Operatori di Pace Operatori di Pace Europa: corpi civili di pace

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Giorgio Grimaldi: Il corpo civile di pace europeo e il Parlamento europeo per una nuova politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea

1.3.2004, DIREonline
Testo originale con note è pubblicato sulla rivista telematica "DIREonline" periodico del Dipartimento di Ricerche Europee della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Genova, n. 4, marzo 2004 (reg. Tribunale di Genova n. 16/2003 del 16 giugno 2003 - direttore Maria Grazia Bottaro Palumbo; direttore responsabile Mario Bottaro), < http://www.direonline.it/servlets/resources?contentId=70605&resourceName=allegato >. .


Nessun sistema per garantire la pace può fondarsi sull’uso della guerra. Non si può umanizzare la guerra, si può soltanto abolirla (lord Lothan)


1. Prevenire e gestire i conflitti: un compito sempre più rilevante per l’Europa

Agli inizi del XXI secolo il sistema internazionale si trova coinvolto in un’incerta instabilità caratterizzata dai mutamenti profondi prodotti dalla rottura del modello bipolare fondato sul dominio e sull’influenza delle due superpotenze e dal nuovo ruolo interventista degli Stati Uniti, rimasti oggi unica forza mondiale. Mentre continuano a manifestarsi e ad aggravarsi guerre e tensioni e soprattutto microconflitti, spesso endemici e duraturi e sembra delinearsi una difficile crisi delle organizzazioni internazionali preposte alla sicurezza e al mantenimento della pace, emerge sempre più con vigore l’urgenza di affrontare, attraverso lo studio, l’analisi e la predisposizione di strumenti adeguati, le cause che generano i conflitti armati a livello infranazionale e sopranazionale, prima che essi degenerino in forma violenta trasformandosi in guerre.
La recente offensiva contro il terrorismo internazionale, lanciata dal presidente americano George W. Bush dopo il tragico attacco terroristico scatenato l’11 settembre 2001 a New York, che ha provocato migliaia di vittime e la distruzione delle Twin Towers, ha contribuito a un immediato e forte aumento delle spese militari statunitensi (peraltro già prima previsto nell’ambito della costruzione di un sistema di sicurezza spaziale) e ha determinato l’avvio delle successive guerre “preventive” di invasione (prima contro il regime fondamentalista-teocratico dei Talebani in Afghanistan, nell’autunno del 2001, e poi contro la dittatura di Saddam Hussein in Iraq nella primavera del 2003). Di fronte a questo tipo di reazione che pone forti interrogativi e ha sollevato dure ed enormi proteste in tutto il mondo e che costituisce un inquietante ulteriore sviluppo del concetto di “guerra umanitaria” , si fa ancora più pressante l’esigenza di organizzare strumenti e politiche efficaci e alternative alla guerra, cercando di orientare l’azione verso la prevenzione e la gestione nonviolenta dei conflitti . Riflettere sulle cause dei conflitti per rimuovere e impedire l’escalation violenta risulta importante per sviluppare strategie e tecniche concrete di intervento che non possono prescindere dalla conoscenza non superficiale dei contesti sociali, culturali, politici, economici e ambientali interessati e dal contatto con le parti in conflitto per avviare un processo di ricostruzione della fiducia e della convivenza.
La proposta di costituire forze di intervento civile nonviolento come strumento per favorire processi di pacificazione e rinascita civile, sociale ed economica in aree sconvolte da guerre o dove il rischio che esse si manifestino è molto probabile, o ancora dove è presente una situazione di guerra civile o guerriglia di tipo cronico, si è consolidata dopo anni di riflessioni e dibattiti nell’ambito dei peace studies e della peace research, filone di studi affermatosi dopo la seconda guerra mondiale soprattutto nei paesi anglofoni e in quelli scandinavi. Negli anni ‘90, l’attività svolta da alcune organizzazioni nongovernative (ONG) in zone di conflitto per rispondere alle emergenze in atto, ha visto realizzarsi diverse missioni di pace costituite da corpi civili di volontari addestrati all’interposizione nonviolenta e all’intervento di promozione della pace a vari livelli . Queste iniziative, promosse da singole associazioni e ONG o anche come progetti governativi di alcuni paesi o di organizzazioni internazionali, costituiscono un patrimonio significativo di esperienze, tra le quali la più nota è rappresentata dai Caschi Bianchi dell’ONU. Tuttavia, al fine di garantire giustizia, democrazia, diritti umani e pace, questi apporti e la costruzione di un sistema internazionale riformato e dotato di poteri effettivi, che riconosca l’autorità dell’ONU soprattutto nella gestione delle controversie tra stati e all’interno di essi, sono ancora scarsamente considerati dalla diplomazia e dalla politica ufficiale.
L’ONU, che ha proclamato ufficialmente il periodo 2000-2010 “decennio internazionale della promozione di una cultura della nonviolenza e della pace”, attraverso il Segretario Kofi Annan, ha sostenuto l’importanza di rafforzare il proprio ruolo, allo scopo di intraprendere operazioni di polizia internazionale con l’impiego di personale militare e civile, aventi come obiettivi il ristabilimento della pace e la sicurezza delle persone (con particolare attenzione ai rifugiati e ai profughi), nonché la ricostruzione della convivenza e delle istituzioni civili, la garanzia del rispetto effettivo dei diritti umani e l’applicazione dei principi della giustizia internazionale attraverso la cattura e la condanna dei criminali di guerra. Molti eventi hanno peraltro inciso pesantemente sulla credibilità delle operazioni svolte sotto l’egida dell’ONU: l’incapacità e l’inerzia dimostrata in particolare a Srebrenica, zona di sicurezza posta sotto il controllo dei Caschi blu olandesi nell’ex Jugoslavia e da questi lasciata alla mercè dell’esercito serbo del generale Mladic che massacrò la popolazione maschile di quella località nel luglio 1995, e in Ruanda, con il ritiro di tutte le forze e organizzazioni internazionali e l’assenza di qualsiasi intervento per impedire un genocidio di enormi proporzioni, consumatosi tra l’aprile e il luglio del 1994, costituiscono pesanti sconfitte della comunità internazionale. Questi fatti dimostrano la necessità di attuare senza indugi un cambiamento sostanziale che permetta all’ONU di non rimanere ostaggio della volontà politica di singoli Stati e di poter manifestare pienamente la sua autorevolezza nelle relazioni internazionali. La mancanza di questa volontà politica di cambiamento nei governi nazionali, restii a modificare la propria politica estera e a rinunciare ad interessi contingenti per rafforzare il diritto internazionale, rappresenta un ostacolo al consolidamento di istituzioni democratiche internazionali e allo sviluppo di un approccio preventivo e nonviolento nell’azione diretta in aree di conflitto che dovrebbe comportare l’inquadramento delle operazioni di peace-keeping in una strategia d’azione più ampia e integrata di peace-building capace di garantire sicurezza e accesso alle zone di intervento, in stretta collaborazione con le ONG, la valorizzazione delle iniziative di collaborazione su base locale, la facilitazione del dialogo tra gruppi e comunità ostili e la successiva e graduale cooperazione e cogestione di progetti decentrati di ricostruzione economica fondata sull’uso comune delle risorse energetiche e ambientali e la creazione di istituzioni democratiche .
L’Unione europea (UE), mettendo a frutto le sue originali potenzialità di organizzazione sovranazionale continentale altamente integrata, potrebbe svolgere un ruolo rilevante nella prevenzione delle guerre e delle tensioni internazionali. Caratterizzata da un’ormai quasi completa integrazione economica e dallo sviluppo accentuato di politiche comuni in moltissimi settori, l’UE si è costruita progressivamente attraverso un graduale processo incrementale di condivisione e conferimento di competenze e di poteri. Pur in continua evoluzione e non ancora provvista di una chiara identità nella politica estera, di sicurezza e di difesa, l’UE rappresenta un’area pacificata e naturalmente candidata a svolgere un’azione più incisiva nell’ambito delle azioni per la pace ai suoi confini e nel mondo.
Al suo interno, il Parlamento europeo (PE), organo istituzionale rappresentativo di un popolo europeo in gestazione, ma dotato di poteri meramente consultivi nel campo della politica estera e di sicurezza dell’UE, ha votato alcune risoluzioni presentando proposte e iniziative da sviluppare per rendere l’Europa un soggetto attivo e autorevole nella promozione della pace, ispirandosi ad una concezione “multidimensionale” e globale della sicurezza , che appare sempre più necessaria per intervenire adeguatamente sui vari fattori di insicurezza, innovando profondamente strumenti d’azione e teorie ormai obsolete e incapaci di rispondere ai nuovi tipi di conflitto e ai fenomeni di disagio che sono fonti di rischi e guerre (conflitti armati regionali e infranazionali per l’uso delle risorse idriche , delle materie prime e delle risorse energetiche), localizzati nelle aree più povere del pianeta.


