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Gianni Sofri: Il secolo dei genocidi

11.2.2007, UNA CITTÀ n. 70 / Agosto/Settembre 1998
Il secolo del genocidio degli armeni, della Shoah, della Cambogia e del Rwanda, nonché dei terribili sterminii staliniani, il secolo che sul suo finire ha assistito agli orrori delle pulizie etniche nazionaliste e delle stragi islamiste, si chiude con una speranza: un tribunale internazionale per perseguire i crimini contro l’umanità. Un intervento di Gianni Sofri.

Il 3 luglio, a Bolzano, nell’ambito del Festival "Euro-Mediterranea", si è svolto un Forum sul tema: "L’Europa e i crimini contro l’umanità". Vi hanno partecipato, con Lisa Foa e Gianni Sofri, l’algerina Cherifa Kheddar, i ruandesi Yolande Mukagasana e Gasana Ndoba. Alla ruandese tutsi Mukagasana, insieme alla sua amica hutu Jacqueline Mukansonera (che nel 1994 le salvò la vita) è stato assegnato il Premio Alexander Langer per il 1998.
Il testo che segue è l’introduzione di Gianni Sofri al Forum.

In questi ultimi anni si è tornati a parlare molto del Novecento, per motivi diversi, grandi e piccoli. Intanto, ci si avvia alla fine del secolo, e del millennio, e si è tentati dai bilanci. Libri come Il secolo breve di Eric John Hobsbawm hanno posto un problema di periodizzazione. Per questo autore, si tratta, per l’appunto, di un "secolo breve", che comincia nel ’14 e finisce nell’89: l’arco di tempo che ha visto, soprattutto, ascesa, trionfo e caduta del "socialismo realizzato". Altri hanno espresso dubbi: ogni periodizzazione storica si fonda sulla scelta del tema che si intende privilegiare, ed è da questa scelta che si viene indotti a dare più o meno importanza ai fattori di continuità o di rottura.
Il riparlare del Novecento ha fatto sì che ci chiedesse anche per che cosa questo secolo verrà ricordato quando lo si riterrà ormai parte della Storia moderna, e non più contemporanea, ammesso che valgano ancora queste nostre suddivisioni. Così, per qualcuno, il Novecento è soprattutto il secolo dell’aspirina e della penicillina, della vittoria su alcune grandi malattie (ma anche, a limitare gli entusiasmi, dell’insorgere di nuove terribili epidemie, e del ritorno di altre). Per altri è il secolo dell’Asia, del suo avvento prepotente al centro della scena mondiale. Per altri ancora è l’epoca dei totalitarismi. C’è chi mette in bilancio, affidandogli un ruolo storico fondamentale, il trionfo della velocità nel viaggiare e nel comunicare, che ha rimpicciolito il mondo e ne ha unificato la storia. Potrei continuare, ma qui poco m’importa. M’importa invece che non si dimentichi che il Novecento (visto in questo caso come un "secolo lungo") è stato anche il secolo dei genocidi, e di questo parlerò, per introdurre alla discussione e, soprattutto, alle testimonianze che ascolteremo.

A quanto pare, il termine "genocidio" venne usato per la prima volta nel 1944 da Raphael Lemkin, un polacco immigrato negli Stati Uniti, professore di diritto internazionale alla Yale University. Lemkin, che sarebbe poi stato uno dei protagonisti del grande dibattito postbellico sulla fondazione di una nuova giustizia internazionale, dette del fenomeno una definizione che colpisce ancora oggi per la sua ricchezza e precisione:

Per "genocidio" intendiamo la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico ... In senso generale, genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando esso è realizzato mediante lo sterminio di tutti i membri di una nazione. Esso intende piuttosto designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali, per annientare questi gruppi stessi. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui che appartengono a tali gruppi. Il genocidio è diretto contro il gruppo nazionale in quanto entità, e le azioni che esso provoca sono condotte contro individui, non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale. (Cit. da Yves Ternon, Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo, Milano, Corbaccio, 1997, p.13).

