Adopt Srebrenica Adopt Srebrenica Settimana Internazionale 2011

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Settimana Internazionale 2011 - Riflessioni

4.1.2012

 

Bosnia: un viaggio che cambia la vita

di Serena Rauzi

Settimana della memoria 2011 – Tuzla, Belgrado, Srebrenica 3-10 Settembre 2011 – un viaggio di storie, volti, immagini, suoni, odori, emozioni. Un’esperienza che cambia il modo di vedere la vita e il mondo.

Quest’anno, a inizio settembre, ho avuto la grande fortuna di partecipare alla settimana della memoria, un viaggio organizzato dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano insieme all’Associazione bosniaca Tuzlanska Amica e ormai arrivato alla sua quinta edizione. Una partenza, la mia, decisa in fretta, senza troppo riflettere, forse il modo migliore per lasciarsi sorprendere, entusiasmare, contagiare.

Non racconterò questo viaggio in ordine rigorosamente cronologico, ma parlerò delle emozioni e delle esperienze che si sono susseguite a ritmo davvero intenso. Alla fine del viaggio è stato come essere un calzino rivoltato, senza più certezze, con tante domande e nessuna risposta, ma con una gran voglia di conoscere e di cambiare il mondo.

La prima tappa è Tuzla, città antica, importante centro universitario e culturale in cui convivono bosniachi-musulmani, serbi-ortodossi e croati-cattolici alla ricerca di un futuro che sia in grado di superare lo shock causato dal terribile conflitto degli anni novanta. Qui ha sede Tuzlanska Amica, organizzazione non governativa guidata da Irfanka Pašagić, neuropsichiatra originaria di Srebrenica, giunta a Tuzla come profuga nel 1992. L’organizzazione nasce già nel 1992 con l’obiettivo di alleviare le sofferenze di un numero crescente di donne e bambini arrivati dai campi di concentramento, dalle zone sottoposte alla pulizia etnica e in fuga dalla città di Srebrenica. Oggi Tuzlanska Amica continua a offrire assistenza medica e psicologica agli orfani della guerra, offre accoglienza ad alcuni orfani diventati maggiorenni, offrendo loro la possibilità di costruirsi un futuro, promuove politiche sociali e sostiene, con il progetto Adopt Srebrenica, l’incontro e la collaborazione tra giovani di religione diversa vogliosi di costruire insieme un mondo di pace e convivenza.

A Tuzlanska Amica conosciamo proprio Irfanka e alcuni ragazzi di Adopt Srebrenica che si uniranno a noi italiani, da Bolzano, Trento, Venezia e Pescara, per tutta la settimana.

Il racconto di Hasan Nuhanovic

Gli occhi di Hasan Nuhanovic aprono la serie di forti emozioni che mi accompagnerà per tutto il viaggio. Hasan ha oggi 42 anni e nel 1995, quando a Srebrenica ebbe luogo il più grande genocidio in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale, faceva l’interprete per i caschi blu che avevano l’incarico di proteggere la regione intorno a Srebrenica. Da quel maledetto 11 luglio 1995 lui farà della ricerca delle prove di quanto accadde quel giorno la missione della sua vita. A luglio di quest’anno ha vinto una causa penale contro l’Olanda, che è stata condannata da un tribunale ordinario olandese per responsabilità diretta nella morte del padre e del fratello di Nuhanovic, che quel giorno vennero uccisi assieme a oltre 8000 persone per lo più uomini bosniaci mussulmani. Hasan racconta con precisione quasi maniacale quello che successe quella prima settimana di luglio, come il battaglione olandese dei caschi blu fosse del tutto incapace e inefficace nel contrastare le incursioni serbe che si avvicinavano senza ostacoli a Srebrenica, come non fossero né pronti, né predisposti ad accogliere le oltre 25.000 persone che l’11 luglio si riversavano a Potočari, quartier generale dell’ONU a 8 Km circa da Srebrenica. Solo 5000 persone, per la maggior parte donne e bambini, vengono lasciate entrare nel perimetro della base, il resto viene tenuto fuori, in balia dell’esercito serbo che avanza. Sotto gli occhi “bendati” degli olandesi, l'esercito serbo-bosniaco guidato da Mladic uccide tutti gli uomini dai 12 ai 77 anni che avevano cercato rifugio presso i caschi blu e deportano le donne e i bambini. Hasan non riesce a far scrivere assieme al suo il nome del fratello nella lista delle persone che dovranno essere lasciate nel quartier generale di Potočari. Della sua famiglia si salva solo lui. Noi ascoltiamo immobili. Hasan racconta con precisione e apparente freddezza. Solo un tic all’occhio, che a momenti sembra muoversi per conto suo sbattendo incontrollato, tradisce la sua grande emozione, soprattutto quando parla degli ultimi momenti in cui vede vivi i suoi genitori, costretti a uscire dalla base dell’ONU.

