione, alla ricomposizione, al recupero di interezza, di riequilibrio, di pacificazione. Ciascuno può scegliere i termini che crede opportuni per comunicare il messaggio di semplicità. Una semplicità non da ingenui, da sempliciotti, ma di chi pur non riuscendo a capire la complessità del fenomeno lo accetta. È la semplicità di uno scalatore, che pur volendo affrontare la vetta, se si rende conto delle cattive condizioni meteorologiche, è pronto a rinunciarvi, senza sfidare una forza più grande di lui, ma accettando così anche il suo fallimento.

Questo non è però il fallimento di chi non ha le capacità di riuscire, ma piuttosto un'autolimitazione volontaria. Un detto biblico recita: «Non può guadagnare la propria vita se non chi è disposto a perderla.» Sono convinto che questo possa valere in molti contesti; non dovrebbe aver potere chi non è disposto a perderlo ed è incapace ad esserne distaccato. E la stessa cosa si potrebbe dire del denaro, del sapere professionale, dell'arte di saper fare.

 

Il messaggio forse più forte che potremmo dare, se volessimo sintetizzare, è proprio questo: il progresso per noi oggi non può più stare in un ulteriore spezzettamento, in un affinamento della settorializzazione, della specializzazione; il progresso oggi è recupero di interezza, la cura oggi necessaria è il recupero di interezza.

 

Le mie riflessioni non sono specifiche per la professione di infermiere, potrebbero essere generalizzate; si potrebbe formulare l'ipotesi di una deprofessionalizzazione, e con questo spero di non essere frainteso. Non intendo autoriduzione all'ignoranza o cose di questo genere, ma introduzione di accorgimenti, perfino nella organizzazione della nostra vita professionale, in modo da non essere ripetitivi nel lavoro, fino a identificarsi con quella mansione, ed essere così l'illustrazione del mansionario.

La deprofessionalizzazione può avere legami con l'interazione tra funzioni diverse, e forse anche con una qualche rotazione nel tempo, nelle cose che si fanno; potrebbe avere a che fare con l'organizzazione di forme di interazione con non professionisti. Nel vostro caso, in particolare, questo potrebbe essere proiettato sui pazienti o i loro parenti. La prima volta che ho sentito parlare di «Area critica» l'avevo interpretata diversamente: pensavo che «Area critica» volesse indicare la criticità degli infermieri rispetto al loro mestiere, ho poi capito che si trattava di un termine tecnico e ho pensato che i due significati fossero entrambi validi.

 

Un'altra considerazione alla quale si potrebbe pensare molto in concreto, mi pare sia stata accennata anche già da Autiero, quando ha parlato della comunicazione. Da sempre, e oggi più che mai, la separatezza delle professioni, la salvaguardia della parcellizzazione e della specializzazione si basano anche sul segreto dei “chierici”, sul fatto che gli addetti parlino nel linguaggio degli addetti e solo agli addetti senza rompere il muro della comunicazione che li separa dai non addetti.

Voi che siete al confine più cruciale, appunto, anche tra parenti, pazienti, medici, tra vita e morte, benessere e malessere, siete oggi, forse più dei medici, un organo che può capire dove c'è la soglia e dove si rischia di superare la soglia verso la controproduttività.

 

L'esperienza della vostra Associazione è molto interessante, io non ne conosco altra paragonabile; voi cercate di trasformare le organizzazioni della quantità in organismi della qualità. Cercate di costruire senza nulla togliere agli organismi della quantità, quelli che si reggono su tessere, su voti, su rivendicazioni quantitative, proponendo invece una prospettiva di qualità che, come tale, non è ristretta ai soli addetti ai lavori.

Ritengo che un'altra cosa sia comune oggi alla vostra e ad altre professioni: lo sforzo di detecnologizzazione. Quanto dicevo prima dell'ingorgo delle macchine, delle automobili, oggi è una situazione abbastanza generalizzata.

L’eccessiva dipendenza dalle macchine è tale che la perdita dell’autonomia, la perdita di sapere, di capacità di modulazione, di adeguamento dell’intervento alla situazione reale, sono ormai tali da rendere necessaria l’introduzione di una voce controcorrente. Contro l’ulteriore tecnologizzazione, questo può essere un aiuto, un riconoscere dei limiti e un dichiararsi disposti ad accettarli.

 

Un ultimo punto riguarda la femminilizzazione. In ambiti ecologisti si ascolta il femminismo americano, che vede la valenza femminile come un approccio culturalmente e storicamente più renitente alla settorializzazione, alla tecnologizzazione, alla trasformazione in macchine. Forse questo andrebbe valorizzato; non è una questione semplicemente di numeri, cioè della percentuale di infermiere, ma di quanto pesa un diverso tipo di approccio, di sapere, di sensibilità; in altre parole, ancora una volta, un discorso di qualità.

 

In conclusione voglio sottolineare che il mio intervento vorrebbe servire all’individuazione, al riconoscimento, all’accettazione dei limiti. Il richiamo ai conflitti bellici che continuamente scoppiano nel mondo per questo motivo è immediato. Ma non parlo in senso territoriale, bensì di campi occupati da eserciti non meno armati, non meno super specializzati, in cui, probabilmente, rispetto ad alcuni di questi confini, ci si dovrebbe semplicemente ritirare.

 

Può essere un ritiro negoziato, non deve essere imposto con la guerra. Accetto volentieri il suggerimento di empatia o di compassione. Compassione non nel senso pietistico, ma in quello di mettersi nella stessa condizione e condividere; anche se la compassione si rivolge a chi non ha speranze. Compassione insomma non vuol dire fatalismo, ma non vuol dire neanche idea di onnipotenza per la quale è possibile avere rimedio per ogni male, purché si abbiano i mezzi adeguati.