Negli ultimi anni della guerra, e subito dopo la sua fine, ci fu un gran fervore di studi e di iniziative internazionali in questo campo. Il momento era particolarmente emozionante: alla tragica rivelazione dei crimini di guerra nazisti si accompagnava -nelle intenzioni di giuristi, filosofi e politici- una decisa aspirazione a modificare il quadro del diritto internazionale. Si votò una Convenzione sul genocidio e si iniziò a lavorare per la costituzione di un Tribunale internazionale permanente. Poi, con l’avvento della guerra fredda, prevalsero le diffidenze e i timori dei governi, e il lavoro iniziato si affossò gradualmente. L’eclissi sarebbe durata molto a lungo, fino a tempi recentissimi, quando la ripresa di queste tematiche apparve possibile sia a causa della fine del mondo bipolare, sia sulla spinta di nuovi genocidi (la Bosnia, il Ruanda) cui il mondo aveva assistito.

Tornerò alla fine, brevemente, su questi problemi. Per ora, comincerò ricordando i principali genocidi del secolo.
Il genocidio degli Armeni parte con una sorta di prova generale nel 1895-96, sotto il sultano ottomano Abdul Hamid II: 200.000 uccisi. Poi, tra il 24 aprile 1915 e il luglio 1916, quando al governo sono i Giovani Turchi, perdono la vita (perché direttamente sterminati o per gli stenti delle deportazioni) un milione e 200.000 armeni di Turchia su un totale di 1.800.000 (i due terzi).
Sugli Ebrei troverei quasi offensivo per il pubblico soffermarmi in questa sede. Basti ricordare il numero delle vittime della shoah, valutato dai cinque ai sei milioni (più centinaia di migliaia di Zingari).
In Cambogia, tra il 1975 e il 1979, ci sono stati da uno a due milioni di morti, più di un terzo dell’intera popolazione di allora (queste cifre sono, per alcuni studiosi, errate per difetto).
In Ruanda, nel 1994, ci sono stati più di 800.000 morti, in prevalenza tutsi, ma anche hutu moderati e oppositori del regime. Ma il massacro durava, a ondate, da poco dopo l’indipendenza. E il vicino Burundi ha conosciuto vicende affini e spesso altrettanto tragiche.

Possiamo provare a cercare delle costanti in questi e in altri fenomeni almeno in parte assimilabili (Algeria, Bosnia)? Tenterò di farlo servendomi soprattutto di un autore, Yves Ternon, e di un suo libro tradotto recentemente in italiano, e che ho già citato poco fa. Ternon è un medico francese che si è sempre occupato di genocidi, in particolare di quello degli armeni, cui ha dedicato vari libri. I lettori di "Una Città" lo conoscono per avervi letto di recente, nel n. 68, una sua bella intervista.

