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Fabio Levi dopo la settimana internazionale: Cronache da Srebrenica

20.9.2007, Fondazione
Potocari è un sobborgo di Srebrenica, adagiato nel fondovalle, fra due file di colline. La strada, diritta, costeggia a destra il Memoriale del genocidio di dodici anni fa: 8370 nomi incisi nel marmo e oltre 2800 tombe tutte uguali, una stele bianca per ognuna, destinate a diventare sempre più numerose man mano che le analisi del DNA consentiranno di riconoscere i resti estratti dalle fosse comuni e ora in attesa nei depositi frigoriferi. A sinistra sorge la vecchia fabbrica di accumulatori, sede del contingente ONU olandese che capitolò con disonore di fronte a Mladic e consegnò alle milizie paramilitari serbe una popolazione terrorizzata, rendendo possibile lo sterminio di tutti gli uomini dai 13 ai 77 anni e la deportazione fra mille violenze di donne, vecchi e bambini. La presenza di quel complesso industriale, con i suoi fabbricati bassi e le tubature scoperte, è lì a certificare che la strage è stata l’ennesimo frutto maligno della nostra epoca.

Come per altri paesi della Bosnia, anche qui la casa dei morti è dunque molto più grande di quella dei vivi; ora Srebrenica conta forse meno di 5000 abitanti, dei 37000 di prima della guerra. Per arrivarci da Potocari si prosegue in leggera salita lungo la valle sempre più stretta. Molte le case abbandonate e senza serramenti. Quando arrivi in città – un agglomerato che si estende in lunghezza ai due lati della via principale -, più si infittiscono le costruzioni, più forte si fa il senso di abbandono. Non bastano a colmare quel vuoto che prende allo stomaco il supermercato nuovo di zecca costruito in un primo slargo o i fiori accuratamente disposti sui balconi di alcune delle casette costruite al tempo in cui la città era un rinomato centro termale.

I segni degli spari sono un po’ dappertutto; anche diversi condomìni appaiono gravemente danneggiati. La gente è poca: soprattutto anziani e un numero irrisorio di bambini. Rari i negozi; il luogo meno deserto, in una città dove non c’è lavoro, sembrano essere i caffè. Indecifrabile è lo sguardo delle persone. Ti chiedi come sia possibile continuare a vivere nello stesso luogo dove ti sono stati portati via il marito, il padre o i tuoi figli; per una popolazione mussulmana costretta oramai ad essere minoranza in una città che gli accordi di Dayton hanno attribuito alla Repubblica Srpska, quasi a sancire la vittoria di chi ha commesso il genocidio; per tante donne la cui solitudine è avvelenata dalla presenza palpabile di chi allora ha ucciso, stuprato o è stato complice degli assassini. E’ come se il desolante paesaggio urbano di un luogo aspramente diviso risuonasse ad ogni angolo di due note sorde e dissonanti: quella di un dolore inestirpabile e, sull’altro fronte, quella dell’omertà.

 

Una scommessa

Come dare sollievo a quel dolore? Come aprire uno spiraglio in quella realtà senza sbocchi? Forse è impossibile o forse non è ancora il momento. O invece attendere altro tempo può rendere tutto più difficile perché il trauma, se lasciato a se stesso, finisce soltanto per alimentare disperazione e odio. In tanti sono già venuti a Srebrenica, ad aiutare, a portare conforto: ma c’è chi lamenta il carattere episodico e a volte anche strumentale degli interventi.

Questa volta a percorrere la strada da Potocari fino alla Dom Kulture - un centro per incontri e conferenze nel cuore della città, ereditato dai tempi di Tito - sono state un centinaio di persone richiamate da due associazioni piccole ma ben motivate. La prima è Tuzlanska Amica, un centro diretto da Irfanka Pasagic e sorto a Tuzla – città bosniaca a qualche decina di chilometri - per la cura dei traumi di guerra, che fra l’altro ha organizzato quasi mille adozioni a distanza dall’Italia di bambini orfani, molti dei quali fuggiti con le madri dalla zona di Srebrenica. La seconda è la Fondazione Langer, che opera appunto nel mone di Alexander Langer e dell’impegno da lui profuso per la pace e per la difesa attiva delle vittime nel pieno della guerra in ex-Jugoslavia. Insieme hanno iniziato da due anni a costruire un rapporto con alcuni giovani di Srebrenica e con le donne più determinate nella denuncia del genocidio; l’intento era ed è di realizzare un centro di studio e di documentazione interculturale che rianimi la vita intellettuale una volta assai vivace della città, attraverso iniziative concrete e capaci di durare nel tempo.

