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Srebrenica I bambini ricordano: Stringevano forte la sua mano. Intr. di Maria Chiara Risoldi

29.6.2005, Una città
Quante mani di bambini può stringere la mano di una sola donna? Quanti bambini sono stati tenuti stretti da Ljubica? Quanti ne ha consolati, quante lacrime ha asciugato? I racconti di Ljubica si leggono d’un fiato. Con sgomento, con tenerezza, con sollievo, con angoscia… forse solo un assaggio di quello che ha provato lei.

Patrizia, Gianna, Maddalena ed io abbiamo conosciuto Ljubica nel 1998. Faceva parte del gruppo di colleghe e colleghi con cui ci siamo incontrate per due anni. Un gruppo di lavoro, di studio, di discussione, che era stato possibile organizzare grazie all’Associazione Tuzlanska Amica e alla Regione Emilia Romagna, che aveva finanziato il nostro progetto: cercavamo di aiutare le colleghe e i colleghi di Tuzla che affrontavano il dopo guerra e l’immane quantità di traumi che la guerra aveva provocato ai bambini, sia facendo delle lezioni sullo sviluppo del bambino, sia discutendo i loro casi e le loro esperienze. In quei due anni facemmo dieci incontri. Discutevamo assieme del loro lavoro per tante ore. Il gruppo era formato da dodici persone. Ciascuno a turno portava una relazione: momenti difficili incontrati nel lavoro, angosce da condividere, dolori e lutti. Ciascuno poteva trovare nel gruppo sollievo, comprensione, aiuto per elaborare la fatica, l’ansia di non farcela, il senso d’impotenza. Ma il tempo era sempre poco. Troppo poco per l’enorme carico che ogni collega portava. Ricordo quando Ljubica ci parlò del suo lavoro. Ci raccontò di un gruppo di bambini. Ricordo come noi bolognesi restammo colpite dalla creatività, dalla vitalità, dalla forza con cui Ljubica lavorava con i bambini. Dalla naturale poesia che era contenuta nel suo racconto dei loro racconti.
Questo libro raccoglie decine e decine di racconti come quelli che noi ascoltammo. Sono i racconti spontanei dei bambini, profughi, orfani, feriti e traumatizzati dalla guerra, che si fidano di Ljubica, che sanno di poter contare sulla sua empatia, sulla sua leggerezza, sulla sua capacità d’ascolto e di contenimento. Con loro organizza gruppi di disegno, di gioco, con loro va in gita, li accompagna nelle vacanze in colonia.
Ogni momento che i bambini passano con Ljubica è un momento di cura, nel senso più profondo del termine. Sanno che in quel gruppo possono portare tutto il loro dolore. La loro attesa senza fine, che i padri e i nonni e gli zii e i fratelli scomparsi, “andati oltre il bosco”, tornino prima o poi. Il loro sconcerto. Le loro domande senza risposta.
Ljubica è in gita con un gruppo di bambini. C’è il sole, il prato, un ruscello. Si siedono tutti vicini. Una mano bambina le cinge la vita e le sussurra in modo che lei sola possa sentire. “Ecco vedi è qui che sono stata ferita”. La bambina le racconta che con il suo amico facevano a gara a chi arrivava prima al negozio. Che la granata era caduta a un metro da loro e aveva fermato la loro corsa. Che lei si era salvata e solo dopo che era guarita la mamma le aveva detto che il suo amico era morto. Dopo avere fatto vedere a Ljubica le cicatrici sulle gambe e averle raccontato la storia, senza guardarla le chiede: «Ma si deve proprio morire quando sei così piccolo?».
Un giorno, in un gruppo entra un bambino: «La sua testolina ha fatto capolino dalla porta. Chiede che cosa stiamo facendo, perché le sedie sono a semicerchio. Rispondo che parliamo di cose importanti, giochiamo anche. “Entra pure se poi non ti piace puoi uscire”». Il piccolo timoroso entra, ma per sicurezza rimane vicino alla porta. Quel giorno il gruppo parlava della paura che fa fare brutti sogni, ma che poi svegliandosi basta toccare il cuscino per sapere di essere nel proprio letto e sentirsi meglio.«Però io non vivo nella mia casa. Quello non è il mio letto. Neanche il cuscino è il mio. Il mio letto e il mio cuscino sono rimasti a casa», dice il piccolo, che è profugo. «Lo so -risponde Ljubica- purtroppo, bambini, noi non siamo nelle condizioni di potere scegliere quello che ci succederà. Io però penso che ovunque andiamo lì è la nostra casa, il nostro letto, il nostro cuscino. Tu avevi un cuscino che era solo tuo, però quello che hai ora sarà il tuo cuscino finché ci dormirai sopra». Il piccolo continua a guardarla, però non controlla più la porta. Dopo sette giorni, al successivo incontro il piccolo arriva per primo. Seduto con gli altri, si alza orgoglioso e con voce alta e sicura dice: «Ha funzionato, mi ha aiutato… il fatto del cuscino».
Questi sono solo due piccoli esempi tratti dalle decine di racconti.
Sono racconti brevi. Sono poesie. Sono racconti in cui sono protagonisti i bambini, la loro capacità di curare se stessi e gli altri, di andare naturalmente verso la vita. Ljubica compare poco, pochissimo, e quando compare è perché, come nel racconto citato prima, una sua frase è stata di aiuto a ritrovare la speranza e la fiducia.
Si potrebbero scrivere pagine e pagine sulla tecnica usata da Ljubica, sulle modalità adottate per portare piano piano i bambini a incontrare il lutto, a elaborarlo.
Trapelano da ogni pagina un sapere e un saper fare che testimoniano studio, riflessione, apprendimento fatto sulla propria pelle, dal giorno in cui è scoppiata la guerra. Ma soprattutto trapelano una profondità, un’eticità e una vitalità personali, senza le quali le teorie e le tecniche non potrebbero mettere radici e consentire alla vita di riprendere fiato e ricominciare a correre.
Leggendo questi racconti la mente va a tutti i bambini del mondo vittime di guerre.
Quanti sono i bambini che avrebbero bisogno di qualcuno che li ascolti, che lavori con loro, che si prenda cura delle loro domande senza risposta?
Di quante Ljubica avrebbe bisogno il mondo?


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