1. C’è innanzitutto, nei genocidi, la mitizzazione di un gruppo, che si ritiene di volta in volta superiore o "vittima", o le due cose insieme. Si pensi al razzismo nazista, all’idea di una razza pura "ariana" e al carico di colpe immaginarie di volta in volta attribuite agli ebrei, ritenuti responsabili a un tempo del capitalismo e del comunismo. Basti rileggere i "Protocolli dei savi anziani di Sion", o pensare al fatto che agli ebrei vengono "imputati" sia Rothschild sia Marx. Tra i capi della rivoluzione russa, erano ebrei Trockij e Joffe, Kamenev e Zinoviev, Sverdlov e Radek, per non citare che i maggiori. Gli antisemiti videro in questo la prova di un complotto ebraico per rivoluzionare il mondo: Stalin, dal canto suo, li eliminò uno alla volta (c’è, su questo, un libro di Louis Rapoport, La guerra di Stalin contro gli ebrei, Rizzoli, 1991). Nel caso del razzismo nazista, la mitizzazione del gruppo si nutrì anche del revanscismo (del "vittimismo") tedesco dopo la prima guerra mondiale. Questo culto del gruppo (per lo più una "nazione" in atto o in potenza, spesso pronta a elaborare un’ideologia razzista) non si trova solo nella Germania nazista, che pure presenta il caso più da manuale.
Gli armeni vengono deportati e sterminati da un gruppo di politici e militari turchi che vedono il proprio Paese già ridotto all’osso con la perdita dei Balcani in favore di altri imperi o di nuove nazioni, e che sono spaventati da un autonomismo e irredentismo armeno. Ma anche qui c’è il razzismo. Si va dal panturchismo (che oggi ritorna d’attualità), che guarda agli azeri e ai turcofoni dell’Asia centrale, al panturanismo, che intende rinverdire le glorie del mitico eroe eponimo Turan, iniziatore di una razza superiore contrapposta agli Arya.
Nel caso del Ruanda, agisce la coscienza di una contrapposizione etnica tra "dominatori" tutsi e "dominati" hutu, che i colonialisti tedeschi e poi belgi hanno ipotizzato e poi cristallizzato.
Nel caso della Cambogia, interpretato spesso come il frutto dell’aberrazione dell’ "uomo nuovo" comunista, puro e integro, Ben Kiernan ha segnalato anche la forte xenofobia (contro vietnamiti, cinesi e altre minoranze).
E, soprattutto, l’invenzione di due popoli, l’uno vecchio, contadino, integro, e l’altro nuovo (ma questa volta in senso cattivo) perché inquinato e reso infetto -quindi da sterminare o da curare con la rieducazione forzata- dal contatto con l’esterno, la modernità, l’Occidente. (Il bel libro di Ben Kiernan, assai ponderoso, si chiama The Pol Pot Regime: Race, Power, and Genocide in Cambodia under the Khmer Rouge, 1975-79, Yale University Press, 1996; quest’anno ne è uscita anche, presso Gallimard, una traduzione francese.)
C’è un rapporto tra Cambogia e Algeria, al di là del fanatismo e del piacere del sangue.
Anche in Algeria c’è, nei gruppi integralisti armati, una difesa dell’arabo algerino integro contro quello che si è, sia pure in parte, emancipato, modernizzato, occidentalizzato. L’odio per le antenne paraboliche è il pendant algerino della distruzione sadica degli occhiali -simbolo di cultura- in Cambogia. E in Algeria come in Cambogia c’è l’invenzione, a suo modo razzista, di una parte di società con cui non si tratta, che va solo sterminata. Una guerra santa contro una parte del proprio corpo sociale.

2. I genocidi, dice Ternon, sono "di Stato". Richiedono comunque una minoranza assai determinata nella sua intenzione criminale, che si dota di un piano accuratamente concertato e lo mette in atto metodicamente.
Questo vale per il partito-Stato nazista, per il partito turco Unione e Progresso (al governo durante la prima guerra mondiale), per l’Angkar cambogiano, per l’autoproclamatosi governo serbo di Bosnia, per il governo e l’esercito ruandesi del 1994, per il GIA algerino.

3. Essi richiedono però anche uno strumento propagandistico molto forte, per il quale soccorrono storici, linguisti, esperti di comunicazioni di massa come li chiameremmo oggi. La propaganda, a sua volta, ha bisogno dell’invenzione o ricostruzione di una storia spesso solo leggendaria o mitica, della sistemazione di una lingua, dell’attribuzione di intenzioni aggressive (di una "minaccia") a un nemico. Nel caso della ex-Jugoslavia, come ci ha spiegato Federico Bugno, si è prestata molta attenzione a diversificare quella lingua che si chiamava un tempo "serbocroato", ed era comune. Nel caso ruandese, dopo che intellettuali e politici avevano proiettato assai indietro nel tempo l’ostilità tra tutsi e hutu, scavando un fossato tra i due gruppi, una radio (la Radio Mille colline) ha provveduto con inaudita violenza a incitare alla mattanza dei tutsi la popolazione della "razza maggioritaria" hutu.

4. Richiedono, ancora, una manodopera di massa, una collaborazione a vasto raggio, perché un genocidio è un lavoro duro e difficile. Questa manodopera di massa viene conquistata dalla propaganda, che instilla sapientemente odii e paure. Ma anche dal giocare su piccoli interessi. Contadini turchi e pastori curdi massacrarono gli armeni per entrare nelle loro case e impadronirsi delle loro povere suppellettili. In Cambogia, mi dicono oggi, ciò che fa più impressione è il rendersi conto che nelle strade e nei villaggi si costeggiano silenziosamente (e sono reciprocamente noti) massacratori e scampati.