La settimana internazionale organizzata per la fine dello scorso agosto sulla memoria del genocidio doveva essere il primo passo: forse un azzardo, per la povertà dei mezzi a disposizione ma soprattutto per la delicatezza del tema che, per di più, si voleva affrontare a Srebrenica, con la gente di Srebrenica. Non era facile infatti far sì che fossero le vittime a condurre in prima persona il discorso sulla propria esperienza; anche se su questo si pensava potesse essere decisiva la funzione di ponte che Tuzlanska Amica avrebbe saputo forse esercitare fra la realtà di chi aveva vissuto il genocidio e i punti di vista esterni, contribuendo ad evitare ogni forma di prevaricazione. E come superare d’altra parte la sfiducia più che giustificata di chi dal resto d’Europa aveva ricevuto solo colpevole disattenzione? Al riguardo si riteneva avrebbe potuto avere un ruolo importante la Fondazione Langer per la sua diretta filiazione dall’altra Europa: quella che, pur minoritaria e spesso impotente, non si era tirata indietro nei momenti più difficili.

L’azzardo consisteva nel voler essere catalizzatori di un processo di riflessione dagli innumerevoli risvolti umani e politici in un contesto di cui era molto difficile prevedere le reazioni. Le condizioni che avrebbero forse potuto garantire una buona riuscita dovevano essere il rispetto verso tutta la gente di Srebrenica da parte di chi veniva da fuori, la trasparenza delle motivazioni e la qualità delle idee proposte. Non poca cosa: tanto che prima del 27 agosto, giorno di inizio della settimana internazionale, nessuno era in grado di prevedere come si sarebbero sviluppati gli incontri, i workshop, le tribune pubbliche e soprattutto la tavola rotonda fra esperti di varie nazionalità raccolti per tirare le fila del lavoro.

 

Le donne di Srebrenica

Nel primo incontro, dedicato a “Donne e memoria”, Alma ha raccontato al microfono il suo ritorno a Bratunac – una cittadina a pochi chilometri da Srebrenica -. A dieci anni dalla fuga precipitosa verso mondi lontani seguita all’eccidio e alla perdita dei suoi cari, un giorno - dopo mille esitazioni e grazie alla solidarietà di altre donne mussulmane e serbe attive intorno alla nuova Cooperativa per la produzione di mirtilli - è ripassata con il cuore in gola davanti alla sua casa e si è fermata a guardarla. Uno sconosciuto l’ha avvicinata dicendole che, se avesse voluto comprarla, avrebbe dovuto sborsare pochi soldi: non c’era più nessuno che potesse rivendicare quei muri abbandonati, forse una donna… La donna era lei, Alma, che da quell’istante capì di non potere mai più abbandonare quel luogo: avrebbe fatto di tutto per riannodare nel cortile di casa, dove aveva giocato da piccola col fratello scomparso, i ricordi della propria infanzia felice con un presente difficile e doloroso che per lei non aveva però alcun senso vivere altrove.

La storia di Alma è solo una fra tante. In genere per chi in quel luglio del ‘95 è fuggito in altre parti della Bosnia o in giro per il mondo tornare è la cosa più difficile. Come pensare di ritrovarsi nel proprio paese di un tempo trasformato ormai in un deserto e vivere a un passo dai carnefici, liberi, impuniti e pronti a intonare alla prima occasione le loro oscene canzoni di guerra? Come tornare senza un lavoro e una prospettiva di vita per i propri figli? Eppure qualcuno ha ripreso la strada di Srebrenica e ha scelto di coltivare i propri ricordi facendone una ragione di sopravvivenza, forse l’unica possibile. Ma il rischio è che quel ritorno, così come la vita di quelli che non si sono mai mossi, vengano inghiottiti dal silenzio: il silenzio di chi non riesce a trovare le parole per elaborare il trauma subito; o un altro silenzio, quello della paura, perché gli assassini sono ancora lì, ben presenti e non sempre domati; o il silenzio della solitudine, della rinuncia, della protesta.

Ad esempio, in quel primo incontro alla Dom Kulture si percepiva chiaramente quanto fosse difficile per le vittime tradurre in parole le emozioni suscitate dal ricordo; e non solo perché certi dolori e certe efferatezze non si riescono a dire, ma anche perché il nemico può ancora condizionare i discorsi e i comportamenti di ognuno, imporre cautele e reticenze, limitare anche solo la libertà di nominarlo. Eppure il compito di chi è sopravvissuto è molto grande: delle donne in particolare, perché tocca a loro trasmettere, nell’intimità delle relazioni quotidiane, la memoria del passato ai figli, tanto più in un luogo dove gli uomini di più generazioni sono stati quasi tutti spazzati via. Se mancano le parole, è l’odio che rischia di prevalere negli sguardi e nei pensieri di ognuno. Per questo assume un rilievo esemplare il coraggio di chi riesce a levare la sua voce in primo luogo per raccontare la propria storia di dolore e per rivendicare il diritto di essere riconosciuti come vittime.

In quell’incontro alla Dom Kulture lo hanno fatto in diverse, consapevoli che al primo posto deve venire la verità sulle proprie vicende individuali. Dal confronto fra quelle verità può poi crescere una memoria collettiva da affermare e difendere contro chi vorrebbe negare l’esistenza stessa del genocidio e cancellare le responsabilità di mandanti ed esecutori. L’impegno assunto dalle donne di Srebrenica consiste proprio in questo: nel saper trasferire il dolore individuale oltre se stesse per farlo pesare nella sfera pubblica, di fronte alla società e nelle aule dei tribunali, dove costringere gli assassini a dare conto delle loro responsabilità. Solo che fino a questo momento il vasto materiale raccolto e presentato al giudice Carla Del Ponte non è stato giudicato sufficiente ad avviare le necessarie incriminazioni.

