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Edvige Ricci: come di casa a Srebrenica

18.9.2007, Fondazione
Le montagne e il cielo, i visi della gente e i colori dell’aria sono di casa. Non sembra di essere lontani dall’ Abruzzo delle mie campagne e montagne d’infanzia o dalle lande austriache dell’ estate scorsa.

 

I fiumi sono invece più belli. Non perché la natura dei nostri non sia altrettanto straordinaria, ma perché quelli di Bosnia hanno sopportato “solo” la guerra tragica degli umani. I nostri hanno subito quella, per loro più devastante, di anni e anni di progresso predatorio contro l’odiata natura.

I ponticelli, i ponti, le sponde, la Neretva e la Drina, le acque rilucenti e il verde  ripariale costituiscono elementi di bellezza e dolcezza indimenticabili, quasi mitici.

 

Eppoi ci sono i segni e le città degli uomini. Non scioccanti, non vistosi lungo la strada, che ti accoglie, per chilometri e chilometri, con dolcezza di forme.

Mostar di sera e di mattina è totalmente magica, e lo slancio dei suoi minareti, senza che tu possa impedirlo, accompagna fino in cielo lo sguardo della tua anima.

Riesci perciò a ignorare quello che pure ti raccontano, di una città est e di una città ovest che non parlano quasi più fra loro…

Il paradiso splendente del bianco delle sue pietre e l’aroma dei suoi caffè, li godi comunque.

A Sarajevo il bazar conserva il fascino eterno delle culture in mostra e la vivacità universale del mercato…

Ma già hai qualche avvisaglia in più di torcimento di budella davanti alle pareti annerite della Biblioteca Nazionale data alle fiamme, di alcuni palazzi sventrati e sforacchiati da pallottole. E le budella ti costringono ad alzare lo sguardo alle alte colline attorno, da dove – hai letto – si sparava in continuazione sui passanti e sui famosi tram di Sarajevo, che, fortunamente, vedi ancora sferragliare attorno. E prevale comunque,alla fine, lo splendore e la dolcezza dei segni e dei gesti.  

 

Ancora di più, quindi, sei impreparata dinanzi alla “svolta” di Srebrenica. 

Nel suo territorio ci entri facendo una bella curva a 90 gradi lungo la strada principale. Avanzi in una valle sempre più stretta e , pian piano, sei nella fisica consapevolezza dell’enclave…

Pochi chilometri prima di arrivare, ripassi davanti a Potocari,il luogo del memoriale e delle migliaia di sepolture, già visitata l’11 luglio scorso, giorno della memoria, anniversario del massacro. Ma a luglio il luogo era strapieno di donne, uomini, colori, via vai di automobili, preghiere, canti, tristezza, dolore e dignità infinite…Adesso è deserto. I cippi bianchi , a migliaia, sembrano spropositati grani di rosario in successione…

 

Srebrenica.Un budello di paese.Non ne capisci di tecniche militari, ma non ci vuole molto a intuire che, volendo, dalle montagne attorno, è facile giocare al tiro al bersaglio …

Più della metà delle case sono annerite e sforacchiate. Ad alcune finestre di enormi palazzoni, al 90% devastati e inabitabili, appaiono vasi e panni appesi. E non sai se ti fa più tristezza guardare la parte distrutta del caseggiato o immaginare la vita che continua a venir vissuta nello sfacelo attorno.

E ti chiedi: ma dove vivevano, in 30.000, prima della guerra?  Sembra impossibile, tale e tanta è la precarietà complessiva che il luogo rimanda.

 

Ti senti come nel set di un film di guerra, alla fine delle battaglie. Ma non è  un film. Le persone cupe e le poche donne che vedi girare sono reali e non certo attori. La tua gola è un po’ stretta, ma procedi. E ti consoli con i monti, vicini e verdi, attorno.

Ed ecco la piazza, che è piuttosto uno slargo irregolare da cui dipartono varie vie; ecco il Centro operativo per la settimana internazionale, i ragazzi e le ragazze della Fondazione, il gran daffare, i saluti, i baci, gli abbracci con Irfanka, che quasi non crede di essere riuscita a fare questa cosa che sta iniziando…Ci siamo.

