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Livio Isaak Sirovich: Un prato con molti fiori....sul libro di Fabio Levi "In viaggio con Alex"

5.12.2007, Il Piccolo - Trieste
«Un prato con molti fiori diversi è più bello di uno con una sola varietà» - «Sembra incredibile che si continui a non capirlo» ci disse Alexander Langer nel 1985, o forse ’86, quando gli raccontammo che qui a Trieste era sorto un comitato contro la tutela della minoranza slovena. «Sembra, ma è così» concluse Alex col suo sorriso da leprotto abituato alle scariche di pallettoni. Già, perché gli sparavano sia i missini di Bolzano che, soprattutto, il partito etnico; quella Südtiroler Volkspartei tedesca come lui. Alex aborriva l'espressione "appartenenza etnica" in nome della quale la Volkspartei arrivava a considerarlo un “traditore”.

«Più o meno come noi alpinisti italiani ed ex-ufficiali degli Alpini» gli dicemmo quella volta a Trieste «considerati “scellerati” dal presidente della locale Associazione Nazionale Alpini».

«Voi?» - fece Alex, che ci considerava moderati un po’ seriosi e che, nonostante tutto, aveva sempre la capacità di stupirsi - «e perché?».

«Semplicemente perché ci siamo ribellati al venire coinvolti, a nostra insaputa, nel comitato italiano di difesa».

Vedo ora dalla biografia, che Feltrinelli ha dedicato ad Alex per la penna dello storico torinese Fabio Levi («In Viaggio con Alex; la vita e gli incontri di Alexander Langer, 1946-1995», 14 euro), che Langer attribuiva la bella frase sul prato variopinto al vescovo di Banja Luka, che l’avrebbe pronunciata durante la guerra civile jugoslava degli anni ’90. Secondo me, questo citare un altro è l’ennesima prova della modestia di Alex. Egli era infatti spesso alla ribalta, ma sempre coll’atteggiamento di scusarsi di esservi, fosse in consiglio provinciale a Bolzano, al Parlamento europeo, o a Sarajevo come capodelegazione di Bruxelles, attorniato da bosniaci assediati imploranti aiuto. Erano tempi in cui Fini e Bossi omaggiavano Milosevic a Belgrado, Pannella si faceva fotografare in divisa militare croata (anche Langer se ne lamentò subito per iscritto), si ventilavano arruolamenti clandestini di volontari italiani per riconquistare Istria e Dalmazia, e la repubblica serbo-bosniaca dello psichiatra Karadzich e del Generale Mladich elargiva cittadinanze onorarie anche a personalità triestine. Follie. Acqua passata. «Certe acque non passano mai» disse quella volta Alex salendo sul treno col suo borsone di carte, che ora mi si stringe il cuore a vederlo sulla copertina del libro Feltrinelli.

Quasi a dargli ragione, ancor oggi un parlamentare ed un vicesindaco triestini si dicono orgogliosi del danneggiamento della targa slovena della scuola elementare bilingue di Sgonico-Zgonik (perpetrato in orario scolastico).

Levi (interessanti i suoi precedenti «L’Ebreo in Oggetto» e «L’Identità Imposta» entrambi da Zamorani) scrive: «Per Langer, “capire” voleva dire in primo luogo sapersi porre in sintonia, nei rapporti, con le sensibilità altrui. Come per esempio di fronte al [primo] censimento etnico del 1981 quando gli era parso che si trattasse - e qui il biografo cita Alex - del più grave avvelenamento dei rapporti interetnici nel Sudtirolo dall’accordo Hitler-Mussolini del ‘39» (spingeva i parlanti tedesco ad optare per il Terzo Reich).

«Vedo quasi fisicamente» scrisse allora Langer «l’accelerazione dei processi di separazione e contrapposizione etnica. Sono angosciato per questa operazione di razzismo legale».