2. Il Corpo Civile Europeo di Pace: una proposta di intervento nonviolenta per la sicurezza e la difesa

Il PE ha elaborato uno specifico contributo alla discussione sugli orientamenti e sugli sviluppi della PESC, il secondo pilastro dell’architettura istituzionale europea introdotta con il Trattato di Maastricht entrato in vigore il 1° novembre 1993: la proposta di un Corpo civile europeo di pace.
Il Corpo civile europeo di pace venne inserito come strumento d’azione specifico dell’UE per la prevenzione dei conflitti soprattutto grazie all’iniziativa dell’europarlamentare verde Alexander Langer che aveva riflettuto ed elaborato proposte alternative concrete all’uso della forza armata allo scopo di intervenire per prevenire e gestire i conflitti, in particolare durante la crisi dell’ex Jugoslavia. Intellettuale, giornalista, traduttore, uomo politico sudtirolese, ma anche attivista ecologista e nonviolento e profondo conoscitore delle contrapposizioni etniche in Alto-Adige e in altre zone di confine, Langer promosse diverse iniziative per la pace coinvolgendo persone e gruppi rappresentanti delle popolazioni in conflitto. Eletto al Parlamento europeo nel giugno 1989, Langer aveva partecipato a numerose missioni in rappresentanza dell’UE e a seguito di queste esperienze maturò un orientamento politico favorevole alla realizzazione di una federazione di stati europei portatrice di pace al di là dei propri confini. Per rendere concreta questa vocazione europea, insieme alla riforma istituzionale, Langer sottolineava l’esigenza di rispondere alle situazioni di crisi con azioni e organismi promossi dall’UE, allo scopo di contribuire al superamento del peace-keeping tradizionali, dimostratosi inadeguato, dell’ONU e degli stati e, basandosi sull’esperienza pionieristica e volontaria di alcune ONG, proponeva il ricorso all’intervento di civili soprattutto in situazioni caratterizzate da tensioni tra minoranze o in conflitti di matrice etno-nazionalistica o religiosa, avendo riscontrato in questa forma civile di aiuto e mediazione maggiore flessibilità rispetto alla modalità d’azione delle forze militari e la possibilità di aumentare il dialogo e la comunicazione in differenti contesti sociali. Secondo Langer prevenire la violenza e trasformare i conflitti senza urtare le parti in conflitto era un obiettivo possibile da raggiungere e da perseguire con urgenza, preparando accuratamente l’attività da svolgere e le risorse da impiegare. Dalla ricerca di uno sbocco istituzionale e organizzativo efficace alle positive esperienze volontarie di prevenzione e interposizione effettuate da ONG e associazioni pacifiste e dal desiderio di evitare che questo patrimonio venisse disperso o rimanesse sconosciuto e infruttuoso, scaturì la proposta di istituire un Corpo civile europeo di pace costituito sia da persone esperte specializzate in diverse settori e con capacità professionali specifiche, sia da obiettori di coscienza e volontari addestrati, provenienti dal maggior numero di paesi, di entrambi i sessi e di ogni fascia di età e aperto all’apporto dei giovani, degli anziani e delle donne.
Il Corpo civile di pace rappresentava un progetto derivante da un nuovo approccio al tema della sicurezza e alternativo rispetto alla concezione tradizionale di tipo statale dell’intervento internazionale per la prevenzione dei conflitti, in particolare sotto due aspetti distinti: da un lato, infatti, superava la contrapposizione tra pacifismo e antimilitarismo, ammettendo la necessità di un addestramento comune tra militari e civili, che pur mantenendo una reciproca autonoma erano chiamati a collaborare sul terreno; dall’altro rendeva operativo il coinvolgimento civile a livello istituzionale europeo, all’interno di una strategia globale per il mantenimento o il ristabilimento della pace, valorizzando e coordinando le energie provenienti dai servizi civili nazionali e dal contributo degli obiettori di coscienza, spesso impiegati in attività di bassa utilità e demotivanti.
La proposta fece la sua comparsa al PE in un momento particolarmente delicato e funesto, mentre divampava la guerra in Bosnia e l’UE si trovava divisa e quasi inerme di fronte alla tragedia che si stava consumando in un paese confinante. All’interno del rapporto preparato dall’eurodeputato popolare francese Jean-Louis Bourlanges e dal collega laburista inglese David Martin, approvato dal PE il 17 maggio 1995 con una lunga risoluzione che illustrava la posizione ufficiale sulla Conferenza Intergovernativa (CIG) del 1996 per la revisione del Trattato di Maastricht, la proposta del Corpo civile di pace europeo venne recepita con un emendamento presentato dal Gruppo Verde del PE, firmato dai due co-presidenti Langer e Claudia Roth. Il PE chiedeva la creazione del Corpo civile europeo di pace come «un primo passo per contribuire alla prevenzione dei conflitti», individuava alcune sue caratteristiche generali (la partecipazione degli obiettori di coscienza e di «controllori, mediatori e specialisti in materia di soluzione dei conflitti») e sollecitava l’UE ad assicurare ai componenti della nuova struttura un’adeguata formazione.
Il mese successivo la proposta venne rilanciata da un appello (intitolato L’Europa muore o nasce a Sarajevo e firmato anche dallo stesso Langer e da numerosi pacifisti) sottoscritto da numerosi europarlamentari, politici e intellettuali e presentato al Consiglio europeo di Cannes, che invocava anche un intervento immediato di polizia internazionale per bloccare lo sterminio della popolazione civile jugoslava e far cessare la guerra. Nonostante la presentazione dell’accorato documento i governi dei paesi membri e le istituzioni comunitarie rimasero divisi sulle decisioni da prendere e anche la voce del PE rimase inascoltata.