Ma non minore coraggio è necessario anche soltanto per provvedere alle necessità quotidiane, in una città dove l’economia è stata distrutta, dove a molti mancano la voglia e le energie per mantenere un orto o raccogliere le mele dagli alberi. Al deserto dei cuori corrisponde una analoga devastazione del tessuto più elementare delle relazioni sociali. In una tale situazione essere realisti – come è stato sottolineato in più di un intervento – vuole dire indubbiamente creare in primo luogo nuove opportunità lavorative, come si è fatto in forma del tutto iniziale con la piccola fabbrica di pasta appena realizzata grazie ad aiuti provenienti dall’Italia, e intorno ad esse rendere possibili incontri e relazioni capaci di sbloccare un immobilismo carico di rancori. Anche se non è meno realistico, né può quindi essere rimandato a un secondo momento, lo sforzo di verità e di giustizia cui si è appena accennato. Lo hanno lasciato capire in diversi: non si ricomincia a vivere senza un incontro virtuoso fra le ragioni del corpo e quelle dell’anima.

 

Yolande

Sin dall’inizio della settimana internazionale non poteva non risaltare la distanza incolmabile fra chi ha vissuto in prima persona la realtà del genocidio e tutti gli altri. Con una eccezione: quella di Yolande Mukagasana, sopravvissuta del genocidio dei tutsi in Rwanda nel ‘94, venuta a incontrare le donne trascinate come lei negli abissi. La memoria del dolore subìto è strettamente individuale; non è possibile soffrire al posto di un altro, ma condividere le ragioni della comune sofferenza sì. E se il dolore dell’altro può considerarsi legittimamente comparabile, l’incontro e il confronto possono diventare un’occasione di insperato conforto alla propria solitudine. Contano poco a questo punto le differenze di latitudine, di lingua o di colore: così, senza troppe mediazioni, anche un mondo tanto diverso come quello di un paese africano può trovarsi affratellato a una realtà dell’Europa, per il fatto che sono stati entrambi colpiti dalla moderna furia omicida, altrettanto crudele di qua e di là dal Mediterraneo.

Certo, l’abbraccio fra Yolande e le donne di Srebrenica è durato solo per un breve momento, ma quel gesto è destinato a pesare in futuro e per una ragione non da poco. La ricomparsa dopo Auschwitz di ripetute pratiche genocidarie costituisce indubbiamente il peggiore fallimento della nostra storia recente; tuttavia non è privo di senso pensare a quell’inedito incontro di Srebrenica alla luce dell’incommensurabile isolamento cui furono costretti dopo il ’45 i sopravvissuti della Shoah, ragione fra le altre di una rimozione sociale destinata a protrarsi per decenni. Così essersi rispecchiate in un altro luogo di abominio potrà forse aiutare le vittime dei nuovi massacri a rinforzare la consapevolezza di sé e dei propri diritti, primo fra tutti quello alla giustizia.

Per l’assassino - ha detto fra l’altro Yolande, nel suo modo semplice e forte - è facile dare una spiegazione del genocidio: per lui essa va fatta risalire alle caratteristiche che egli stesso ha attribuito alla vittima, per disumanizzarla e per giustificarne l’eliminazione. Né va dimenticato che quando si pianifica il genocidio se ne pianifica anche la negazione e l’impunità. Per contrastare tutto questo bisogna viceversa sforzarsi di nominare il male per quello che è stato, e così pure di dare un nome e un cognome agli assassini. E’ questa la premessa indispensabile perché possa essere fatta giustizia. La vittima deve essere riconosciuta come tale, davanti alla società civile e alle istituzioni. Senza riconoscimento, essere vittima rischia di diventare da momento di passaggio a condizione di tutta una vita.

E ancora, tenendo conto dell’esperienza recente in Rwanda dove il potere politico ha avviato una forma di giudizio dei colpevoli attraverso lo strumento dei gachacha, tribunali dove i giudici sono eletti fra i saggi del villaggio, Yolande ha sottolineato che non ha senso parlare di riconciliazione, tanto più per la generazione adulta investita dal genocidio. E’ più giusto parlare di ricostruzione, perché il genocidio distrugge la vita delle persone. Di sé ha detto di essere stata molte volte nelle prigioni del suo paese a parlare con tanti di quelli che hanno mietuto vittime con il machete: accanto al trauma delle vittime ha così scoperto il trauma degli assassini, che hanno distrutto l’umanità prima di tutto dentro di sé. Per tentare di tornare a essere uomini essi non hanno altra strada se non quella di raccontare i crimini commessi e di riconoscere pubblicamente le proprie responsabilità; in questo partecipando alla costruzione della verità e della memoria. Come dire che sono gli assassini ad aver bisogno delle vittime e non viceversa.