A Trieste, forse non ci rendiamo conto che dal 1981 in provincia di Bolzano si è arrivati in fondo al vicolo cieco, che i nazionalisti italiani, Comitato di difesa e cacciatori di targhe in testa, auspicavano fortemente anche per noi con il censimento etnico degli sloveni. «E chi si sente misto? E chi è figlio di un “bianco” e di un “nero”? E chi ha deciso di diventare perfettamente bilingue? E chi è venuto da fuori? E chi semplicemente non vuole porsi il problema se venga prima il tedesco, l’italiano, o l’Uomo?» protestava Langer. («Prima di tutto sono un uomo» scrisse Slataper, ai tempi in cui Timeus incitava gli italiani a combattere alla morte gli slavi).

«Il censimento è indispensabile» ripetevano e ripetono i nostri fratelli nazionalisti (italiani) «per eliminare i favoritsmi a vantaggio “della minoranza slovena, la più tutelata d’Europa”». Era questa la famosa, quanto erronea, definizione che un prestigioso ed influente rappresentante triestino pronunciò al Parlamento europeo, per poi inventarsi di sana pianta che l’avevano approvata.

Eccola in Alto Adige la “democrazia etnica": se a quel certo ospedale spetta un primario tedesco (o italiano o ladino), ma non se ne trova uno bravo, piuttosto di fare un'assunzione etnicamente sbagliata, si assume un brocco, purché del sangue giusto. Sulla base del censimento etnico - scrive Levi - ogni dieci anni viene «applicato il criterio proporzionale nei concorsi per il pubblico impiego e nell’assegnazione delle case popolari, dei contributi all’edilizia agevolata, delle sovvenzioni ad associazioni culturali e sportive ecc.. Chiunque non ottempera all’obbligo di dichiararsi perde automaticamente ogni possibilità di accedere a quelle opportunità e [perfino] di candidarsi alle elezioni, trovandosi così pesantemente menomato nei propri diritti».

Alexander Langer, lui, di madre tirolese e padre viennese, rifiutò di dichiararsi tedesco, italiano o ladino e perse il lavoro (insegnava a scuola); non solo, anni dopo per lo stesso motivo non potè presentarsi alle elezioni per sindaco di Bolzano. Dobbiamo anche a lui, comunque, se il censimento del 2011 tornerà ad essere anonimo.

Ma Alex pagò un prezzo altissimo. Ancora il biografo: «il coinvolgimento di Langer era totale, senza remore: la politica intesa in primo luogo come incontro con gli altri invadeva la sua vita e assorbiva una grandissima parte delle sue risorse emotive, costringendo entro limiti assai ristretti la sfera dei sentimenti più privati». E fu in questo generoso coinvolgimento, a causa di questo maledetto coinvolgimento, che alla fine ad Alex venne a mancare l’aria. Chi lo conobbe da vicino racconta che egli – che da giovane aveva sentito la vocazione di farsi prete e che quando la depressione l’aveva ormai attanagliato meditava di ritirarsi almeno per un periodo in monastero – era di una generosità sconfinata, senza risparmio; che quando ci si scriveva ancora appiccicando i francobolli sulle buste, manteneva fitta corrispondenza con decine, centinaia di persone, amici e compagni ma anche vecchi “colleghi” rivoluzionari delusi (in gioventù, Alex era stato in Lotta Continua) in cerca di nuove ragioni di vita, protestatari verdi più o meno apocalittici, bisognosi, profughi dalla ex-Jugoslavia, che gli avevano soltanto lasciato un biglietto con il loro indirizzo ad un posto di blocco. Troppo lavoro, mai un po’ di vita veramente privata, fino a ritrovarsi sopraffatto, qualche volta addirittura bersaglio del risentimento di chi aveva cercato in lui quasi un tutore esistenziale.

Scrisse Alex già nell’estate del ’93: «sono in grande e profonda crisi. Ho davvero seminato troppe promesse ed acceso troppe speranze: non riesco a mantenere, sento l’angoscia dell’inadempienza ormai invincibili».

«Invincibile» non era parola da lui. Resistette ancora due anni. Poi, la decisione di togliersi di mezzo, il 3 luglio del 1995, dopo una visita a quella basilica di San Miniato in cui altre volte si era raccolto; quasi – dice un carissimo amico – volesse ridare in mano ai troppi, che si erano appoggiati a lui fino a farlo crollare, la barra del timone della loro barca.


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