Lo studio di un progetto concreto di corpo civile europeo di pace alimentò un dibattito politico che coinvolse, nei mesi ed anni a venire, ricercatori, esperti di conflitti, politici e loro collaboratori, ONG e associazioni a livello europeo. Dopo la morte di Langer le principali iniziative riguardanti il Corpo civile di pace europeo nell’ambito delle istituzioni dell’UE, furono promosse dal Gruppo Verde del PE, che il 6 novembre 1995 organizzò a Bruxelles la tavola rotonda “For an European Civil Peace Corp”, un primo importante confronto e approfondimento sul tema tra studiosi internazionali ed esponenti di associazioni pacifiste, al quale seguì il 28 e 29 aprile 1997, sempre a Bruxelles, la conferenza “Civilian Conflict Prevention as a Part of the EU Common Foreign and Security Policy including the European Civilian Peace Corps”, che tracciò un bilancio dell’insieme delle iniziative elaborate in tema di prevenzione civile dei conflitti e di disarmo e dove venne presentata una relazione provvisoria dal ricercatore Arno Truger sul concetto di Corpo civile di pace europeo, sviluppato con il contributo dell’Austrian Study Center for Peace and Conflict Resolution di Stadtschlaining a partire dal progetto di Alexander Langer e di Ernst Gülcher. Cominciò, inoltre, a rafforzarsi anche la pressione lobbistica delle ONG attive in questo settore e nel 1997, dopo una conferenza europea sulla prevenzione dei conflitti tenutasi ad Amsterdam, si formò la Piattaforma europea per la prevenzione e la trasformazione dei conflitti (European Platform for Conflict Prevention and Transformation), un’organizzazione di ricerca no-profit comprendente circa centocinquanta ONG e finanziata dalla Commissione europea per collegare e coordinare gruppi, associazioni ed enti attivi nella promozione dei diritti umani, nel settore della cooperazione allo sviluppo, a favore della costruzione della pace e in azioni umanitarie. Nel gennaio dello stesso anno è stata anche attivata una rete di enti di ricerca universitari e privati, il Conflict Prevention Network (CPN), coordinato dalla Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) del Deutsches Institut für Internationale Politik und Sicherheit, con sede a Berlino, allo scopo di presentare proposte e di sottoporle alla Commissione europea e alle altre istituzioni comunitarie.
Nell’arco di pochi anni, attraverso la ricerca e il confronto avvenuto in diverse occasioni, maturò una proposta più specifica e dettagliata che, dopo la risoluzione del maggio 1995 (nella quale il riferimento al Corpo civile di pace europeo era piuttosto conciso), portò, il 10 febbraio 1999, alla votazione al PE di una raccomandazione specifica (A4-0047/99), contenente in allegato (B4-0791/98) la proposta dell’istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo (CCPE). Presentata il 28 gennaio 1999 su iniziativa del Gruppo Verde, con una relazione presentata al PE dall’europarlamentare svedese Per Gahrton, la raccomandazione era stata redatta da due collaboratori del Gruppo Verdi, Paolo Bergamaschi e Ernst Gülcher e dal ricercatore per la pace Arno Truger, sintetizzando, selezionando e fondendo gli elementi emersi negli anni precedenti dai dibattiti avvenuti tra ONG, istituti di ricerca per la pace, associazioni e movimenti politici. La proposta del CCPE venne però approvata emendata e privata della parte che prevedeva la richiesta dell’avvio di un progetto pilota e uno studio di fattibilità per verificare il contributo che tale nuova istituzione avrebbe potuto fornire all’UE in qualità di strumento per lo sviluppo della PESC.
La raccomandazione individuava scopi, obiettivi e modalità del CCPE ed era accompagnata dal già citato allegato che illustrava nel dettaglio il possibile funzionamento e il potenziale sviluppo di questo nuovo organismo. Il CCPE era configurato come un «servizio specifico» della Direzione Generale (DG) I della Commissione europea, «con un direttore generale responsabile nei confronti del Commissario per gli Affari Esteri e dell'Alto Rappresentante della PESC», creato per «la trasformazione delle crisi provocate dall’uomo, per esempio la prevenzione dell’escalation violenta dei conflitti e il contributo verso una loro progressiva riduzione (…), in quanto più umana e meno onerosa rispetto alla ricostruzione del dopoconflitto». La prevenzione delle guerre era il principio cardine sul quale si fondava il concetto del CCPE. Il PE suggeriva che la sua struttura ricalcasse il modello dell’Ufficio per gli aiuti umanitari della Commissione europea (European Commission Humanitarian Aid Office – ECHO) e che l’attività del CCPE si svolgesse sotto gli auspici dell’UE, esclusivamente su mandato dell’ONU o delle sue organizzazioni regionali quali l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea (OSCE), l’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) e l’Organizzazione degli Stati Americani. Costituito da personale civile reclutato per lo svolgimento di compiti specifici nella prevenzione dei conflitti e nelle azioni umanitarie collegati alla manifestazione di catastrofi naturali e di protezione civile o, eventualmente, anche in altri settori di intervento, il CCPE si sarebbe affermato quale strumento operativo dell’UE con un ampio campo di attività da svolgere attraverso missioni, potenzialmente indirizzabili a tutte le aree geografiche e quindi adatto a far sorgere «i necessari collegamenti tra le attività diplomatiche, da un lato, e la società civile, dall’altro». La multifunzionalità del CCPE discendeva dal concetto di sicurezza multidimensionale a cui si è già accennato. Fondamento ecologico nuovo di questa realizzazione era l’«approccio olistico» che ne avrebbe permeato l’identità e l’insieme delle attività che avrebbero previsto «inter alia sforzi politici ed economici e l'intensificazione della partecipazione politica e del contesto economico delle operazioni» per affrontare le emergenze.
Nel documento allegato alla risoluzione del PE erano esemplificate le seguenti attività specifiche che il CCPE avrebbe potuto svolgere avvalendosi dell’alto livello di formazione e di specializzazione richiesto ai suoi componenti e che presentavano concretamente la sua peculiarità e l’utilità del servizio che esso avrebbe potuto rendere a favore della pace:

- la mediazione e il rafforzamento della fiducia tra le parti belligeranti;
- l’aiuto umanitario (ivi compresi gli aiuti alimentari, le forniture d’acqua, medicinali e servizi sanitari);
- la reintegrazione (ivi compresi il disarmo e la smobilitazione degli ex combattenti e il sostegno agli sfollati, ai rifugiati e ad altri gruppi vulnerabili);
- il recupero e la ricostruzione; la stabilizzazione delle strutture economiche (ivi compresa la creazione di legami economici);
- il controllo e il miglioramento della situazione relativa ai diritti dell’uomo e la possibilità di partecipazione politica (ivi comprese la sorveglianza e l’assistenza durante le elezioni);
- l’amministrazione provvisoria per agevolare la stabilità a breve termine;
- l’informazione e la creazione di strutture e di programmi in materia di istruzione intesi ad eliminare i pregiudizi e i sentimenti di ostilità, e campagne di informazione e d'istruzione della popolazione sulle attività in corso a favore della pace.

Il CCPE avrebbe potuto attivarsi anche durante un conflitto armato; in questo particolare frangente però, la raccomandazione prevedeva che l’impiego del CCPE avvenisse solo dopo un accordo di cessate il fuoco e sulla base del consenso delle principali parti interessate, mediante l’attivazione di un rapporto di stretta collaborazione e cooperazione, fondato sul reciproco riconoscimento e sulla reciproca autonomia, con altri attori operanti sul territorio, come le organizzazioni non governative e le forze militari impiegate nel peace-keeping.
In base alla raccomandazione del 1999 il CCPE si sarebbe formato includendo due categorie di persone, selezionate rispettando un’equa ripartizione proporzionale tra gli Stati membri dell’UE: «un nucleo costituito da personale qualificato a tempo pieno», incaricato di «compiti di gestione» e di garantire al CCPE «continuità (vale a dire un segretariato con compiti di amministrazione e gestione, assunzione, preparazione, intervento, rapporto di fine missione e collegamento)» e «un gruppo costituito da personale specializzato da destinare alle missioni (ivi compresi esperti, con o senza esperienza, tuttavia perfettamente addestrati), chiamato a compiere missioni specifiche, assunto a tempo parziale o con contratti a breve termine in qualità di operatori sul terreno (ivi compresi gli obiettori di coscienza su base volontaria o volontari non remunerati)».
A garanzia dello stabile e costante funzionamento del CCPE, il PE prevedeva che il finanziamento della struttura e delle operazioni fosse iscritto nel bilancio dell’UE, che avrebbe dovuto sostenere le spese in concorso con gli stati membri. Il CCPE si sarebbe sviluppato in base alle esigenze e alla sperimentazione, dopo un’opportuna verifica degli obiettivi conseguiti e delle risorse umane ed economiche necessarie. In ogni caso, già nella raccomandazione del PE, era comunque previsto un successivo e continuo ampliamento dell’organico del CCPE.
Con l’inizio dell’ultima legislatura del PE, inaugurata nel giugno 1999, sono ripresi il dibattito e l’azione di promozione del CCPE, soprattutto per opera dell’intergruppo parlamentare “Iniziative di pace” (composto da una sessantina di eurodeputati) che ha organizzato il 9 dicembre dello stesso anno, a Bruxelles, la conferenza “Corpi civili di pace europei: verso un’efficace politica europea per la trasformazione dei conflitti”. Nel frattempo, sia l’Alto Rappresentante della PESC, insediatosi nel settembre 1999, che il Consiglio europeo di Helsinki, tenutosi nel dicembre 1999, hanno iniziato a elaborare proposte e iniziative per una strategia di gestione civile delle crisi e l’OSCE, nella nuova Carta della sicurezza firmata dai suoi membri nel vertice di Instanbul (novembre 1999), ha previsto, all’art. 42, la nascita di REACT (Rapid Expert Assistance and Cooperation Teams), una task force di reazione rapida di fronte alle crisi.
La proposta del Corpo Civile di Pace europeo, più volte ricordata nei documenti votati dal PE , è ricomparsa ultimamente in una nuova risoluzione del PE (A5-0394/2001), approvata il 13 dicembre 2001 e adottata in occasione dell’esame della comunicazione della Commissione europea sulla prevenzione dei conflitti. La risoluzione ribadiva la necessità di un approccio globale alla prevenzione dei conflitti e alla costruzione della sicurezza internazionale che rendesse tra loro coerenti le azioni esterne dell’UE previste e implementate nelle diverse politiche comunitarie. Il PE sosteneva che tale approccio avrebbe dovuto tradursi in linee guida comuni nelle politiche di sviluppo e cooperazione, negli accordi economici e commerciali, nella politica estera e di sicurezza, nel controllo del commercio delle armi, nei programmi di sostegno alla democrazia, allo stato di diritto, alla società civile e agli organi di informazione indipendenti, nei programmi di ricostruzione dell’apparato amministrativo e in quelli di promozione del dialogo interetnico e di forme alternative di gestione dei conflitti. La risoluzione rafforzava questa posizione dichiarando che una visione globale e multidimensionale della sicurezza era l’unica strada capace di evitare «l’impatto conflittuale che numerose politiche comuni dell’UE potrebbero avere sull’origine e lo sviluppo dei conflitti locali in determinate regioni» ed intendeva promuovere una concreta capacità di reazione rapida dell’UE di fronte alle crisi e alle cause potenziali di conflitto individuate nelle seguenti situazioni, oltre che ad eventuali altri fattori di rischio da analizzare, individuando indicatori specifici e utili per programmare le azioni: «le tensioni che derivano da contrasti etnici, religiosi, ideologici ed economici, qualsiasi forma di terrorismo, la criminalità organizzata e il traffico di droga, la lotta per il controllo del commercio di materie prime e in particolare di diamanti, la mancanza di democrazia nonché il degrado dell’ambiente e le questioni relative alle acque».
