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Adriano Sofri: il ponte di Mostar

17.7.2004, La Repubblica 17-07-04, pagina 34, sezione CULTURA
Costruzioni eleganti che l' uomo ha costruito per unire e avvicinare dialoghi e guerre tra due sponde

I veri ponti sono gettati sull' acqua. Da sponda a sponda fra l' acqua e il cielo. C' è una gara di eleganza fra l' arte delle navi e l' arte dei ponti. Le navi sono i ponti mobili dove l' acqua è troppo larga. La nave Cap Anamur è appena riuscita, a sue spese, a far salire della gente da una riva e farla scendere dall' altra. Non è un buon tempo, per i ponti, nè a Nassiriya, nè a Bagdad, nè altrove. Qualche progetto megalomane, e per il resto distruzioni, e affannate cerimonie di restituzione, di risarcimento. E' la volta di Mostar. La città prende il nome dal suo vecchio ponte, lo Stari Most, il capolavoro ottomano del Cinquecento, sbriciolato a cannonate dai carri armati croato-erzegovesi il 9 novembre del 1993. Bastò una manciata di minuti ad abbatterlo, sono occorsi undici anni a ricostruirlo. Per quanta premura abbiano messo a recuperare le vecchie pietre affogate e ricalcare il vecchio profilo, non è più il vecchio ponte. Non deve esserlo. E' una cicatrice sulle labbra spalancate di una ferita atroce. Undici anni non sono pochi, non sono molti. Nell' anima delle persone di Mostar, i croati-erzegovesi dell' ovest, i musulmani bosniaci dell' est, il ponte non è stato ricucito, la ferita non è rimarginata. Ci vorrà molto più tempo - purchè nessuno ceda di nuovo, intanto, alla voglia matta di aprire il fuoco, al furore ubriaco che eccitano i ponti. Quando il mondo inorridì, o simulò di inorridire, alla vista della videocassetta compiaciuta della demolizione del ponte di Mostar (infatti anche i decapitatori di ponti hanno cura di girare il film amatoriale della loro impresa), un ufficiale croato dichiarò: «E' più importante il dito mignolo di uno dei miei soldati che tutti i ponti di questo mondo». Straordinario esempio di umanismo, in una tempesta di torture e stragi di soldati e civili altrui e devastazioni di ponti e minareti e chiese e case. «Tutti i ponti di questo mondo»: chissà a quanti e quali ponti pensava quel cialtrone pronunciando la sua bestemmia. Quando Marco Polo arrivò in Cina restò stupefatto dalla quantità e la bellezza dei ponti delle sue città, eppure Marco Polo veniva da Venezia. Si inaugura il ponte di Mostar, si commemorano i quindici anni dal muro di Berlino, si ricorda (ma poco, poco!) il nono anniversario di Srebrenica. Ponti e muri si sono associati e opposti simbolicamente, fino a illudere ancora una volta che bene e male si lascino tagliare di netto con la semplicità di uno slogan. No ai muri, sì ai ponti. Lo si è appena risentito, a proposito del muro di Israele. Lo si era sentito in Bosnia, dove i ponti bombardati guastavano entro quattro o cinque anni la festa di demolizione del muro berlinese. Ma gli slogan non ce la fanno mai. Nemmeno col muro di Israele. La sentenza della Corte Suprema israeliana è meno ovvia, e più incoraggiante, di quella dell' Aia. All' Aia hanno pronunciato lo slogan. I muri che chiudono e separano, chi non li vorrebbe abbattuti e saccheggiati allegramente in una notte, mattone per mattone, dai collezionisti di souvenir? La Jugoslavia ebbe ponti gloriosi come pochi altri luoghi, e fu loro devota. Ivo Andric nel 1945 eresse al ponte sulla Drina un monumento letterario meraviglioso: il ponte costruito da Mehmet Ali a Visegrad nel 1516, bombardato a sua volta nella Prima Guerra. Andric era stato, poco più che ragazzo, fra i fiancheggiatori dell' attentato di Sarajevo, sapete, la Sarajevo del 1914, dove un maldestro maestro di paese serbista, Gavrilo Princip, si vide passare davanti la vettura di Franz Ferdinand e della sua moglie morganatica e scaricò loro addosso la sua rivoltella, colpì lei al basso ventre, lui al petto. Princip era ventenne, era vergine, aveva scarpe grosse da contadino, il luogo era un ponte sulla Miljacka, il Ponte Latino. Nella Sarajevo del 1994 il Ponte Latino era bombardato dagli artiglieri serbisti e fucilato dai cecchini, e anche il museo irredentista della Giovane Bosnia e le toppe sul cemento che avevano preteso di serbare come reliquie le impronte delle scarpe del terrorista Princip. Il ponte di Mostar: il ponte di Mostar era l' arco in cielo, l' arcobaleno gettato fra le due rive scoscese della Neretva. C' è un pittore famoso a Sarajevo, si chiama Afan Ramic, aveva dipinto il ponte di Mostar per tutta la vita, e quando un farabutto in divisa croata puntò addosso al ponte il suo cannone e lo colpì fino a farlo stramazzare, Ramic, che aveva