In Rwanda chi ammette le sue colpe si vede ridotta la pena della metà. Molti hanno criticato questa soluzione, ma – si è chiesta Yolande - cos’altro si poteva fare in una realtà in cui si è costretti a vivere insieme carnefici e vittime? Certo c’è chi non è disposto ad ammettere i propri delitti, chi coltiva l’ideologia dell’assassinio e, se potesse, ricomincerebbe a uccidere domani. Con costoro non c’è niente da fare. Va in ogni caso tenuto bene a mente che in un genocidio tutti hanno perso, nessuno esce vincitore; e che il peso di quanto è accaduto ricade in primo luogo sui figli, compromettendo la loro possibilità di vivere insieme; sui figli delle vittime, ma ancor più su quelli degli assassini, che rischiano di essere schiacciati dalla colpa dei padri e, per difendersi, di non saper trovare una strada diversa. E’ proprio per questo che “le vittime non devono lasciare un messaggio di morte, ma di vita”.

 

Il peso ingombente della politica

Le parole di Yolande, pronunciate nel corso di una tribuna pubblica dedicata al Rwanda e soprattutto nel dibattito con gli esperti provenienti dalla varie realtà della ex-Jugoslavia e da altri paesi europei, hanno aperto verso orizzonti di giustizia e di convivenza possibile che però da Srebrenica appaiono ancora lontani e assai nebulosi. Zlatko Disdarevic, già direttore del giornale di Sarajevo Oslobodjenje, lo ha detto chiaramente: nei vari stati formatisi dalla crisi degli anni ’90 e a maggior ragione in Bosnia Erzegovina gli spiriti maligni non sono ancora rientrati nella bottiglia.

Dagli accordi di Dayton in avanti la logica dominante è stata quella della separazione fra i gruppi, dell’odio reciproco, tanto in Serbia dove sarebbe in corso un processo – sempre secondo Dizdarevic - di “nazificazione” con la diretta partecipazione delle Chiesa ortodossa, quanto in Kosovo o in Bosnia Erzegovina appunto, nella quale una costituzione fortemente etnicizzata rende tutto più difficile e in primo luogo la situazione nelle scuole, al loro interno rigidamente divise. Quanto a Srebrenica, dopo il riconoscimento del genocidio da parte del Tribunale penale internazionale dell’Aja nel 2004, si è assistito negli ultimi mesi a due altre sentenze chiaramente ispirate da una logica opposta: quella emanata in febbraio dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, che non ha voluto riconoscere responsabilità allo stato serbo per il genocidio, e quella contro gli uomini dell’unità Skorpion colpevoli di aver ucciso sei ragazzi di Srebrenica, nella quale ancora una volta si è deciso di negare un legame diretto fra le forze militari della Serbia e l’eccidio perpetrato nel luglio del ’95.

Un’attenzione particolare è stata dedicata nel corso della settimana internazionale anche alla stampa e ai mezzi di comunicazione. Si è parlato dei meccanismi che hanno reso la gran parte dei media internazionali succubi degli interessi e della colpevole inerzia degli stati non solo europei, ma - ancor più - di quanto sia pesante il lascito della guerra sul sistema di informazione nelle varie realtà della ex-Jugoslavia. 200 fra direttori e editori sono stati licenziati e sostituiti a ridosso del conflitto per fare soprattutto dei giornali un docile strumento nelle mani delle oligarchie al potere decise a fomentare l’odio reciproco con qualsiasi mezzo. Né il quadro è destinato a migliorare ora che sembra sempre più difficile ridimensionare il peso del fattore etnico nella costituzione della Bosnia Erzegovina; ora che risulta essere molto forte l’opposizione a uno statuto speciale per Srebrenica tale da rendere più autonoma la città dalla Repubblica Srpska; e che è prevedibile l’elezione fra pochi mesi di un nuovo sindaco serbo al posto di quello mussulmano, data la mutata composizione della popolazione residente dopo il genocidio e l’impossibilità di partecipare al voto – sancita dalla nuova legge elettorale – per chi è emigrato altrove.

Dunque la politica non aiuta; anzi. E trovano spazio viceversa le posizioni di chi parla di riconciliazione per dire che non bisogna perdere troppo tempo con il passato, che sui fatti del ’95 dovranno fare luce a suo tempo gli storici, che il problema vero è creare le condizioni per un nuovo sviluppo. Queste cose ha teorizzato ad esempio un giornalista serbo che lavora ad un mensile di Srebrenica, suscitando la dura reazione di un altro suo collega presente in sala, scandalizzato per come in tal modo vengano celati i veri problemi di una città prostrata.