Inoltre il PE, mostrando apprezzamento per la comunicazione della Commissione europea e il programma dell’UE per la prevenzione dei conflitti violenti approvato dal Consiglio europeo di Göteborg (14-16 giugno 2001), riepilogava le principali linee e proposte già avanzate in precedenza, rimarcando l’importanza dell’istituzione del CCPE, e auspicando il potenziamento della cooperazione internazionale in questo settore, sia con l’ONU, che con l’Alto Commissariato dell’ONU per i Rifugiati e l’OSCE, ed in particolare con alcuni organi di quest’ultima organizzazione (l’Alto commissario per le minoranze nazionali, l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani, il Rappresentante per la libertà dei media e il Centro di prevenzione dei conflitti) per preparare e svolgere un’ampia gamma di interventi (mantenimento e ripristino dell’ordine pubblico, addestramento delle forze dell’ordine, mediazione, monitoraggio dell’ordinamento di pace, gestione delle elezioni e riabilitazione post-bellica). Una certa enfasi era anche riservata alla promozione di «un reale coordinamento strategico ed operativo con le ONG e gli altri soggetti che operano nell’ambito della società civile», e alla continuazione dell’esperienza della Rete universitaria di prevenzione dei conflitti - proposta dal PE per assistere la Commissione - estendendone la consulenza allo stesso PE e al Consiglio dei Ministri dell’UE.
Il CCPE era considerato uno strumento volto a «coordinare a livello europeo la formazione e il dispiegamento di specialisti civili per portare avanti misure di concreto peace-making come arbitrato, mediazione, distribuzione di informazioni imparziali, de-traumatizzazione e confidence-building tra le parti in conflitto, aiuto umanitario, reintegrazione, riabilitazione, ricostruzione, educazione e monitoraggio e miglioramento della situazione dei diritti umani, comprese misure di accompagnamento [...] facendo il massimo uso possibile delle risorse della società civile».
Il PE, in quest’ampia e variegata risoluzione, abbozzava una politica estera e di sicurezza alternativa e affermava perentoriamente il ruolo chiave della prevenzione: «la prevenzione dei conflitti sia a lungo che a breve termine richiede un impegno e una direzione politica più forti da parte degli Stati membri, dal momento che i soli strumenti comunitari non sono sufficienti a risolvere tutte le possibili fonti di conflitto». A questo riguardo il PE criticava la comunicazione e il programma UE per la prevenzione dei conflitti violenti, poiché essa rifletteva, al di là delle misure positive indicate, l’incapacità della Commissione ad affrontare «adeguatamente la rigidità dell’attuale struttura a pilastri del sistema di prevenzione dei conflitti», struttura che di per se stessa era responsabile dell’incoerenza della politica estera europea e che avrebbe dovuto essere rivista in occasione della dichiarazione di Laeken e della successiva Convenzione.
Il Consiglio di Laeken, tenutosi dal 14 al 15 dicembre 2001, pur avendo adottato una Dichiarazione sull’operatività della politica di sicurezza e di difesa , seguendo l’esempio dei precedenti summit del Consiglio europeo, non ha recepito le istanze del PE. Il CCPE e la riforma della struttura a pilastri non sono stati citati e nessun commento ufficiale hanno ricevuto le specifiche, e più volte reiterate, proposte e indicazioni del PE, demandate al dibattito all’interno della Convenzione europea dove i progressi, come si vedrà, sono stati molto limitati .
In realtà, la maggior parte del dibattito sulla Politica Estera e di Sicurezza Comune e di Difesa (PESCD) e le parziali realizzazioni, succedutesi sin dalla fine dello scorso decennio, hanno visto i governi nazionali degli Stati membri privilegiare lo sviluppo di capacità strategiche e militari dell’UE, peraltro ancora oggi piuttosto contenute. Il Consiglio europeo di Colonia (3-4 giugno 1999), riunitosi dopo la guerra condotta dalla NATO in Kosovo, ha delineato un percorso che è avanzato con la costituzione di alcune strutture e di un coordinamento per avviare una politica di difesa comune. Gli obiettivi principali (headline goals) della politica di difesa europea sono stati poi fissati dal Consiglio europeo di Helsinki (10-11 dicembre 1999), con la previsione di costituire, entro il 2003, un corpo militare di spedizione europeo multinazionale composto di circa 60.000 uomini (Forza di Reazione Rapida), mobilitabile per missioni di un anno. Parallelamente è stato definito un programma di lavoro per inventariare, coordinare e rafforzare le risorse disponibili e idonee allo sviluppo della gestione non militare dei conflitti.
Le capacità e gli obiettivi dell’UE in relazione alla gestione civile dei conflitti, settore rimasto complessivamente in ombra rispetto a quello della gestione militare, sono stati analizzati nei mesi successivi e il Consiglio di Feira (19-20 giugno 2000) ha stabilito quattro priorità per l’intervento civile dell’UE nei conflitti:
1) il rafforzamento della polizia civile;
2) il potenziamento della protezione civile;
3) l’affermazione del diritto (inclusi il monitoraggio e il rapporto sui diritti umani, la governance, lo sviluppo dei mezzi di informazione e la trasformazione dei conflitti);
4) lo sviluppo dell’amministrazione civile.
Al Consiglio di Nizza (7-9 dicembre 2000) gli impegni assunti sono stati riconfermati ed è stato rilevato che l’UE dovrebbe «continuare la discussione al suo interno sulla base delle raccomandazioni fatte dal Consiglio europeo di Feira con lo scopo di definire obiettivi concreti e fornire all’Unione risorse adeguate allo scopo di intervenire efficacemente nelle crisi politiche complesse» .
L’UE sembra comunque frenata da incertezze e riserve, priva di una solida e chiara unità di intenti. La possibilità che l’UE si indirizzi, più che alla realizzazione di una politica comune per gli armamenti, che peraltro stenta a decollare, ad una politica di prevenzione della violenza e delle crisi interne ed esterne, è tutta da verificare, mentre per il momento una maggiore attenzione è riservata allo sviluppo delle capacità militari, anche se ogni progresso è fortemente condizionato dal nuovo e angosciante clima internazionale. Nonostante le proposte di una cooperazione rafforzata in materia di difesa su cui ha raggiunto un accordo preliminare il ‘gruppo dei Quattro’ (Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo), sembra verosimile che, salvo imprevisti, qualsiasi nuova iniziativa immediata e autonoma nel campo della politica estera, di sicurezza comune e di difesa europea sia oggi più difficile, anche tenuto conto dell’imminente allargamento dell’UE che entrerà in vigore nel 2004 e che porterà da quindici a venticinque gli stati membri.