I giovani di Tuzla

Sulla collina di Tuzla è ben visibile dal centro un cimitero. E’ il memoriale della granata che il 25 maggio 1995 ha ucciso 71 ragazzi e ragazze che si erano radunati per festeggiare la Festa della Gioventù. Erano ragazzi musulmani, cattolici, ortodossi insieme a festeggiare. Sono morti insieme e insieme sono stati sepolti su questa collina per volontà di parenti e amici, che non ne hanno voluto sapere di separarli seppellendoli nei rispettivi cimiteri di appartenenza. Il silenzio che avvolge questo luogo così verde, così riposante e allo stesso tempo memoria di un fatto così terribile viene rotto dal canto del Muezzin che chiama alla preghiera. Quanto volte lo sentirò durante questo viaggio! E ogni volta mi sembrerà sempre più bello e solenne. Una “litania” che accoglie.

Belgrado: l’incontro con Natasa Kandic

Dopo due giorni passati a Tuzla passiamo il confine e ci rechiamo a Belgrado, in Serbia, dove ci aspetta Natasa Kandic, direttrice dello Humanitarian Law Center di Belgrado e iniziatrice di RECOM (Regional Commission for Establishing the Facts about War Crimes and Other Gross Violations on Human rights Committed on the Territory of the Former Yugoslavia in the Period from 1991-2001). Poco prima di entrare a Belgrado, Andrea Rizza della Fondazione Alex Langer di Bolzano, la nostra guida e interprete, ci raccomanda di non raccontare troppo in giro che andiamo a trovare Natasa Kandic. E’ un personaggio scomodo in Serbia. Da molti viene considerata un nemico e non si sa mai con chi ci capiterà di parlare. Questo avvertimento mi accompagnerà per tutti e due i giorni passati a Belgrado e influenzerà non poco il mio modo di vedere le cose. Belgrado ci accoglie grigia e piovosa, i segni della guerra sono ancora molto visibili. A darci il “benvenuto” due enormi edifici sventrati dagli attacchi NATO e non ancora messi in sicurezza, con calcinacci che potrebbero cadere da un momento all’altro. Nonostante il grande ritardo del nostro arrivo, causato da problemi avuti alla dogana (fatto d’altra parte non eccezionale da queste parti) veniamo accolti con grande affetto. Natasa è una signora dallo sguardo serio e profondo. Sembra riesca a leggerti nell’anima. E il suo non è un intervento frontale, non ci racconta le cose incredibili che fa per trovare le prove dei crimini di guerra, per assicurare alla giustizia i colpevoli. Natasa fa a noi, italiani e bosniaci, una domanda: “Che cosa ne pensate voi di questa nostra volontà di affrontare il passato recente in un processo di ammissione e riconciliazione? A me sembra l’unico modo per poter poi guardare al futuro, ma che cosa ne pensate voi?” A questa domanda i pensieri mi si affollano in testa: penso al Sud Africa, a Mandela e a Desmond Tutu che con un discorso simile sono riusciti non solo a evitare la guerra civile, ma a instradare il Sud Africa verso un futuro di convivenza; penso anche alla Germania nazista, dove un processo del genere non è mai avvenuto e di quanto ne paghino ancora oggi le conseguenze le generazioni che con quella storia non hanno avuto nulla a che fare e che per il semplice fatto di essere tedeschi devono continuare e giustificarsi per azioni che non hanno mai compiuto. Penso anche all’Italia prima fascista, praticamente in blocco, e poi partigiana. Che non ha mai rielaborato colpe e responsabilità e che ancora oggi ne risente nel linguaggio e nei simboli delle appartenenze politiche. Dove ancora oggi si può continuare a essere fascista e a esserne fiero. La voce dei ragazzi bosniaci (sia serbi che musulmani) che ci accompagnano è forte e chiara: sì, noi vogliamo che ci sia un percorso del genere, vogliamo verità, vogliamo giustizia, ma vogliamo anche riuscire a perdonare per guardare avanti.