Lo scontro è riuscito per un momento a rendere esplicita nella Dom Kulture la sorda ostilità reciproca fra serbi e mussulmani che serpeggia giorno dopo giorno per le strade della città e che forse, per qualcosa, si esprime anche all’interno di ognuno dei due gruppi. E’ stato dunque un episodio nella giusta direzione del confronto aperto fra punti di vista diversi, anche se non è certo servito ad attenuare il pessimismo profondo così evidente nelle parole di Disdarevic o di altri venuti alla settimana internazionale, giornalisti, avvocati e in genere uomini di cultura impegnati nella battaglia per la verità e la giustizia nei paesi della ex-Jugoslavia. Dai loro interventi è sembrato come se la ristretta élite intellettuale che da anni si batte per una prospettiva diversa e che sperimenta giorno per giorno le miserie e il crudele egoismo dei politici, per ottenere qualche risultato sentisse di dover scalare cime quasi irraggiungibili. La delusione e il pessimismo bruciano in modo tanto più doloroso se si pensa che passare oltre, rimuovendo quanto è accaduto prima, è tutt’altro che impossibile; lo si è già fatto per decenni nell’Europa dopo la seconda guerra mondiale.

 

Il film “Skorpion”

Nel corso delle intense giornate trascorse presso la Dom Kulture, quello stesso gruppo di intellettuali, fra i più attivi – malgrado tutte le difficoltà - nella lotta contro la separazione etnica e per una politica diversa, ha tenuto a che fossero proiettati tre film. Il primo denuncia, attraverso le parole dolenti di chi oggi ricorda il calvario appena vissuto, l’ennesimo crimine commesso dalla polizia serba, di recente portato alla luce. Un’ottantina di bosniaci, per fuggire la guerra, si trasferiscono in Montenegro, ma sono individuati, catturati e fatti sparire. Solo una decina di loro vengono rivenduti a caro prezzo ai parenti e riescono a tornare a casa.

L’altra pellicola – “Vesna” – è la cronaca delle sofferenze di una donna alla ricerca del corpo del marito scomparso; le ore nei campi accanto alla scavatrice che rivolta il terreno, alternate ai momenti di vita quotidiana con le figlie che vanno a scuola e fanno - come è normale - le cose di tutti, la speranza delusa di poter finalmente riconoscere un oggetto, un vestito dissotterrato da una fossa comune.

E infine il film più terribile e crudo, realizzato grazie soprattutto alla determinazione e al coraggio di Natasa Kandic che vive a Belgrado e che per questo suo lavoro è stata oggetto di ripetute minacce: “Skorpion”. Un uomo appartenuto al corpo militare serbo che portava quel nome illustra davanti alla cinepresa le sequenze da lui girate durante le azioni condotte contro la popolazione mussulmana. La lunga parte finale è dedicata all’uccisione a freddo di sei ragazzi deportati da Srebrenica, a uno a uno chiaramente riconoscibili e riconosciuti dai loro famigliari ma non – come si sarebbe dovuto per evidenziare il legame della Serbia con il genocidio – dal giudice chiamato a condannare gli assassini. Le immagini lasciano di ghiaccio, come pure l’ordinaria disumanità delle parole che accompagnano i gesti di morte; l’interprete che doveva tradurre in cuffia non riusciva quasi a pronunciarle e aveva la voce rotta dal pianto.

Quel film – ha spiegato Natasa Kandic - è servito ad avviare un procedimento giudiziario, ma come gli altri ha avuto e continuerà ad avere una funzione ulteriore non meno importante. Di fronte alle reticenze e ai rifiuti delle autorità di perseguire i crimini commessi durante la guerra, serve e servirà a garantire alle vittime un riconoscimento pubblico e ad offrire alle loro famiglie uno spazio dove dare spessore e durata nel tempo alla verità dei fatti. Per questo il cinema è un mezzo di grande influenza che aiuta a lasciare un segno nella coscienza di tutti.

Ma c’è un altro uso possibile – anche di questo si è parlato alla Dom Kulture -. Per chi non ha sperimentato direttamente la guerra perché viveva nella tranquilla e inconsapevole quotidianità dei paesi oltre il confine vedere un film della rigorosa durezza di “Skorpion” è come sottoporsi a una prova; quella di interrogarsi, durante e dopo la proiezione, riguardo alla differenza fra il proprio punto di vista, le proprie reazioni e quelle di chi allora ha vissuto la guerra dal di dentro. E’ giusto misurare ad esempio l’abisso incolmabile fra la propria sofferenza e la loro; pensare al diverso significato che si può attribuire nei due casi all’aggettivo “vitale” applicato al bisogno di verità e giustizia, o alla diversa percezione – sempre fra chi c’era e chi non c’era – delle difficoltà e dei pericoli che oggi deve affrontare chi voglia affermare una scomoda verità.