5. Depistaggi, mistificazioni, negazionismi e revisionismi fanno parte fin dall’inizio della storia dei genocidi. Il genocidio degli Armeni comincia solo ora a essere riconosciuto in qualche occasione ufficiale (non certo dal governo turco). E per decenni ebbe corso la leggenda del loro tradimento, di loro inesistenti accordi con i russi, ecc. Persino notissimi studiosi hanno contribuito a questo silenzio. Posso fare un esempio. Il tedesco G.E. von Grunebaum è stato, ed è, considerato da molti un "grande" storico del mondo islamico. Se prendete in mano il suo volume L’Islamismo, II, nella Storia universale Feltrinelli-Fischer (1971-72), e cercate nella Cronologia finale, troverete soltanto questa frase: "1890-1897. Movimento rivoluzionario armeno. Massacro di funzionari ottomani da parte di gruppi rivoluzionari." Nel testo, alle pagg. 135-136, si parla di attività terroristiche di bulgari, greci, serbi e armeni, volte a disgregare l’impero ottomano e a "provocare la repressione allo scopo di costringere gli Europei a intervenire". Si ironizza sul fatto che in Europa si parlasse a ogni piè sospinto di brutalità della polizia e di massacri. Arrivati alla prima guerra mondiale (pagg.149-150), si parla di "tradimento dell’impero da parte delle sue minoranze arabe, armene e balcaniche", e (dulcis in fundo) si afferma che i nazionalisti non fecero "alcun tentativo di perseguitare o turchizzare i rimanenti gruppi non turchi, dei quali i più numerosi erano gli Armeni, i Curdi e gli Ebrei." Nient’altro. Più di recente, persino uno storico davvero insigne del mondo arabo e turco, Bernard Lewis, è stato condannato da un tribunale francese per aver negato il genocidio degli Armeni.
Nel caso del Ruanda, prima e più che per il genocidio dei tutsi, l’opinione internazionale si commosse per la sorte sventurata dei profughi hutu: povera gente che moriva di fame nei campi, ma al cui interno, terrorizzandola (e gestendo mafiosamente gli aiuti internazionali), si nascondevano i massacratori hutu. Quella dei khmer rossi in Cambogia passò a lungo per essere una rivoluzione democratica, dopo la dittatura di Lon Nol. E in Algeria (e fuori dall’Algeria) si attribuisce da molti al governo -del quale io sono ben lungi dal negare le responsabilità gravissime, antiche e recenti- la paternità dei massacri. Così, il non poter più indicare con facilità (solo apparente, com’è ovvio) i buoni e i cattivi, finisce per decolpevolizzare i massacratori. La stessa cosa avvenne con i serbi di Bosnia.

6. C’è un ruolo dell’economia. In un Ruanda o in una Cambogia ricche, in un’Algeria non travolta dal fallimento economico e sociale, anche i massacri sarebbero stati quanto meno più difficili. Fame e miseria aiutano la ricerca di capri espiatori. Nella stessa Germania degli anni venti e trenta, certo non paragonabile ai Paesi che ho appena nominato, la crisi economica recitò tuttavia un ruolo importante.

7. C’è, molto spesso, di mezzo anche una guerra. Questo vale per gli armeni nel 1915-16, vale per la Shoah, vale per la Cambogia all’uscita dalle guerre d’Indocina, vale per la ex-Jugoslavia (e, aggiungo, per le molte, sanguinose deportazioni di massa eseguite durante le due guerre mondiali: soprattutto, da Hitler e da Stalin, durante la seconda di esse).

8. Anche la religione ha un suo ruolo. Si pensi, ovviamente, agli ebrei, ma anche all’Algeria e alla Bosnia. Gli armeni erano un’isola cristiana in un mare musulmano. Inoltre, essendo cristiani monofisiti, non avevano protettori in Europa (fra cattolici o luterani) né a Mosca (fra gli ortodossi). Ma, attenzione. Hutu e tutsi sono entrambi, in buona parte, cattolici (e le responsabilità della Chiesa sono considerate, in questo caso, assai gravi). I Giovani Turchi erano laici, ma non esitarono e sventolare anche la bandiera dell’islam.

