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Adriano Sofri: Alexander Langer e don Milani, il Vangelo in percentuale

10.3.2001, La Repubblica

Se dovessi fare un nome da legare al famoso Sessantotto, sceglierei don Lorenzo Milani. Eppure era un prete, e "ortodosso fino allo spasimo"; gli dispiaceva il rossetto sulle labbra delle donne; e poi nel '68 era morto da un anno. Morì nel giugno del 1967, a 44 anni, avendo appena visto stampata la "Lettera a una professoressa".
La vita di don Milani e la scrittura cui mirò coi suoi ragazzi sono vicine al Vangelo. Col Vangelo c'è un problema ricorrente. Si deve prenderlo come un modello di vita, o come un racconto mirabile ma inarrivabile, fuori dalla portata della vita comune e dei suoi ragionevoli compromessi? Il problema non è solo delle persone qualunque: anche la Chiesa tratta per lo più il Vangelo con una grande indulgenza, e quando ogni tanto al suo interno compare qualcuno che si propone di prendere il Vangelo sul serio, lo tramuta presto in un eretico, o uno stravagante.
Citazioni del Vangelo sbucano anche nella cronaca più profana.

Prendete il conflitto di interessi. Si litiga sulla prima metà dell'idea ("Vendi tutto quello che hai") piuttosto che sulla seconda, che poi era il succo ("e il ricavato dallo ai poveri").
Vorrei riprendere una questione essenziale del Vangelo, e della vita quotidiana, sulla scorta di una scelta di don Milani. Prima segnalo l'uscita di un nuovo importante libro di e su don Milani, che contiene anche un gran numero di inediti: "I care ancora". Il libro è dell'Editrice Missionaria Italiana, ed è curato da Giorgio Pecorini, giornalista e scrittore che di don Milani fu interlocutore e amico, e poi curatore fedele.
La questione è: chi è il nostro prossimo? Più ordinariamente: a quali (e quante) persone possiamo dedicarci? Noi viviamo con e per una cerchia di persone che consideriamo "i nostri", più o meno intima, più o meno ampia, più o meno mutevole nel tempo. Però ci portiamo dentro un'aspirazione adolescente a esistere con tutti e per tutti, un rimpianto per l'universale condivisione umana. Questo desiderio poetico o immaturo, a piacere, è uno fra i moventi della politica militante e di altre forme di dedizione volontaria. Io avevo un grande amico, Alexander Langer, che nell'estate del 1995 si uccise lasciando poche parole: una citazione evangelica, e una dichiarazione di invincibile stanchezza.
Pensando a quell'abbandono, e senza credere né aver voglia di spiegarmelo -spiegarsi le cose a volte è la via facile - mi sembrava di riconoscervi lo scacco di un'ansia, che in Alex era stata bruciante, di essere "tutto per tutti". Nel suo primo giornale di scolaro bolzanino nel 1961, il quindicenne Langer aveva esposto un programma ingenuamente squillante: "Vorremmo esistere per tutti, essere di aiuto a tutti ed entrare in contatto con tutti... Venite a noi, e vi aiuteremo con tutte le nostre forze. Venite a noi con fiducia...". Nell'ultimo biglietto, trentaquattro anni dopo, rimise tra virgolette l'appello evangelico: " ‘Venite a me, voi che siete stanchi ed oberati'. Anche nell'accettare quest'invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto".
La strenua (e, in persone rare come Alex, estenuante e quasi eroica) vocazione a essere tutto per tutti, non si oppone solo all'ordinaria limitatezza, più o meno egoistica, di tante vite: anche alla scelta, a sua volta eroica ed estrema, di "essere tutto per pochissimi". Questa scelta radicale e stupefacente fu di don Milani. I due si incontrarono, e andarono per la propria strada. Piuttosto, Alex prese le strade del mondo intero, e vi si gettò ardentemente. Don Milani restò fermo nella sua canonica sul Monte Giovi, nella sua scuola di quindici ragazzi, nella sua parrocchia di trentanove anime sparpagliate. Quando era studente universitario a Firenze, Langer seppe di don Milani, lesse le sue "Esperienze pastorali" che la gerarchia aveva messo al bando, come l'autore esiliato in quella montagna del Mugello, e andò a conoscerlo a Barbiana. Don Milani si sbrigò a dirgli che cosa doveva fare: abbandonare subito l'Università, che era solo un privilegio nocivo, finchè i tanti erano esclusi dalla istruzione più essenziale. "Portate gli altri al livello in cui voi vi trovate oggi, e poi tutti insieme si farà un passo avanti, e poi un altro ancora".