 

Il rapporto con la città

Nel corso di tutta la settimana ci si è interrogati spesso, nelle conversazioni a tu per tu ma anche nelle discussioni pubbliche, sul perché la presenza della gente di Srebrenica ai dibattiti fosse molto limitata. Nel tentativo di spiegare, durante uno dei workshop – quello sui giovani e la memoria con tutti italiani e, alla fine, una sola ragazza di Mostar - si è cercato di ragionare sui passi che un ragazzo del posto avrebbe dovuto compiere per varcare la soglia dell’aula dove aveva sede l’incontro: primo, sopravvivere “alla mancanza di equilibrio e di armonia” – sono parole della giovane mostarina – di una città devastata e priva di risorse; secondo, accettare di non rimuovere il trauma profondo delle perdite subite; terzo, conquistare uno sguardo dal di fuori per poter riflettere sulla propria esperienza, negoziando via via il ricordo con se stessi; quarto, essere disposti a parlare di tutto questo insieme ad altri; quinto, volerlo fare anche con gente venuta da lontano; sesto, esporsi agli sguardi dei nemici di ieri e di oggi, sempre attenti ad ogni comportamento fuori dal loro controllo. Nell’insieme un percorso non facile e in ogni caso ancora in gran parte da costruire.

Anche se alcune importanti premesse già durante gli incontri alla Dom Kulture erano ben visibili e altre si sono forse create proprio grazie a quanto la settimana internazionale ha saputo lasciare. A quella che poi si è deciso di chiamare non più tavola rotonda ma “tavola lunga”, non solo per difficoltà logistiche a disporre gli esperti in cerchio ma per dare il senso di un confronto destinato a non finire mai, le presenze di Srebrenica sono state quanto mai significative. Oltre a Hajra Catic, in rappresentanza dell’associazione delle donne, è intervenuto l’imam con parole veementi e non certo di circostanza sul peso che le comunità religiose potrebbero avere se si volesse fare veramente i conti con la dimensione spirituale della ferita inferta alla città. E’ venuto anche il parroco della chiesa cattolica, un francescano che, rivendicato il ruolo positivo svolto dalle autorità ecclesiastiche, ha invocato la necessità di procedere sulla via del perdono e di una rinnovata fiducia reciproca. Il sindaco non ha direttamente partecipato al dibattito, ma ha inaugurato gli incontri. E’ mancato invece il pope ortodosso che ha preferito rendere evidente con la sua assenza la distanza di gran parte della popolazione serba.

Ma, al di là della presenza delle personalità locali, è cresciuta intorno all’iniziativa una rete di rapporti via via più consistente con il passare dei giorni: con i ragazzi che inizialmente sono venuti a vedere e poi hanno offerto il loro aiuto al lavoro organizzativo; con i bambini, tutti serbi, che hanno disegnato e discusso nel workshop di arteterapia; con le famiglie presso cui hanno alloggiato i visitatori venuti da fuori; con tante persone incuriosite da quell’inedita presenza di giovani e non solo. Irfanka ha sentito un commento proveniente da una casa di serbi, al passaggio di un gruppo di ragazzi: “Come è bello sentire qui qualcuno che ride”.

La stessa Irfanka ha detto dal palco di sentirsi onorata per l’intervento in sala di un uomo, anch’egli serbo, venuto a rivendicare il proprio diritto di parola. E’ accaduto quando al pubblico è stata data la possibilità di interloquire con gli esperti della “tavola lunga”: Mladen, sui trent’anni, ha raccontato del proprio padre, serbo, ucciso dai dalle milizie serbe perché non voleva combattere e ha chiesto se anche per lui c’era posto in quella sala o solo per i mussulmani, se la morte anche di una sola persona dell’altra parte poteva valere qualcosa di fronte a quella di un eccidio di molte migliaia di uomini. Come per il duro scambio di battute fra i due giornalisti di Srebrenica, anche in quell’occasione nella Dom Kulture hanno finalmente trovato il modo di esprimersi attraverso parole comprensibili a tutti i sentimenti e le frustrazioni costretti per troppo tempo nell’invettiva o nei gesti ostili della vita di ogni giorno. Come poi possa svilupparsi una memoria del genocidio che, contrastando le tendenze a una monumentalizzazione esclusiva, non finisca per contrapporsi alle morti singole di chi – anche dell’altra parte - è comunque stato vittima di sopraffazione e di abusi è cosa che dovrà via via definirsi nella coscienza e nella pratica di chi vorrà lavorare sul serio a ricostruire la verità sul passato.

 

Oltre le parole

Le parole risuonate per più giorni nelle aule degli incontri non hanno avuto nulla di ripetitivo o di rituale. Né si sentiva alcun distacco – come quasi sempre accade – fra quanto veniva pronunciato al microfono e le conversazioni svolte intorno al tavolo da pranzo. La sfasatura era un’altra: quella fra la forte corrente di emozioni che attraversava in modo diverso ognuno – e soprattutto chi veniva da fuori o chi aveva responsabilità organizzative – e la effettiva possibilità di dare loro espressione. Su questo credo che molti abbiano percepito le limitate potenzialità del mezzo verbale, al quale pure tutti si affidavano per entrare in comunicazione con la città e per provare a sciogliere i nodi più aggrovigliati.

