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Federico Zappini: Game, Set, Match…Djokovic

16.9.2011, Ponti di vista http://pontidivista.wordpress.com/2011/09/15/game-set-match-djokovic/

SCONFINAMENTI. Alexander Langer probabilmente avrebbe apprezzato. La scelta di sconfinare, di avvicinarsi a quello che dovrebbe essere il nemico. Quello che è stato – davvero -, e forse in parte ancora è percepito come, il carnefice. Lasciare Tuzla, città accogliente, per avvicinarsi a Belgrado, la capitale dell’Altro. Immaginare ponti, seppur fragili e temporanei è la sfida di ogni costruttore di pace, qual era Alexander Langer. Percorso ardito, che segna nel profondo. Accorciare la strada verso Belgrado. Lastroni di cemento, messi uno dopo l’altro, che dovevano sopportare il peso dei mezzi blindati. Centinaia di carriarmati, seguiti dalla fanteria. Itinerari di eserciti in transito.

Dalle colline bosniache si scende verso le pianure della Serbia. Lo sguardo si perde all’orizzonte e per chilometri non c’è null’altro che sconfinati campi – coltivati e non – già colorati delle tinte autunnali. Non riescono a contenere le domande che ogni viaggio in queste terre apre. E per cercare le risposte, se è possibile davvero trovarle, il tempo e gli strumenti sono perennemente insufficienti. Ma il primo passo, quello del superamento del confine, dell’abbattimento delle divisioni, è fatto.

ARCHITETTURA DI GUERRA. Belgrado è ormai una metropoli europea. Più di due milioni di abitanti, traffico nervoso, una moderna skyline tappezzata con i marchi del capitalismo – in crisi – occidentale. Srebrenica è la fotografia stropicciata di un passato rurale solo in parte intaccato da qualche palazzo dall’aspetto moderno e dalla dubbia utilità. Il cielo limpido si incontra con i boschi ripidi che circondano da ogni lato il centro della città.  Spesso regna il silenzio, rotto solo dal canto del muezzin e dall’abbaiare dei cani. Che cosa può accomunare quelli che sono probabilmente i simboli – nelle storie di due popoli – più potenti dei conflitti balcanici degli anni novanta? Può qualcosa far assomigliare la capitale cosmopolita della Serbia bombardata nel 1999 dai raid Nato e la città che maggiormente ha incarnato le sofferenze degli uomini e delle donne barbaramente massacrati durante il genocidio del luglio 1995? Forse sì. Da una parte – a Belgrado – le macerie di alcuni palazzi bombardati nel centro della città, scheletrici monumenti alla memoria, atto di sfida e porta lasciata aperta su di un passato da non dimenticare. Dall’altra, a Srebrenica, le facciate delle case ancora disegnate dai segni delle pallottole e delle granate, segni profondi e ancora non cicatrizzati di una pagina troppo brutta di una storia ancora troppo recente per essere girata. Un’architettura di guerra che ancora rappresenta la continuità con gli ultimi vent’anni di queste terre.

NUMERO 1. Novak Djokovic esulta. Un numero uno a caratteri cubitali con i colori della bandiera serba al suo fianco. La sua immagine è su giganteschi manifesti al lato delle strade, sta sulle vetrate delle banche e su tutte le prime pagine  dei giornali. Lo sport serbo – quello jugoslavo ha sempre saputo primeggiare in diverse discipline di squadra – conquista l’attenzione di tutto il mondo con il volto di un suo atleta. Giovane, sorridente, scanzonato. Incredibilmente vincente, con più di sessanta vittorie e solo due sconfitte quest’anno. Un personaggio globale che supera i confini nazionali e diventa icona planetaria. Un serbo alla conquista del mondo.

Tra il 1991 e il 1999 Novak Djokovic è stato bambino e poi adolescente proprio nel periodo più buio e tormentato della storia recente dei Balcani. Con la guerra in casa. Quella guerra che ha segnato l’esistenza anche (e soprattutto) dei più giovani – chi con la morte, chi con una vita piena di incubi e ombre – e ha lasciato alle nuove generazioni, i ragazzi e le ragazze tra i 25 e i 30 anni, la responsabilità di ridare forma alle macerie, di ridare un senso alla parola futuro. Un lavoro improbo fatto di pazienza, coraggio, passione e rispetto. Chissà che idea ha Novak – impegnato da bambino a colpire dritti e rovesci prima a Belgrado e poi a Montecarlo – di ciò che è successo e di ciò che dovrebbe accadere. Chissà se le sue risposte, così come sul campo da tennis, sarebbero da autentico numero uno.

LA NOTTE DELL’ODIO. Le ore passate a Belgrado sono decisamente troppo poche per capirne davvero qualcosa. Una sfilata di auto blu – dall’Angola fino al Belgio – davanti alla sede del Parlamento, lunghi viali percorsi da decine di autobus e tram, costanti lavori in corso. Uno sguardo a Piazza della Repubblica e un passaggio sopra Danubio e Sava. Non ho visto la tomba del maresciallo Tito. In quel momento stavo guardando dall’altra parte (!). Sento la necessità di tornarci con più calma e lo farò.

Il pomeriggio passato negli uffici di Rekom è stato intenso. Un tuffo nelle contraddizioni della guerra  e dei suoi lati oscuri e nelle difficoltà del percorso di riconciliazione; lungo, tortuoso e tutt’altro che sicuro. A metà dell’incontro con Natasha Kandic – una signora serba impegnata da anni nel “tradire la compattezza della propria identità etnica” nel tentativo di restituire verità e giustizia a migliaia di vittime delle atrocità della guerra – comincia un acquazzone violentissimo. Qualche ora di pioggia fitta e intensa. Strade trasformate in fiumi e cielo pesante come una coperta di metallo. E il buio fradicio di Belgrado – che arriva mentre ancora discutiamo di come uscire dalle sabbie mobili del periodo postbellico – sembra venirci a ricordare di come non sia ancora del tutto terminata la notte dell’odio che per anni ha segnato questi luoghi.

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