Alex capì subito di avere di fronte un santo. Sapeva già che i santi vanno aiutati, non obbediti: che ognuno è santo a suo modo. Non lasciò l'Università (anzi, benchè gli anni fossero così combattivi, prese due lauree). Però avviò un doposcuola volontario in un quartiere di periferia, frequentato da figli di immigrati meridionali. A Barbiana tornò un paio di volte, chiamato per scopi particolari, perché nel frattempo don Milani aveva proibito le visite a chi avesse un titolo di studio più alto della terza media, con le eccezioni decise dai suoi ragazzi e da lui. Subito dopo la morte di don Milani fu Alex a tradurre in tedesco la "Lettera a una professoressa" (assieme a un'anziana ebrea angloboema, Marianne Andre, che era stata amica di suo padre, e poi silenziosa frequentatrice di Barbiana: ci saliva a piedi, a settant'anni, col suo zaino, e don Milani la chiamava "la mia fidanzata tedesca").
C'è una lettera di don Milani in cui le sue convinzioni sono esposte con una nettezza quasi brutale. E' del 1966, e risponde a una studentessa napoletana, Nadia Neri. Le dice: "So che a voi studenti queste parole fanno rabbia, che vorreste ch'io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti... Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio. E siccome l'esperienza ci dice che all'uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più... Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio".
E' strano: quando molti anni dopo, nel 1987, Alex scrisse un bel ricordo di don Milani, riferì, oltre che l'invito a lasciare l'Università, parole simili a quelle della lettera su quali e quante persone si devono amare specialmente per servire bene Dio. Don Milani aveva immaginato così il Giudizio Universale. Dopo aver deplorato un qualche rettore gesuita amico dei ricchi, il Signore Iddio avrebbe detto: "Guarda invece don Lorenzo: lui ha scelto unilateralmente. Lui ha capito che non si possono amare concretamente più di 3-400 persone, ed ha scelto i poveri, i suoi campagnoli. Si è messo dalla loro parte, ha condiviso il loro mondo". "Ma siccome il Signore è buono - concludeva ironicamente don Milani - alla fine gli darà un calcio nel sedere e lo farà entrare nel paradiso, mentre io entrerò con tutti gli onori".
Nel racconto di Alex, don Milani dà ancora più esattamente la cifra: 3400. Alla domanda cruciale del Vangelo ("Chi è il mio prossimo?") solo un santo intrepido poteva sentirsela di dare i numeri, trattare la quantità. "Amare concretamente". "Amore universale" suonava invece a don Milani come una litania contro natura. Alex non aggiunse commenti, nel suo ricordo, che mettessero a confronto l'inflessibile prossimità di don Lorenzo e la sua tentazione per ogni lontananza. (Avevano però una geografia morale comune: la convinzione che la conoscenza della lingua e la confidenza con le lingue siano la chiave di ogni libertà. Se volete, leggete gli scritti di Langer in "Il viaggiatore leggero", Sellerio).
Mi è piaciuto ricordare due persone così. Due che prendevano sul serio il Vangelo, e tutto il resto. Troppo sul serio? Forse. Vorrei aggiungere provvisoriamente che non ci sono due modi di prendere il Vangelo e la vita, ma molti di più, o uno solo. Anche Pasolini era un lettore serio serio del Vangelo, lui e don Milani non si incontrarono mai, si annusarono a distanza col pelo ritto, furono distanti rivali in affari d'amore. Per finire da dove abbiamo cominciato, coi nostri vangeli noi ci comportiamo secondo una ragionevole trattativa, strappando sconti: il cinquanta per cento, il venti per cento. Sapete quell'espressione di un nostro poeta, che aveva vissuto al cinque per cento. Poi c'è gente come quelli, che pretendevano di vivere al cento per cento: e morire anche.

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