In realtà, magari senza esserne lì per lì pienamente consapevole, ognuno ha cercato anche altre strade per misurarsi con il tema della settimana internazionale. Per esempio, andando in giro per le strade della città è stato inevitabile tenere sotto controllo lo sguardo come se si volesse risparmiare da occhi indiscreti la sofferenza di chi non era nelle condizioni di coprire le proprie ferite, nel tessuto squarciato della città, nell’aspetto malandato delle case o in altri segni più o meno decifrabili; anche i comportamenti finivano per misurarsi con il timore che incuteva, al di là di ogni intenzione, la frattura sin troppo nota fra serbi e mussulmani di cui però non era facile, tanto più per uno straniero, percepire le punte e i contorni. Era impossibile non farsi condizionare nei rapporti dal forte e inevitabile pre-giudizio imposto da quello che si sapeva della tragedia ancora così vicina. Quando si incontrava qualcuno ci si chiedeva in modo quasi esclusivo: sarà serbo? sarà mussulmano? E le domande su tutto il resto, su quel che riguarda la vita di ora e non solo quella della guerra? E questo non poteva non influire prima di tutto sui gesti, tenuto conto fra l’altro delle difficoltà di comunicazione dovute alle differenze di lingua.

Le visite alla fonte termale e al Memoriale di Potocari sono state, appunto, prima di tutto dei gesti, di rispetto, di avvicinamento allo spirito dei luoghi. La fonte, anzi le fonti per la salute del corpo e degli occhi, per la bellezza della pelle e del viso erano, prima della guerra, la principale risorsa della città. Ora si passa di fronte a un’albergo svuotato e si sale lungo un percorso lastricato in mezzo al bosco, costeggiato da panchine divelte, per arrivare a un edificio semidistrutto e a un ruscello di acqua ferrosa che scorre libero lungo gli scalini di un terrazzamento abbandonato. Colpiscono il silenzio e la solitudine, rotti soltanto dai pochi che vanno a riempire qualche bottiglia; ma soprattutto il contrasto fra la rovina del luogo e i tratti moderni di ciò che è stato distrutto. Come dire che non è stata colpa del tempo, ma di uomini della nostra stessa generazione.

Sia alla fonte, sia al Memoriale sono venuti ad accompagnarci ragazzi del posto, alcuni conosciuti proprio in quei giorni. Uno di loro era la prima volta che si avvicinava a Potocari. Un altro è voluto rimanere lontano dai locali a suo tempo occupati dal contingente olandese e imbrattati da graffiti osceni: lui era stato lì, in mezzo alla folla in preda al terrore, quando aveva dieci anni e di suo padre gli rimane solo la sensazione dell’ultima stretta di mano. Nel corso della visita, il silenzio poteva essere rotto soltanto dalle parole della guida che raccontava della dinamica del genocidio, ma anche di sé in risposta alle domande di Yolande: aveva perso a Potocari tutti i suoi fratelli, mentre lui era fuggito nei boschi, dove i paramilitari di Mladic sparavano granate da tutte le direzioni per uccidere, per disperdere e per disorientare i fuggiaschi; poi rastrellavano i sopravvissuti magari ingannandoli con le divise dell’ONU consegnate dagli olandesi insieme a tutte le armi; lui era riuscito a raggiungere Tuzla con il gruppo di 3000 persone arrivate per prime; gli altri sarebbero giunti alla spicciolata fino a sei mesi dopo. “Oggi non ha paura di rimanere qui nel Memoriale, in una zona a prevalenza serba? – gli ha chiesto Yolande -; “no, ora la situazione è normale. Anche se, solo un’ora fa, sulla strada è passato il corteo di macchine di un matrimonio ortodosso; di solito vicino ai cimiteri si fa silenzio, loro invece hanno girato apposta tutto intorno senza smettere un attimo di suonare”.

Un altro modo di andare oltre le parole è stato quello del gruppo di coloro che, sin da prima della settimana internazionale, si sono caricati degli aspetti organizzativi della settimana, svolgendo un lavoro apprezzato da tutti. Preparare, condurre e portare a compimento quella manifestazione, su un terreno in gran parte sconosciuto, dovendo fronteggiare momento per momento condizioni impreviste, insieme a persone spesso mai incontrate prima, ha voluto dire già di per sé confrontarsi con la specifica realtà di Srebrenica e con le difficoltà di un rapporto nuovo e positivo con la memoria di cui la città è portatrice. La tensione che per i partecipanti all’incontro si applicava ai contenuti delle discussioni, per chi organizzava si concentrava sui rapporti che rendevano possibile un adeguato svolgimento dei lavori. In quel particolarissimo contesto si trattava di due aspetti non solo complementari fra loro, ma esattamente della stessa natura: in un caso prevaleva la dimensione del dire, nell’altro quella del fare, ma al centro rimanevano sempre Srebrenica e il suo tragico destino.

C’è stato un episodio che forse più di altri ha rappresentato il punto di saldatura fra le diverse anime della settimana e, non a caso, si è compiuto su un terreno altro dalla parola e da quello dell’agire concreto. E’ stato quando allo stadio si sono confrontate una squadra di calcetto bosniaca, con il sindaco e l’imam, e una squadra a prevalenza italiana costituita dai ragazzi di Nema Frontiera, un’organizzazione di Torino impegnata negli stessi giorni a lavorare con i ragazzi di due paesi vicini a Srebrenica e Bratunac, uno mussulmano e l’altro serbo. Hanno vinto di misura i bosniaci dopo che, nell’intervallo, tutti insieme, giocatori, pubblico, esperti di vari paesi e organizzatori, si sono ritrovati in un angolo del campo per deporre un mazzo di fiori nel luogo dove durante la guerra era caduta una granata che aveva spazzato via 80 persone.