3. I servizi di pace per una politica di sicurezza europea: utopia o prospettiva concreta?

Il CCPE presenta, sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, un’ampia possibilità di impiego se solo si guardi ai tipi di interventi svolti autonomamente o in collaborazione con organizzazioni internazionali e singoli stati, dalle ONG, presenti da anni in aree di conflitto e rientra nel novero dei «servizi di pace» che comprendono gli «strumenti pratici per fare la pace, per mantenerla e per costruirla» comprendenti «l’aiuto alla comunicazione, il miglioramento della comprensione reciproca, lo scoraggiamento dell’uso della violenza, la mediazione, la riconciliazione, il mantenimento della pace attraverso l’interposizione». La diplomazia non ufficiale e popolare intrapresa dalle ONG (di cui è un esempio noto la Comunità di Sant’Egidio che è riuscita a riportare la pace in Mozambico con l’accordo siglato a Roma il 4 ottobre 1992 tra i due movimenti guerriglieri Renamo e Frelimo ), denominata anche “diplomazia sul campo” (field diplomacy), si è sviluppata e ha raggiunto alcuni primi importanti risultati. Anche laddove sono emersi i limiti e l’impossibilità di fronteggiare situazioni particolari, il lavoro delle ONG ha costituito una testimonianza pionieristica dell’importanza della prevenzione dei conflitti . Le ONG sono state spesso accettate come intermediarie e sono riuscite in varie occasioni a stabilire un dialogo tra le parti in conflitto, grazie alla capacità di ridurre le disuguaglianze di potere tra i contendenti (empowerment) e ad una particolare conoscenza degli interlocutori. Inoltre questi aspetti, a cui si aggiunge la particolare flessibilità e lo spiccato adattamento delle ONG alle singole situazioni, unite alla ricerca per la pace svolta da centri di formazione e istituzioni che offrono un’adeguata preparazione teorico-pratica ai volontari ed agli operatori civili in aree di conflitto , rappresentano un retroterra importante per la formazione futura del CCPE.
La concezione del CCPE, peraltro non costituisce una novità assoluta e si collega coerentemente ad un ricco patrimonio di lotte nonviolente e di disobbedienza civile che, pur sottovalutate, hanno in alcuni casi emblematici mostrato la loro efficacia. Queste azioni, condotte per ottenere la libertà e l’indipendenza, come la lotta indiana iniziata con lo sciopero generale del 9 aprile 1919 (hartal) promosso dal Mahatma Gandhi e continuata pervicacemente con numerose iniziative, ed anche con la proposta di una “brigata di pace” (Shanti Dal), poi definita “esercito di pace” (Shanti Sena), tra vittorie e sconfitte, fino alla conquista dell’indipendenza dell’India nel 1947, oppure per ottenere il riconoscimento di diritti negati, come nel caso della mobilitazione della popolazione afroamericana negli Stati Uniti guidata dal reverendo Martin Luther King dalla fine degli anni ’50 a tutto il decennio successivo, rappresentano modi concreti di organizzare una resistenza civile e una difesa civile nonviolenta. Anche la costituzione dei Peace Corps, creati su iniziativa del Presidente John Fitzgerald Kennedy nel marzo 1961, per consentire ai giovani di servire il loro paese vivendo e lavorando nei paesi in via di sviluppo per promuovere la pace, assistere le popolazioni locali con il proprio lavoro in diverse attività , rappresenta un esempio e una concreta realizzazione a cui può ispirarsi la nascita del CCPE.
Reinterpretata in diversi contesti e con finalità differenti per contribuire alla costruzione della pace, la nonviolenza si pone come percorso di ricerca e alternativa costruttiva all’uso delle armi anche nella sfera dell’intervento internazionale volto ad impedire la guerra e a risolvere o gestire i conflitti.
Ritornando al concetto di sicurezza multidimensionale proposto da Buzan, si può sostenere che un approccio integrato adatto a considerare le emergenze demografiche, sociali, ambientali, economiche, militari dovrebbe poggiare su un’adeguata architettura istituzionale e non solo sugli sforzi “dal basso” delle ONG e della società civile. Per raggiungere questo obiettivo sono necessarie istituzioni democratiche con poteri reali a diversi livelli, capaci di elaborare e attuare azioni preventive dei conflitti per ottenere la riduzione della violenza nel mondo contemporaneo e permettere con maggior efficacia un’azione per la salvaguardia della vita umana, dei diritti fondamentali, dell’ambiente e per la promozione della giustizia sociale. Per ottenere questo risultato non è possibile prescindere dalla limitazione dei poteri sovrani degli stati nazionali in favore di un nuovo scenario regionale e mondiale sufficientemente regolato e governato dalle organizzazioni e dalle comunità internazionali . Anche se oggi non si assiste al delinearsi di questa prospettiva di integrazione politica (se non in alcune aree come l’Europa) ed è presente una forte instabilità geopolitica in diverse zone “calde” del pianeta, parallela all’incremento della produzione di armamenti degli stati nazionali a fini difensivi o di potenza e la proliferazione di armi destinate all’uso privato da parte di singoli e gruppi estremistici a fini terroristici, tutti gli sforzi politici, culturali, economici dovrebbero essere indirizzati alla costruzione di forti e coese organizzazioni internazionali e a federazioni continentali.