9. E c’è, infine, la geopolitica. Nei Balcani si voleva (e molti vogliono ancora) una Grande Serbia mai esistita. La presenza di un possibile Stato armeno avrebbe impedito ai turchi di congiungersi ai turcofoni azeri e dell’Asia centrale. Durante la seconda guerra mondiale, vaste aree dell’Europa centro-orientale vennero svuotate dei loro abitanti slavi per creare il Lebensraum voluto da Hitler. Stalin praticò un’analoga politica di deportazioni forzate di intere popolazioni, soprattutto nel corso della guerra, quando trasferì in Asia centrale e in Siberia un milione e 200.000 tedeschi del Volga (ivi stanziati da due secoli) e di altre regioni dell’Urss; nonché Tatari di Crimea, Calmucchi, Ceceni e Ingusceti, ecc. Tra gli ultimi mesi della guerra e il 1947, dodici milioni e mezzo di tedeschi si rifugiarono in Germania occidentale, abbandonando borghi, quartieri e case che avevano abitato per secoli nell’Europa centro-orientale (dall’Ungheria alla Polonia, dalla Cecoslovacchia alla Romania, alla stessa Russia), per sfuggire all’Armata rossa e alla nuova situazione politica di quell’area. Non a caso, i due milioni di tedeschi tuttora presenti nell’ex-Urss, ultimo residuo di una ben più vasta, qualificata e rispettata presenza, si trovano oggi quasi tutti nel Kazakistan, nel Kirghizistan e in Siberia, essendo stato loro sempre vietato -a differenza di altri popoli deportati- di ritornare e di ricostituire la loro repubblica autonoma del Volga.
Non parlerei invece tanto di geopolitica, quanto di egoistici, volgari, meschini interessi di politica internazionale in altri casi: per esempio nel silenzio colpevole con cui Cina e Stati Uniti coprirono a lungo i khmer rossi, o la Francia i massacri ruandesi. (Anche della Shoah, dello sterminio degli ebrei, molto si sapeva durante la guerra, e nulla, o quasi, si fece.)

Non tutti insieme questi caratteri (e non solo questi caratteri) costituiscono e permettono un genocidio. Nel caso dell’Unione Sovietica in epoca staliniana, studiosi tutt’altro che sospetti di simpatie per il comunismo sono piuttosto restii a usare il termine di genocidio in senso proprio, e preferiscono parlare piuttosto di un’attività genocidaria strisciante e prolungata. Le difficoltà interpretative restano infatti numerose e profonde: per alcuni momenti, come quello del Grande Terrore del 1936-38, è persino difficile individuare con relativa precisione i gruppi sociali colpiti. E’ quindi comprensibile che Ternon, per esempio, preferisca riservare semmai il termine a singoli episodi come il genocidio ucraino del 1932-33, ottenuto (caso unico nella storia!) mediante una carestia indotta e pianificata dall’alto. Ma questi sono problemi ancora oggetto di discussione tra gli specialisti.
Io ho inteso qui solo indicare alcuni caratteri frequenti nei genocidi perché credo che essi permettano di capire meglio come questi tragici fenomeni storici siano stati e siano tuttora possibili; e anche di capire perché sia così difficile (e tuttavia non impossibile) prevenirli e punirli. Il diritto all’intervento si è fatto strada nella coscienza comune, anche se la sua attuazione risente della crisi del quadro politico internazionale e delle grandi istituzioni, a cominciare dall’ONU. In questi giorni, a Roma, una conferenza internazionale sta faticosamente cercando di porre le basi per la formazione di un Tribunale internazionale permanente contro i crimini di guerra, i genocidi, i delitti contro l’umanità. Può essere un passo importante.
Ma è altrettanto importante che la discussione su questi temi prosegua, e che ci si liberi, a destra come a sinistra, da una serie di luoghi comuni, strabismi e schizofrenie. Vediamo ancora la destra vagare fra dichiarazioni di fallimento della decolonizzazione, nostalgia delle cannoniere, egoismi Realpolitik e spalle alzate nel gesto di chi pensa: "Che si ammazzino pure tra di loro".
Gli egoismi Realpolitik trovano cittadinanza anche a sinistra, alternandosi con altri atteggiamenti contraddittori: da un lato, la tendenza a colpevolizzare, sempre e comunque, l’imperialismo, gli Stati Uniti ecc.; dall’altro, quando invece l’imperialismo non fa nulla, a levare alti lai sulle inadempienze e le responsabilità dell’Occidente. Mi sembra chiaro che c’è ancora molto da pensare e da discutere.
Poscritto, fine agosto 1998.
1. La tragedia ruandese continua, malgrado l’apparente, relativa stabilizzazione. Sono proseguiti i massacri di tutsi ad opera di incursioni di bande hutu nel Ruanda, provenienti per lo più dal vicino Congo. E non sono mancate le spedizioni punitive di segno opposto.
Inoltre, l’intero equilibrio dell’Africa centrale e centro-meridionale appare oggi minacciato dalla guerra civile (ma con l’intervento più o meno aperto -dall’una o dall’altra parte- di altri Paesi: Ruanda, Uganda, Angola, Zimbabwe) nel Congo ex-Zaire. Va segnalato che tra gli iniziatori e i protagonisti di questa nuova guerra civile troviamo i tutsi banyamulenge della regione congolese del Kivu.