Zijo Ribic e i Rom dimenticati

Zijo, un ragazzo Rom si è unito a noi da Tuzla per andare a Belgrado con uno scopo ben preciso. È l’unico sopravvissuto della sua famiglia, massacrata dalle truppe irregolari serbe nel 1992. A Belgrado dovrebbe testimoniare contro i carnefici che hanno ucciso i suoi genitori, i suoi fratelli, stuprato e ucciso sua sorella, massacrato l’intero villaggio. Purtroppo la seduta viene rinviata, ma Zijo ci racconta ugualmente la sua storia e non ci lascerà poi più per tutto il viaggio. Zijo si salva perché viene creduto morto. Ha solo sette anni. Passerà il resto della sua infanzia e l’adolescenza sotto shock. Per molto tempo nessuno lo potrà toccare, per anni si rifiuterà di parlare. Grazie alle persone e alle istituzioni ospedaliere e non che lo hanno accolto, Zijo può oggi provare a costruirsi una vita normale, ha imparato a cucinare e ha lavorato come cuoco in un hotel. Probabilmente passerà alla storia, perché è il primo rom a portare davanti a un tribunale internazionale i suoi carnefici. Come per altre tragedie della nostra storia, i Rom hanno subito violenze e massacri, che purtroppo non trovano spazio nelle cronache o nei libri. Dentro di me resterà per sempre il suo sguardo buono, la sua voglia di vivere, la sua voglia di futuro.

Un assaggio di estremismo serbo

A Belgrado mi accompagna per tutto il tempo una strana atmosfera, di rancore, di rabbia soffocata… Una sera, mentre rientriamo in ostello dopo aver cenato, incrociamo due ragazzi serbi che con fare brusco vogliono sapere da dove veniamo. Noi, con una breve e concisa risposta “Italy”, speriamo di cavarcela. Invece i due ci seguono, sono un po’ su di giri. Il più alto dei due lancia nella nostra direzione, anche se abbastanza lontano, una bottiglia di vetro piena di birra. Per fortuna tra noi c’è Mario che ha trascorso un anno in Serbia e può quindi intrattenerli discorrendo nella loro lingua. Ci riferirà poi i loro discorsi: “gli italiani ci stanno simpatici, perché durante la seconda guerra mondiale si sono comportati bene, ma durante la guerra negli anni novanta, non ci è piaciuto molto che abbiano permesso alla NATO di utilizzare la base di Aviano, da cui ci bombardavano. Ma li faremo tutti fuori, musulmani, rom, tutti…” Per fortuna l’ostello non è lontano e possiamo separarci senza problemi. Abbiamo toccato con mano quanto arduo sia il lavoro iniziato da Natasa Kandic nel suo paese.

Un tassista appassionato di calcio

Il soggiorno a Belgrado è comunque troppo breve per potersi fare un’idea completa della città e dell’aria che si respira qui. Trequarti d’ora in taxi, dovuti a un traffico esasperante, mi permettono di fare due chiacchiere con il tassista, che parla un buon inglese. Un appassionato di calcio. Non un ultras, ma un appassionato che combina i suoi viaggi per l’Europa con le partite di calcio. L’ultima esperienza, mi racconta, è stata quest’estate a Barcellona. Barcellona-Napoli 5-0. Mi racconta la scena di una famiglia di napoletani che assisteva alla partita. Dopo due gol del Barcellona il bimbo di 5-6 anni si mette a piangere e il padre, invece di consolarlo, inizia a piangere anche lui. È un osservatore, non sembra un esaltato e nemmeno un violento. È una persona normale che vuole girare il mondo e andare a vedere le partire. Un invito però ad andare a vedere una partita in Albania, mi dice, lo ha rifiutato: come serbo si hanno dei problemi in Albania, e non solo burocratici. Quando mi chiede dove stiamo andando, sono tentata di dirgli la destinazione esatta, il nome e le attività della nostra ospite, Natasa Kandic e la sua organizzazione. La prudenza, forse anche il timore di una reazione negativa, mi fa desistere. Mi piace ricordarlo come un incontro di quotidiana normalità nel traffico mattutino di Belgrado.