 

Tornare, ma come?

La settimana è stata per chi c’era uno di quegli incontri intensi alla fine dei quelli è difficile staccarsi e di cui nello stesso tempo non si vede bene come pensare un esito ulteriore. Così l’ultimo giorno è trascorso fra sentimenti contrastanti. C’era in primo luogo un senso di incompiutezza dovuto al fatto che la “t

avola lunga” era stata quasi tranciata il giorno prima dalla violenza di “Skorpion”. Il film aveva lasciato gli spettatori senza fiato e aveva alimentato in alcuni la sensazione che si fosse interrotta la riflessione collettiva con un atto traumatico, destinato a bloccare una visione più articolata ad esempio del rapporto fra il genocidio e la guerra, nella prospettiva di avviare iniziative utili a favorire nuove forme di convivenza in particolare fra mussulmani e serbi.

Per questo la mattinata è stata dedicata a ragionare, oltre che del film, del possibile esito di un’esperienza di incontro che tutti giudicavano essere stata importante. Sono così emerse le diverse valenze dello strumento cinematografico cui già si è accennato. In più si è ribadito con forza come l’affermazione della verità sul genocidio e sulla guerra debba rimanere il centro e il punto di partenza di qualsiasi discorso. E se la verità può apparire sin troppo cruda e dolorosa per chi oggi è costretto a guardarla in faccia - magari senza alcuna preparazione - su uno schermo cinematografico, non bisogna dimenticare che non meno improvvisa e incomparabilmente più dura essa si presentò a chi dovette subirla direttamente.

Si è però anche chiarito che il dibattito svolto nei giorni precedenti doveva concludersi con l’impegno a non lasciare ancora una volta da soli quelli che a Srebrenica avevano creduto nella possibilità di un rapporto duraturo. Così alla fine è stato approvato un breve testo sulla necessità di affermare la verità riguardo al genocidio di Srebrenica, di procedere contro i responsabili, garantendo pieno sostegno alla gente di Srebrenica che deve poter essere protagonista nella battaglia per la costruzione e la salvaguardia della memoria di quanto è accaduto per le prossime generazioni. Ma la cosa forse più importante è stata la decisione di riproporre per l’anno prossimo una seconda tappa del cammino appena intrapreso.

Su come procedere concretamente non si è andati molto oltre alcuni criteri generali, come se anche la mozione finale risentisse della timidezza con cui nel corso della settimana si è guardato al futuro, per la difficoltà di fare previsioni sui grandi problemi in gioco e sulle piccole cose che si potranno effettivamente realizzare; ma anche perché sarebbe irresponsabile e controproducente assumere impegni destinati alla fine a non essere rispettati.

Qualche idea utile tuttavia, nel corso degli interventi, è emersa. Siamo noi a dover andare dalla gente di Srebrenica – ha proposto qualcuno - per offrire un segno di attenzione e di cura. Roberta Biagiarelli ha parlato del progetto già in corso di far rivivere in forme teatrali ancora tutte da definire lo spirito delle feste vissute in passato, ricacciato ormai nelle profondità della memoria dai traumi patiti con la guerra: “Abbiamo intervistato una donna anziana che ha cominciato a raccontarci della festa per il suo matrimonio, ma poi il dolore l’ha costretta a interrompersi e non ci ha voluto descrivere come allora si ballava. Ci hanno però pensato i suoi due nipotini a mimare quelle danze”. Si è anche pensato a iniziative rivolte ai bambini, attraverso modalità adatte alle loro capacità espressive, alla possibilità di creare luoghi di confronto mediati da terzi come si fa alla Scuola di pace di Montesole o di favorire la raccolta di documentazione sul genocidio, di intervenire in modo scientifico sui problemi della salute o sulle conseguenze dei traumi di guerra.

Tuttavia non è data per ora alcuna certezza. Se non che finalmente a Srebrenica è accaduto qualcosa di cui vale la pena raccontare la cronaca, per la gente di lì e per gli altri. Forse si è aperta infatti una possibilità che da quella città e da chi ha deciso di continuare a viverci si levi un richiamo in grado di farsi sentire ben oltre i confini della Bosnia: a che la ricomparsa in Europa del genocidio cinquant’anni dopo non sia guardata con sufficienza e incredulità; e insieme che il nuovo nome di città assurto oggi ad indicare il male peggiore del nostro tempo non si trasformi in un puro simbolo, ma continui a designare un luogo concreto fatto di cose e di persone. In questo sta una precisa indicazione per il futuro che dovremmo poter raccogliere dentro e fuori dai Balcani: contribuire ulteriormente a che Srebrenica riprenda la propria vita come condizione perché essa possa far sentire con più forza la propria voce.

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