4. Conclusioni: la politica di sicurezza europea, le riforme istituzionali e il Corpo civile di pace

Se all’indomani della caduta del Muro di Berlino e della fine dell’apartheid in Sudafrica - due eventi storici verificatosi prevalentemente con modalità nonviolente - molta fiducia era riposta nella cooperazione internazionale e sembrava delinearsi l’avvento di un nuovo ordine mondiale garantito dall’ONU e dalle organizzazioni internazionali, sin dalla seconda metà degli anni ’90 la speranza di vedere realizzato in breve tempo questo obiettivo era svanita. Una parte della responsabilità di questa disillusione è attribuibile anche alla debolezza e all’incapacità dell’UE ad avviare una politica estera comune. Ancora oggi, peraltro, l’UE è priva di un’autentica e completa politica estera. Dopo le numerose e strazianti tragedie susseguitesi nella martoriata ex Jugoslavia, vero banco di prova dell’indecisione comunitaria di fronte alle crisi internazionali, alcuni passi sono stati mossi, prima con il Trattato di Maastricht e poi con quelli successivi (ai quali si è già accennato), per costruire un pilastro comunitario riguardante la politica estera e di sicurezza, soggetta alle procedure intergovernative e quindi alquanto inefficiente e limitata.
L’UE, per riuscire ad agire da attore continentale e globale in un prossimo futuro dovrà completare il cammino verso un’Europa politica, democratica e costruttrice di pace, liberata dal potere di veto esercitabile su qualsiasi decisione in materia di politica estera, di sicurezza comune e di difesa da un qualunque suo paese membro. Anche Langer era preoccupato dell’incapacità europea ad arginare le derive nazionalistiche che erano fonte di instabilità e conflitti al di fuori dell’Europa e impedivano ad essa di agire e riteneva necessaria la trasformazione delle istituzioni locali, regionali, statali e internazionali per realizzare una convivenza pacifica tra i popoli. Al nazionalismo andava contrapposto un processo federale e regionalista capace di trasferire i poteri sia verso l’alto che verso il basso, in base al principio della sussidiarietà, rafforzando istituzioni internazionali che garantissero la pace, il rispetto dei diritti umani e della giustizia, la tutela dell’ambiente e capaci di interagire con movimenti e gruppi sorti dal basso ed espressione delle società allo scopo di valorizzarne le energie, accrescere la cooperazione sociale e minimizzare la violenza. La creazione di un sistema di sicurezza “inclusiva”, frutto della sinergia tra istituzioni e ONG e di nuove istituzioni sperimentali come il CCPE, potrebbe aiutare a fronteggiare problemi vasti e complessi come i processi migratori, la fame e la povertà, il degrado ambientale, la disoccupazione e le disuguaglianze sociali ed economiche .
In analogia all’Agenda per la pace dell’ONU, secondo alcuni autori, l’UE potrebbe definire un’Agenda europea per la pace per stabilire obiettivi, compiti, strumenti e ambiti d’azione dell’UE nel sistema internazionale : all’interno di essa il CCPE, potrebbe svolgere un ruolo importante, rafforzando la credibilità internazionale dell’UE. Altre ricerche avanzano proposte per rendere la prevenzione dei conflitti il concetto cardine della politica di sicurezza europea, attraverso la revisione degli strumenti operativi già esistenti (missioni di Petersberg, mandati dei rappresentanti speciali dell’UE in aree di conflitto ecc.) sottolineando l’urgenza di rafforzare la capacità civile di gestione delle crisi dell’UE tenendo in considerazione le richieste del PE, tra cui figura esplicitamente, come si è visto, il CCPE.
Le riforme istituzionali, oggetto di discussione della Convenzione europea della sicurezza sono chiamate a precisare le responsabilità che l’UE vorrà assumersi per contribuire, a livello internazionale, alla prevenzione dei conflitti armati.
Il vasto e crescente consenso che si registra nelle ONG e nell’associazionismo europeo attorno a questo progetto, e ancor più attorno al tema della pace e della democratizzazione dell’UE (soprattutto attraverso la proposta di inserire nella futura Costituzione europea un articolo sulla pace come valore fondante dell’Europa che contemporaneamente, come l’articolo 11 della Costituzione italiana, sancisca il ripudio della guerra) ha rilanciato la proposta del CCPE come risorsa importante per una nuova politica europea.
Indipendentemente da quale siano gli sviluppi per l’attività dei corpi civili di pace già in azione o allo studio in tutto il mondo, per quanto riguarda l’UE è essenziale risolvere alcuni problemi e chiarire gli aspetti di una politica estera globale che investono anche la sua legittimazione democratica: infatti, mentre a livello statale, negli stessi paesi membri, le decisioni di politica estera tendono ad essere assunte quasi esclusivamente a livello governativo e senza il coinvolgimento parlamentare, vi è il rischio che lo sviluppo della politica estera di sicurezza comune e di difesa o di un’identità europea di sicurezza e di difesa, aumenti la possibilità di sottrarre al dibattito democratico le scelte prese dai governi nazionali con il metodo intergovernativo all’interno dell’UE. Per sventare quest’ulteriore erosione di poteri democratici e una progressiva deriva economicistica e tecnocratica dell’UE non è più possibile eludere alcune questioni che determineranno nel medio o lungo periodo il fallimento o il successo del processo integrativo europeo.
L’UE, pena l’irrilevanza internazionale, dovrà scegliere un chiaro indirizzo di politica estera e decidere se mantenere la vocazione di potenza “civile” come identità principale o privilegiare lo sviluppo della difesa militare. Come si è già evidenziato quest’ultima assorbe maggiore interesse politico anche a causa dei forti interessi economici, industriali e militari che vi sono coinvolti, mentre la prevenzione civile dei conflitti, pur rivalorizzata, viene spesso considerata come complemento utile a quella militare. Diverse esperienze dimostrano invece la prevenzione dei conflitti potrebbe avere un ampio ed autonomo sviluppo, avendo a disposizione potenzialità da esplorare, rimaste ancora semisconosciute.
Un altro aspetto da chiarire sarà quello riguardante il ruolo del PE nell’ambito della PESC : se rimarrà consultivo, senza l’esercizio effettivo di un potere di codecisione e la possibilità di accesso completo alle informazioni, la politica estera europea non potrà essere considerata pienamente democratica, poiché l’organo rappresentativo della popolazione europea continuerà ad essere, in questo importante settore, un semplice suggeritore, con scarsi poteri e perlopiù inascoltato, dei governi degli stati membri.
La nascita di una politica estera innovativa presuppone anche il dialogo e l’intensa collaborazione tra le istituzione comunitarie e nazionali e gli altri soggetti organizzati della società civile, possibile favorendo la diplomazia “a percorsi molteplici” (multi-track diplomacy) , e la cooperazione sul territorio: il CCPE costituirebbe un raccordo tra soggetti diversi, divenendo uno strumento operativo a servizio della Commissione europea e dell’UE, che dovrebbe essere attentamente verificato e sottoposto ad un continuo perfezionamento in funzione di esigenze reali, per evitare una progressiva burocratizzazione delle sue strutture.
Al di là di queste considerazioni assume un valore prioritario il tema delle riforme istituzionali e dell’assetto costituzionale dell’UE: in particolare appare auspicabile un processo federale europeo e l’estensione del principio decisionale maggioritario, eliminando il paralizzante diritto di veto per le principali politiche dell’UE. Queste riforme, in realtà, costituiscono la questione centrale e prioritaria da cui dipende il futuro stesso dell’UE e si riverberano anche nel funzionamento di una politica di prevenzione dei conflitti e sul ruolo che potrebbe svolgere il CCPE.
Se non vi sarà un rinnovamento istituzionale profondo dell’UE ed un esplicito riferimento alla pace nella Costituzione europea, risulterà sempre più difficile per l’Europa dei Venticinque parlare con “una sola voce” e anche agire per impedire contrasti e guerre e sostenere l’affermazione dei diritti umani nella stessa Europa e nel mondo. Un’Europa unita e federata avrebbe migliori chances per realizzare una politica estera coerente e preventiva. L’UE dovrebbe quindi avere più coraggio nel proporsi come soggetto attivo per la pace, costruendo una politica di sicurezza responsabile, esplorando e sperimentando le potenzialità dell’azione nonviolenta, valorizzando i servizi civili nazionali e quello internazionale e investendo finanziariamente nella formazione di operatori di pace da inviare nel mondo come forza dell’UE e non soltanto nelle già attive iniziative delle ONG e della società civile, alcune delle quali rischiano di rimanere coraggiose testimonianze oppure di essere assorbite nel ‘business umanitario’.
Le osservazioni di Alexander Langer di fronte alla prima crisi del Golfo, risalenti all’agosto del 1990 - quando l’UE non era ancora nata - esprimevano la volontà di un’Europa fautrice di un nuovo e democratico ordine mondiale, e restano attuali di fronte alle guerre odierne che l’Europa non riesce tuttora ad impedire:

Un obiettivo oggi urgente potrebbe essere il declassamento delle misure militari a misure di polizia internazionale: sostituire cioè gli interventi delle forze armate degli stati con interventi di forze davvero multinazionali, nel mandato, nella composizione e nel comando, a garanzia e protezione dell’attuazione di un diritto e di valori internazionalmente convenuti ed accettati.
L’Europa comunitaria, che rappresenta un’esperienza “alta” di costruzione di un ordinamento comune con valori comuni, con regole comuni e con una coesione sovranazionale che consente il superamento di vecchie sovranità e non-ingerenze nazionali, deve oggi dare un deciso contributo perché un nuovo ordine sopranazionale cresca e si dia gli strumenti per difendersi efficacemente. Ma a questo scopo sarebbero forse più utili interventi bancari e finanziari che dispiegamenti di truppe.
Nulla di più convincente che progredire verso comuni livelli di democrazia e di diritto (dall’Iraq, all’Arabia Saudita, da Grenada alla Libia, da Panama all’Afghanistan…)
Per crearne le condizioni nulla di più pericoloso che passare la parola alle armi.

Benché oscurato dai governi, il CCPE continua a rimanere all’interno dell’agenda politica dell’UE grazie alla pressione operata da coordinamenti e reti associative e gruppi di studi sorti dal lavoro congiunto di ONG, associazioni, movimenti, centri di ricerca per la pace, rappresentanti politici e funzionari tecnici del PE, della Commissione e dei suoi servizi preposti alla prevenzione dei conflitti. Gruppi di lavoro multilaterali e iniziative miste si stanno sviluppando in diversi paesi europei, mentre il Praesidium della Convenzione, sulla base del lavoro svolto dai Gruppi di lavoro VII “Azione esterna” e VIII “Difesa”, ha presentato un progetto di articoli sull’azione esterna del Trattato costituzionale che nell’ambito della cooperazione con i paesi terzi introduce un nuovo articolo sull’aiuto umanitario che prevede l’istituzione di un Corpo volontario europeo «per inquadrare contributi comuni dei giovani europei sulle azioni umanitarie dell’UE», previa adozione da parte del PE e del Consiglio dei ministri di una legge europea che ne fissi lo statuto e il funzionamento. Successivamente questo progetto è stato ripresentato, senza sostanziali modifiche, nel volume II del Progetto di Costituzione in discussione alla Convenzione europea e infine è stato incluso nella versione finale del Progetto di trattato costituzionale licenziato dalla Convenzione europea nel luglio 2003 e ora sottoposto alla valutazione della Conferenza Intergovernativa, convocata per varare la “costituzione europea” da sottoporre alla ratifica dei paesi membri per la definitiva adozione. Con il paragrafo 5 dell’articolo III-223 (sezione 3 “Aiuto umanitario”), raccogliendo solo parzialmente alcuni elementi caratterizzanti il corpo civile di pace, si propone l’istituzione di un Corpo volontario europeo di aiuto umanitario, demandando ad una legge europea il compito di definirne l’organizzazione e il funzionamento.
E’ quindi in atto un processo per trasformare la politica di sicurezza europea in strumenti e azioni sempre più concreti e capaci di rispondere alle esigenze locali e globali, e per fare in modo che essa diventi una politica di promozione e di costruzione della pace. Le ONG ed altri attori stanno ormai tracciando un percorso comune importante che però soltanto scelte politiche precise e democratiche da parte della Convenzione e dei governi dei paesi europei, per lungo tempo attese e invocate dalla società civile, potranno rendere stabile, certo e produttivo.
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