 

In questa prospettiva individuo un orizzonte di riconciliazione, di ricomposizione, di interezza: dalla distruzione alla ricostruzione, gli esperti difficilmente ci sapranno guarire, sapranno forse aggiustare molti guasti, ma difficilmente sapranno guarire. Chi serve l’interezza, invece, forse non sempre vorrà spingersi al massimo nella ricerca e nel montaggio dei vari pezzi di ricambio, ma aiuterà meglio a guarire. Non si può rimuovere l’idea di malattia; dobbiamo convivere con lei più serenamente anche con la prospettiva della morte, che è inutile esorcizzare, rinnegare o rimuovere facendo finta che non ci sia.

 

REPLICA di LANGER ALLE DOMANDE E AL DIBATTITO

 

Io mi trovo più in difficoltà a rispondere perché sulla questione dei limiti in particolare di applicazioni o sperimentazioni di tecnologie sanitarie, non sono abbastanza «dentro» per sentirmela di dire qualcosa di sensato.

Viceversa, se me ne dovessi occupare in qualche modo da legislatore, oggi tenderei a limiti molto ristretti per una ragione abbastanza semplice: perché purtroppo non c'è nessun reale bilanciamento alle ragioni del denaro e, se vogliamo, del potere.

Purtroppo finché la nostra società è organizzata così come è organizzata ora, è molto difficile che funzionino degli efficaci, «temperamenti»; insomma qualcosa che moderi la dinamica spontanea del denaro e del potere per cui la ricerca farmaceutica, la ricerca medica, la sperimentazione non sono affidate neanche all'èthos alla coscienza dei limiti dello scienziato, del ricercatore. Ma anche questa difficilmente potrebbe essere l'unico presidio che controlla questo confine, oggi nei fatti, le ragioni dell'industria o anche semplicemente dell'affermazione, dell'autoaffermazione degli scienziati, sono talmente forti che mi sembra che il solo èthos, la sola coscienza dei limiti degli operatori, in qualche modo, non siano sufficienti. In questo senso mi sembrerebbe, invece, molto importante che una riflessione si sviluppasse tra voi, cioè tra chi, forse, paradossalmente, essendo comunque meno gratificato dall'eventuale successo di queste terapie o sperimentazioni, forse conserva una maggiore libertà di giudizio, una maggiore capacità di interpellarle, non solo a nome dello “stregone”, ma anche a nome della gente normale. Cioè voi siete, probabilmente, un po' a metà, un po' più nell'incrocio tra le persone comuni e i ricercatori, gli scienziati titolari di questo.

 

Sull'altra questione su cui volevo ancora dire qualcosa è la questione appunto dei convegni sulla socialità che aumentano e dei passaggi in macchina che diminuiscono. Osservazione acutissima e vera e penso che qualcosa, probabilmente, può essere fatto cercando appunto di fare di questo un tema di cui la gente si renda conto. Quindi anche forse a qualcosa, qualche convegno, può servire. Però non c'è dubbio che molte volte, da questi convegni, viene fuori in parallelo la distruzione delle corti di cui lei ha parlato o dei passaggi in macchina e magari è possibile che venga fuori una soluzione apparentemente molto più avanzata, forse il buxi — che è la combinazione fra bus e taxi che, mi pare, in alcune Regioni venga sperimentato — ma che hanno spesso, come loro caratteristica, quella di promettere maggiore indipendenza, cioè di promettere alle persone di non dipendere più dal buon volere altrui, di non dipendere più dall'andare a chiedere una cosa, dal restituire un favore, ecc., ma di diventare indipendenti perché con l'acquisto di una tessera o con la lettura corretta di un orario ci si rende indipendenti, ma che in realtà aumentano moltissimo la dipendenza e in più tagliano le relazioni sociali, per cui non resta che cercare di difendere accanitamente e possibilmente di sviluppare, soprattutto le occasioni di gratuità, e se vogliamo anche di informalità, in cui lo stare insieme non avviene perché qualcuno fornisce una cornice ufficiale in cui questo si verifica.

Ad esempio già da circa 20 anni sono scomparse praticamente tutte le fontane perché questo ovviamente obbliga la gente ad andare nei bar. Ora, il bar può essere ancora un luogo di socializzazione ma in cui uno è obbligato, pur di poter chiacchierare con qualcuno, a prendere un analcolico, un caffè

o non so che cosa.

Sviluppare la gratuità vorrebbe dire difendere e sviluppare tutti i posti in cui ci si può appunto ritrovare, si può sostare, ci si può parlare, senza dover far parte di una struttura, senza dover pagare un biglietto di ingresso, senza essere abbonato a un circuito, senza avere poi un contratto di assistenza tecnica che dopo cura la manutenzione, e così via. Non resta che la pratica diretta. Mentre i convegni in genere, non partoriscono questi effetti.

 

 

(Questa relazione ci è stata inviata gentilmente dall’allora presidente dell’ANIARTI Elio Drigo che l’ha recuperata dagli atti del congresso.

Per ragioni di spazio non è stato qui trascritto l’interessante dibattito che ne è seguito.

Alexander Langer aveva sostituito all’ultimo momento per l’occasione il suo amico Ivan Illich.

Su questi temi l’Aniarti è tornato più volte, in particolare con il convegno del 2009 dedicato alla “Questione del limite” che si legge nel suo interessante sito http://www.aniarti.it/congresso2009/index.php )

 

 

 

 

 

 

Langer-infermieri_e_pianeta_1990.doc (58 KB)
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