2. La Conferenza di Roma, il cui successo mi auguravo al termine del mio intervento a Bolzano, si è conclusa il 17 luglio, con la firma di un trattato che istituisce una Corte penale internazionale (CPI) permanente, che avrà sede all’Aia. I lavori erano iniziati il 15 giugno, sotto la presidenza dell’ex-ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale Giovanni Conso. Vi hanno partecipato 160 Stati, ma anche (novità di grande interesse) 256 Ong, come Amnesty International e il Partito radicale, che avevano già esercitato un ruolo importante (così come nelle discussioni in ambito ONU sulla pena di morte) nei tre anni di preparazione della Conferenza. I lavori si erano rivelati da subito molto difficili, fino a raggiungere una impasse che aveva fatto temere il fallimento, poi superata grazie a un compromesso nel quale la delegazione canadese ha giocato un ruolo fondamentale. Va detto che anche il ruolo del governo italiano è stato importante.
In buona sostanza, lo scontro era fra i fautori di una indipendenza pressoché totale della Corte (sia dagli Stati, sia dal Consiglio di sicurezza dell’ONU) e i difensori delle prerogative dei singoli Stati. Fra i primi, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Gran Bretagna, la Germania, gli Stati dell’Europa settentrionale e l’Italia (ma anche, in un secondo tempo, molti Paesi africani). A capeggiare invece la difesa della sovranità degli Stati, gli Stati Uniti, dove l’atteggiamento più possibilista della Presidenza si era scontrato -uscendone sconfitto- con l’opposizione del Pentagono e del Congresso. L’argomento addotto dagli Stati Uniti era -ed è- costituito dal rischio che le proprie "responsabilità internazionali" ponessero continuamente a repentaglio soldati americani impegnati sui diversi teatri del mondo. Anche la Francia è parsa a lungo condividere questa preoccupazione -sotto una forte pressione dei militari-, ma se ne è poi almeno in parte staccata, per schierarsi con gli altri Stati europei. Tra i maggiori oppositori della Corte troviamo anche Cina, Israele, Iraq, Libia, Sudan, Cuba, Birmania, Iran. Ancora una volta, quindi, come già per il Trattato di Ottawa sulle mine antiuomo e per le Conferenze in ambito ONU sulla pena di morte, gli Stati Uniti si sono trovati a far parte di uno schieramento a dir poco paradossale.
Alla fine, un testo è stato adottato, a voto segreto, da 120 dei 160 partecipanti. I voti contrari sono stati 7, gli astenuti 21, mentre 12 Stati non hanno partecipato al voto finale. Gli Stati Uniti, che hanno annunciato il proprio voto contrario, non aderiranno per ora al Trattato.
La Corte penale internazionale disporrà di 18 giudici eletti fra gli Stati membri. Entrerà in vigore quando 60 Stati avranno ratificato il Trattato (operazione che in molti casi richiederà revisioni costituzionali): si suppone che possa installarsi all’Aia e iniziare i suoi lavori nell’arco di tre o quattro anni. La pena massima prevista è la reclusione di 30 anni o, nei casi più gravi, a vita. La pena di morte è stata invece esclusa.
La Corte avrà giurisdizione su quattro categorie di reati: genocidi, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e il crimine di aggressione. All’interno delle prime tre categorie sono stati elencati con precisione numerosi crimini. Per esempio, l’accusa di genocidio comprende anche le attività volte a privare una popolazione della propria identità culturale, e le sterilizzazioni forzate; mentre sotto la categoria dei crimini contro l’umanità troviamo, fra l’altro, schiavitù, tortura, deportazioni, stupri etnici e "gravidanze forzate". Tra i crimini di guerra non si parla, almeno esplicitamente, dell’uso delle atomiche e delle armi chimiche e batteriologiche. Quanto al crimine di aggressione, se ne è rinviata la definizione a una fase successiva (è prevista una nuova Conferenza internazionale di revisione fra sette anni).