Srebrenica

Lasciamo Belgrado, che ci saluta con il sole e un cielo turchino che si specchiano nelle acque del Danubio e ci avviamo nuovamente verso la Bosnia. Andiamo a Srebrenica. Finalmente vedremo con i nostri occhi lo scenario della tragica storia che c’è stata raccontata in questi giorni. Ci accoglie una cittadina grigia, in cui i pochi edifici rinnovati spiccano accanto alle molte case ancora in rovina, distrutte o gravemente danneggiate durante la guerra e non ancora ricostruite. La municipalità di Srebrenica contava prima della guerra intorno alle 36.000 persone. Oggi ce ne sono solo 6000.

Srebrenica è oggi un’enclave musulmana situata nell’entità federale stabilita dall’Accordo di Dayton chiamata Republika Srbska (l’altra entità è la Federazione Bosnia i Herzegovina. Insieme le due entità costituiscono lo Stato federale della Bosnia Erzegovina) a maggioranza serba. Durante la guerra si rifugiarono qui migliaia di musulmani da tutto il territorio circostante, che vissero ammassati in questa zona “protetta” dall’ONU per oltre tre anni in condizioni disastrose: decine di migliaia di persone in una cittadina che normalmente contava 10000 abitanti. I serbi-ortodossi e i pochi croati residenti nel comune se ne erano ben presto andati. Quando l’11 luglio 1995 arrivarono le truppe serbo-bosniache, delle ca. 40000 persone presenti a Srebrenica, 25000 tra donne, uomini e bambini si diressero nel panico verso la base ONU di Potočari per chiedere protezione, mentre 15000 principalmente uomini presero la via delle montagne, nel tentativo di attraversare il territorio occupato dai Serbi e raggiungere così la zona ancora in mano bosniaca. Gli uomini dai 12 ai 77 anni del gruppo che cerca rifugio presso l’ONU verranno trucidati sotto lo sguardo dei caschi blu, le donne e i bambini verranno deportati.

Iniziamo il nostro soggiorno a Srebrenica sapendo questa storia, ma non ancora del tutto consapevoli: vivere qui, parlare con la gente, vedere volti ed edifici segnati da questa tragica storia ci aiuterà a prenderne pienamente coscienza.

Rosanna (una dei miei compagni di viaggio) e io veniamo ospitate da una signora serba: Zara. È una signora molto distinta, slanciata e ben vestita, parla solo sebo. Noi solo italiano, inglese, tedesco, francese, nulla che ci possa essere utile per comprendere un minimo di questa lingua slava. Passeremo le colazioni a comunicare con mani, piedi, mimi e disegni. Incredibile la quantità di informazioni che siamo riuscite a scambiarci in questo modo, senza praticamente dire una sola parola in una lingua comune. Le tapparelle che oscurano la stanza in cui dormiamo sono vecchie… hanno dei buchi, i buchi ancora ben visibili di proiettili. Anche sui muri della casa accanto i fori dei proiettili sono ancora ben visibili, segni che mozzano il fiato al vederli così veri e vicini. Più volte ci viene ripetuto che il problema più grande per ricominciare una vita normale rivolta verso il futuro è il rifiuto della gente a parlare di quello che è stato. Soprattutto per i serbi-ortodossi, la guerra e il genocidio sono temi tabù. Parlarne significa ammettere i torti, vergognarsi di sé stessi, chiedere perdono. Tocchiamo con mano questo rifiuto, anche “parlando” con una donna così mite come Zara, il cui marito non è morto in guerra, ma prima che questa iniziasse, di infarto. Quando legge il programma del nostro viaggio, Zara ha un gesto di stizza e di disprezzo quando legge il nome di Natasa Kandic: “niet dobro” - non bene, tutta politica - riesce a farmi capire - Potočari (il luogo del genocidio a otto chilometri da Srebrenica) è tutta politica. “Prima della guerra andavamo d’accordo, ci sposavamo tra serbi e musulmani, si viveva insieme in armonia e amicizia, poi è arrivata la politica e ha distrutto tutto”. E il tentativo di Natasa Kandic per avviare un cammino di riconciliazione basato sulla verità e l’ammissione, per poter ricominciare a vivere insieme in pace, non viene capito. Come unica soluzione sembra scelto solo il silenzio e forse un giorno l’oblio. In quel momento decido che il mio obiettivo nei prossimi mesi sarà imparare il bosniaco: con le mani e i piedi si può parlare di famiglia, del cibo, del tempo, ma è impossibile iniziare una discussione con lei sulla guerra, sulla pace, sulla riconciliazione.