perduto tutto in quella usurpata guerra, il figlio e la casa e lo studio e i quadri, e se ne stava in una Sarajevo di ripiego e cercava qualcosa da bere e qualcosa con cui dipingere, continuava a dipingere l' arco in cielo di Mostar, come lo ricordava, oppure ne dipingeva i moncherini sulle due rive alte, e però nei quadri la pozza d' acqua verde in basso, in memoria del suo ponte annegato, continuava a specchiarlo. Occorrerà molto tempo, e che ci si riabitui a passare e ripassare di qui e di là sulle vecchie pietre. Bisogna gettare ponti, e ripararli: fra le rive, fra le genti, fra le persone. Costruttore di ponti, pontifex: quale titolo più appropriato all' uomo di pace. Odiatori di ponti, gli uomini di guerra. Prendere la mira e tirare su un ponte che da secoli sfida la pesantezza, un colpo, due, tre, fino ad allargare la falla, e infine farlo crollare: una vendetta contro i costruttori di ponti, contro i romanzieri che raccontano il viavai secolare di genti sul ponte di Visegrad, contro le migliaia di persone in vacanza che passano in fila sul ponte di Maslenica. Alexander Langer, viaggiatore strenuo di quella Bosnia e del Kosovo prima di cedere a una stanchezza mortale, si era voluto costruttore di ponti, fino dall' esordio di adolescente nella Bolzano delle genti e delle lingue straniere: Die Brucke, si era chiamata l' impresa scolastica sua e dei suoi compagni, e san Cristoforo, il traghettatore, la sua figura prediletta. Nel 1993 un drappello di - generosi, incauti - pacifisti italiani si incamminò a mani alzate su uno dei ponti che spaccava in due la Sarajevo: a mezza strada Gabriele Moreno Locatelli fu sparato, con le sue mani alte, e ammazzato. I ponti sono slanciati, leggeri, si vengono incontro con un balzo dai due lati. I muri sono pesanti, tirano verso il basso. I ponti invitano a passare e a incontrarsi. I muri serrano e segregano. Inframuraria, si chiama nel gergo tecnico l' esistenza nelle galere. Il muro di Berlino fu drizzato in una notte d' estate per chiuderci dentro un popolo. Ci sono muri che sfidano il cielo - lo grattano - ed eccitano il delirio terrorista. Ma bisogna fare una guardia speciale ai ponti. I ponti sono il bersaglio prediletto di tutti i bombardieri. Vi diranno che è per la loro importanza logistica: occorre tagliare le comunicazioni eccetera. Ma non ci credete. La causa prima non è quella. La causa prima è l' odio per i ponti, l' invidia. Ci sono persone che arrivano di qua, persone che vengono di là, e si incontrano e si mescolano. Dal parapetto del ponte i ragazzi si tuffano nell' acqua verde ramarro. Al centro del ponte c' è uno spazio fatto apposta per le coppie che si sono appena sposate e si fanno la fotografia. Ponte Vecchio a Firenze: basta esserci passati una volta per sapere che cos' è la guerra e la pace. C' è un' arroganza anche nei ponti. Un re persiano volle coprire il mare con la sua flotta, e diede ordine di frustarne le onde che non si erano genuflesse alla sua autorità. C' è il ponte sullo stretto: progetto grandioso, sventato, pericoloso? Non so, ne diffido, certo, diffido delle grandi opere. Mi piacerebbe un mondo in cui muri e ponti rispettassero ancora le proporzioni con la statura degli umani e degli alberi, e fossero leggeri e duttili. Mi piacciono i ponti girevoli - quello di Taranto, gettato sui Due Mari e aperto al passaggio delle navi - i ponti mobili olandesi, perfino i ponti levatoi. C' era un' immagine in Robert Musil, e non me la ricordo più, mi ricordo che era bella. Di un ponte che abbia perduto le due arcate laterali, e sia rimasta solo la campata. Non mi ricordo se avesse a che fare col bicipite impero asburgico, o con la vita in generale. Può farvi pensare perfino alla crisi del bipolarismo - o la penserete invece come un ponte coi due tronconi laterali, e la voragine in mezzo, come a Mostar, di qua i croati, di là i musulmani, in mezzo un fiume smeraldino di odio. Ci sono momenti estremi - o di qua o di là - in cui perfino i ponti fanno da simbolo di una rottura ultimativa. "Avevamo vent' anni e oltre il ponte, oltre il ponte ch' è in mano nemica, vedevam l' altra riva, la vita, tutto il bene del mondo oltre il ponte...". Era Italo Calvino. Adesso mi piace pensare ai ponti visti dal basso, come li vedono i battellieri, o i canoisti, o i barboni dal loro giaciglio di cartone. E mi piace pensare ai ponti per pedoni, il ponte Sant' Angelo, o Rialto, o lo Stari Most, sui quali si vada non per attraversarli, ma a fermarsi a metà, appoggiare i gomiti sul parapetto, guardare l' acqua che scorre, guardare le nuvole che corrono, e mangiare un gelato.

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