Si è molto discusso sulle funzioni del Procuratore. Egli potrà avviare un’inchiesta per propria iniziativa o su segnalazione di uno degli Stati membri della Corte o di una ONG. Tuttavia, dovrà essere sempre autorizzato dal parere di una Camera preliminare di giudici. Inoltre, il Consiglio di sicurezza potrà sempre bloccare una sua inchiesta per il tempo di 12 mesi, rinnovabili.
L’inchiesta del Procuratore potrà svolgersi solo nei confronti di cittadini di Stati aderenti alla Corte, o autori di reati commessi in Stati aderenti alla Corte. Inoltre, si è stabilita una complementarità della giurisdizione della Corte penale internazionale con quella dei singoli Stati (di fatto, un primato di quest’ultima): la Corte potrà infatti intervenire solo quando il singolo stato interessato non intenda o non sia in grado di procedere per suo conto. Infine, a limitare ulteriormente il potere del Procuratore e della Corte, si è stabilito il principio dell’opting-out, vale a dire il diritto di ogni stato firmatario di sottrarsi per sette anni, se lo chiede, alle obbligazioni del Trattato. Gli Stati Uniti avrebbero voluto estendere questa clausola anche ai crimini contro l’umanità, ma la Conferenza l’ha approvata solo per i crimini di guerra.
Questo insieme di limiti formali (cui si unisce il grave limite politico dell’assenza, quanto meno iniziale, di alcuni Stati, in particolare degli Stati Uniti) ha fatto parlare nei commenti successivi alla Conferenza di una gracilità di fondo della nuova istituzione internazionale votata a Roma. Si è parlato di "bicchiere mezzo pieno" o "mezzo vuoto". I pessimisti hanno segnalato come, secondo le regole adottate, Pol Pot o Saddam Hussein o Milosevic non potrebbero essere inquisiti, se solo i loro governi non aderissero al Trattato (mentre Milosevic può essere indagato dal Tribunale dell’Aia sui crimini nell’ex-Jugoslavia, che come il suo omologo africano di Arusha in Tanzania, essendo stato voluto e insediato direttamente dal Consiglio di sicurezza, ha poteri assai più ampi della nuova Corte). Gli ottimisti insistono invece sul fatto che si è trattato di un primo passo, di alto valore morale e pedagogico, e destinato ad aprire una strada importante: molti particolari, di sostanza e procedurali, andranno ancora chiariti e sperimentati. E’ interessante notare che la divisione fra pessimisti e ottimisti non si identifica con quella tra le ONG e i governi, e che spesso si tratta di sfumature. Il Partito radicale, per esempio, si è espresso con più ottimismo, e Amnesty con più pessimismo. Ma nessuno ha considerato il lavoro svolto inutile o fallimentare; nessuno si è sentito di negarne l’importanza. Al contrario, con misure diverse di entusiasmo, è stata pressoché unanime la soddisfazione per un passo che ha degnamente celebrato i cinquant’anni della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e quelli della Convenzione internazionale contro il genocidio. I molti che avevano lavorato alla preparazione della Conferenza (usando, va ricordato, la grande esperienza maturata dai Tribunali ad hoc dell’Aia e di Arusha) erano animati dalla speranza di poter un giorno punire e, soprattutto, prevenire i genocidi e i crimini contro l’umanità. Toccherà ora alle volontà politiche dare corpo ed efficacia alle possibilità che la Conferenza e il Trattato di Roma hanno aperto.

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