Il memoriale di Potočari

E quello stesso giorno ci aspetta la visita a Potočari. Non ho le parole per descrivere la forte emozione provata visitando i luoghi di questa tragedia assurda, di cui portano grande responsabilità i caschi blu olandesi. Hasan Nuhanovic ci ha già raccontato tutto a Tuzla: più di 8000 morti in pochi giorni. Donne e bambini deportati, portati chissà dove. Mogli e madri separate a forza dai mariti e dai figli. Un cimitero dalle tombe bianchissime accoglie i corpi dei morti identificati, una moschea offre la possibilità di una preghiera, un sopravvissuto a quei giorni ci racconta i fatti e la sua fuga tra le montagne attraverso le linee serbe verso Tuzla (di 15.000 uomini e ragazzi che tentarono quella via di fuga, solo poche migliaia sopravvivranno), un video che racconta le testimonianze strazianti di madri che quel giorno hanno visto i figli o il marito per l’ultima volta. Le foto di scheletri riesumati dalle fosse comuni, di mani chiuse intorno al Corano, di bambini rimasti soli, della massa enorme di gente arrivata da Srebrenica a chiedere protezione all’ONU che si rifiuta di darla. Io vengo presa dal ricordo di me adolescente, che sente giornalmente le notizie di una guerra così vicina e allo stesso tempo così lontana, che porta a scuola riso, pasta e quant’altro da inviare in Bosnia per la popolazione sotto assedio, ma allo stesso tempo di me ragazza spensierata, che sa che a meno di 600 km dal confine italiano la gente si sta massacrando, ma non sa che cosa voglia dire. E improvvisamente dopo 16 anni dalla fine della guerra si rende veramente conto di quanto è successo. E si sente in colpa di piangere per un dolore che non ha il diritto di sentire.

Il “dialogo interreligioso”

Zara, la signora che ci ospita, abita proprio dietro la chiesa ortodossa, che si erge sulla collina. Pochi metri più in basso c’è la moschea con il minareto che si innalza nel cielo turchino. L’ultimo giorno del nostro soggiorno abbiamo la splendida opportunità di fare visita all’Imam e poi al Pope di Srebrenica. Due incontri davvero interessanti, che ci hanno dato l’idea di quanto sia difficile ancora oggi di un dialogo interreligioso, in questo caso tra musulmani e ortodossi. L’Imam, un bell’uomo, alto, intorno ai quarant’anni e dagli occhi scuri e profondi, dopo aver risposto alle domande più basilari, riguardo alla preghiera e agli elementi architettonici della moschea (domande che hanno mostrato quanto poco noi sappiamo della religione musulmana), ha risposto di buon grado alle nostre domande riguardo la sua funzione di guida spirituale, e non solo, in un luogo come Srebrenica. La sua missione è quella di riportare la serenità e la normalità in questo luogo, andare a bere un caffè con ogni persona della città che ne sia felice, sia esso un musulmano, un ortodosso o un croato. Ritiene che i terroristi non siano né islamici, né cristiani, né di altra religione, i terroristi sono solo delle persone cattive, che nulla hanno a che vedere con la religione. Vivere la religione pienamente può portare, a suo giudizio, solo al dialogo e alla pace. Con il pope ortodosso precedente, ci racconta, collaboravano senza troppi problemi. Quello attuale invece, permette a estremisti serbi di mettere musica antimusulmana sul sagrato della chiesa. Questo rende molto difficile collaborare.