Paghiamo quel che dobbiamo per la settimana e veniamo accompagnati nelle  case dove alloggeremo. In cinque, due donne e tre uomini, andiamo da Fatima, che ci accoglie a dormire in casa sua, in cima ad un erto viottolo erboso, alle spalle della piazza.Ci sistemiamo in tre stanze vicine; l’unico bagno, il primo giorno, non ha acqua . Ci arrangiamo con bottiglie e bottiglioni. Qualcuno, ridendo, dice che sembra di essere a Pescara. Il giorno dopo,per fortuna, l’acqua ritorna, e può anche essere riscaldata. Ma la pratica di sobrietà  rimarrà esperienza quotidiana fino alla fine.

 

Cominciano i lavori. Il seminario su donne e memoria è di straordinaria intensità. Storie di Belgrado, del Cile, di Srebenica, di Bratunac,  Bologna…un calore e un affidamento grandi. Il tema: come si fa a non perdersi nel silenzio del dolore e come si fa a ritrovare insieme il senso di un orizzonte comune di speranza…. E nei tanti giorni di incontri, persone straordinarie che si narrano e si offrono per un progetto di rinascita… la drammatica storia di Yolande Mugakasana, dal Ruanda, ma anche la sua forza rinata e la sua energia solare spesa per raccontare e testimoniare come non ci si debba bloccare nei rancori.  ….E le belle esperienze della scuola di pace di Monte Sole, in quel di Marzabotto… tavole rotonde che diventano lunghe…il bravo imam che gioca a pallone con gli italiani, ma interviene con coraggio anche pubblicamente …tutti gli intellettuali venuti dai tanti Balcani…il gran numero di italiani che  circolano… e Pescara, con Luciani, che ribadisce di esserci e di volerci tornare… e noi che siamo contente di aver fatto la nostra piccola parte…e il ricordo di Alex che spesso ritorna…Indirizzi che si scambiano, impressioni e saluti…appuntamenti…al prossimo anno…

 

Siamo in tanti, nel paese molto piccolo, venuti da fuori.Circa un centinaio. Ci vediamo e ci vedono. Dapprima ci ignorano, poi i primi sorrisi e saluti; alla fine qualcuno viene insieme a noi e si mischia nei gruppi, partecipa alla festa finale…

La scommessa di starci parecchi giorni , e non una giornata “toccata e fuga”, sta ottenendo i risultati. Non stiamo qui a conquistare qualche merito per un ipotetico paradiso, ma a chiedere innanzitutto  a noi come si possa costruire un’Europa che comprenda Srebrenica e la pace, la memoria del genocidio, la capacità di dare un futuro alle sue donne e ai suoi giovani…Le varie trattorie che ci tocca girare , il cibo all’inizio appena ingurgitabile e poi man mano più curato…la panettiera e i suoi dolci, i taxisti che ci portano al fiume, in spiaggia…e ci dicono che gli italiani sono “super”. Mah.

 

Già, il fiume. La Drina, a pochi chilometri da Srebrenica , ha delle spiagge ampie, dove i taxisti ci portano. Francesca fa il bagno, tra i ragazzi che si buttano in acqua. Noi ci bagniamo senza buttarci. La corrente è fortissima. La bellezza del luogo mi proietta in un romanzo a mezzo fra le avventure di Tom Sawyer  e quelle delle belle estati di Pavese nelle langhe…Ma il luogo è più complicato. L’altra riva, ugualmente bella e ombrosa, è già Serbia. E alle spalle Srebrenica ci aspetta col suo carico di dolore incrostato e di memorie che troppi si affannano a seppellire per sempre.

 

Quando è ora di ripartire sappiamo già che noi e Srebrenica ci apparteniamo. Ci siamo date e siamo state prese.

La dolcezza del viaggio di rientro, con Tarik autista e Mersiha, tenerissima accompagnatrice, ha per me l’immagine conclusiva del colore splendente del mare di Spalato che appare, improvviso e  luminoso che più azzurro non si può, ad una curva degli ultimi colli svalicati sulla costa… Il mare, nostro. E mi accorgo solo allora che ne avevo nostalgia.

      

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