Dal pope ortodosso, anche lui un uomo sulla quarantina, vestito con l’abito talare, la barba corta e ben curata, andiamo quindi già prevenuti. Ma io non sono ancora rassegnata, voglio trovare un po’ di speranza, uno spiraglio, in cui intravedere una possibilità anche minima di dialogo, di ammissione e di riconciliazione. Sono, infatti, convinta, che se non iniziano i sacerdoti a parlarsi e a dialogare, sarà difficile pretenderlo dalla gente comune che a loro fa riferimento. Purtroppo esco dall’incontro con una grande irritazione mista a delusione, con la sensazione fin troppo chiara che i nostri pregiudizi possono legittimamente diventare postgiudizi: d’altra parte abbiamo ascoltato che l’epoca d’oro di Srebrenica è stata fino al 1400 quando faceva parte del regno serbo, ed è con l’arrivo degli ottomani che inizia la decadenza. Sentiamo delle difficoltà durante l’impero austroungarico per ottenere il permesso per costruire una chiesa adatta ai bisogni della popolazione di religione ortodossa. A domanda diretta, ci viene risposto che lui non è mai andato al memoriale di Potočari e che ci andrebbe solo perché ci è sepolta una sua anziana vicina di casa di cui ha un bel ricordo. Nessun accenno al genocidio. Nessuna parola chiara contro le benedizioni alle armi e agli scorpioni durante la guerra, anzi ne sottolinea l’opportunità quando si è costretti a difendersi. Un dubbio forse gli viene però quando gli domandiamo se era giustificato benedire le armi durante l’assedio di Sarajevo, visto che i Serbi in quel caso non erano aggrediti, ma aggressori. In quel caso, ammette, la benedizione non era appropriata. Collaborazione con l’Imam c’è, al contrario di quanto affermato dall’Imam stesso. L’unico esempio fatto riguarda l’ambito didattico, quando ai ragazzini viene presentata la religione islamica. Forse è un primo piccolo passo?

Nazionalismo? Religione? Etnia?

Esco dall’incontro più confusa che mai… che cos’è l’etnia? Che cos’è l’appartenenza religiosa? Che cos’è l’identità? Si può essere serbo per DNA, come affermato dal pope stesso? Mi travolgono le contraddizioni con cui continuo a scontrarmi in questo paese, in cui viene data valenza etnica a una religione. Una domanda tardiva e che non ho potuto così porre al pope è: ma se un bosniaco che si definisce serbo, quindi, secondo la regola, di religione ortodossa, che cosa diventa se si converte al cattolicesimo? Diventa croato? Che cosa differenzia davvero serbi, croati e musulmani residenti in Bosnia? I ragazzi del progetto Adopt Srebrenica (un mix di ragazzi musulmani, serbi e di famiglie miste) vogliono fare chiarezza su queste cose, vogliono fare memoria del passato, affinché non si ripeta, vogliono valorizzare le differenze in modo che ognuno, nella propria specificità, contribuisca al futuro del loro paese e non a sovrastare chi è diverso da lui.

Una pistolaperché non si sa mai

Ogni incontro, ogni scambio di storie e opinioni, finisce per scombussolarmi. Incontro persone fantastiche che lottano giorno dopo giorno per riuscire a dare a una popolazione ancora fortemente traumatizzata dal conflitto una prospettiva di futuro, ma allo stesso tempo mi scontro anche con la dura realtà. Giovani poco più che venticinquenni, fortemente segnati dalla guerra, in cui hanno perso parenti e amici, non hanno problemi nel dirmi che sono in possesso di una pistola. Di solito non la portano addosso, ma a volte in discoteca sì, per sentirsi più sicuri. Nel caso poi capitasse di nuovo un’altra guerra, questa volta una pistola ce l’hanno. Qui, quando si litiga, non ci si limita a prendersi a botte, ma ci si ammazza. Non riesco a non chiedermi, come si fa a costruire la pace, quando è ancora così forte l’insicurezza e questa totale mancanza di fiducia in un futuro migliore. Si può pensare alla pace con una pistola nel cassetto? Che cosa farei io se fossi al loro posto?

Torno a casa ma sento che tornerò perché sono troppe le domande rimaste senza risposta.

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