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Marcello Flores: Memoria e storia

22.2.2008, UNA CITTÀ n. 136 / febbraio 2006
Le memorie che non possono essere condivise e che non possono essere confuse con la verità storica. Le colpe esistono e vanno individuate. L’esempio sudafricano dove la politica ha la meglio sulla giustizia ma dove la riconciliazione pretende la verità. L’esperienza della Storia dell’altro, un percorso condiviso di approssimazione alla verità storica. Le pericolose sovrapposizioni storiche. Intervista a Marcello Flores.

Marcello Flores insegna Storia contemporanea e Storia comparata alla facoltà di Lettere dell’Università di Siena, dove dirige anche il Master in Human Rights and Humanitarian Action. Ha pubblicato, tra l’altro: Il secolo-mondo. Identità e globalismo nel XX secolo, il Mulino 2002; Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Bruno Mondadori 2001. Recentemente è uscito Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli 2005.

Recentemente si è tornati a parlare della pensione ai repubblichini, così equiparandoli ai combattenti della guerra e della Resistenza. Non c’è il rischio che una certa idea delle “due storie” sfoci in quella di “due verità”?
In questi ultimi mesi il dibattito sul revisionismo storico è tornato all’attenzione generale non solo in Italia, dove ha avuto una particolare declinazione, ma anche in Europa. In Francia si è incentrato sulla possibilità (che il governo proponeva e che poi ha ritirato) di portare nelle scuole un di-scorso che valorizzasse gli aspetti positivi del colonialismo. Questo provvedimento era il frutto di tensioni ideologiche, sociali e culturali presenti nel tessuto francese odierno, in cui una parte intendeva superare il complesso di colpa coloniale rivendicandone gli aspetti positivi. In Cecoslovacchia c’è stata la legge sui crimini del comunismo e la revisione del giudizio storico sul comunismo. In Germania, nel centenario del genocidio degli Herero, il governo tedesco è stato accusato di non aver avuto il coraggio di andare fino in fondo nell’assumersi delle responsabilità in quanto Nazione, in quanto Stato, su quello che era successo. Fuori dall’Europa, in Cina, ci sono state le grandi manifestazioni contro il Giappone e il suo richiamo nazionalistico agli “eroi” di guerra -alcuni dei quali condannati come criminali di guerra. Per non parlare di altre tensioni continue, per esempio in India tra musulmani e indu che hanno sempre dei riferimenti storici molto precisi. O ancora il dibattito revisionista in Israele sulle origini dello Stato e sulla concomitante cacciata dei palestinesi dal loro territorio.
Nell’ambito di una tendenza diffusa a rivedere il passato, in Italia questo tipo di polemiche si sono focalizzate su fascismo, guerra e Resistenza, periodo post-bellico.
In quest’ottica si sono fatti dei tentativi, probabilmente spinti da buone intenzioni (a suo tempo Violante parlò “dei ragazzi di Salò” auspicando una memoria comune), ma sbagliati proprio come impostazione. Memorie comuni infatti non solo non possono essercene, ma è giusto che non ce ne siano. E’ come chiedere agli individui di abdicare alla propria memoria per appropriarsi di quelle di altri, o di trovare un compromesso con quelle del proprio vicino.
La vera sfida era e resta invece quella di arrivare alla rivendicazione di valori comuni, che per il nostro Paese sono quelli presenti nella costituzione, che potevano essere accompagnati da un abbandono oppure da uno smussamento delle contrapposizioni ideologiche.
La spinta a una pacificazione delle memorie ha invece finito per mettere sullo stesso piano storico componenti diverse: responsabili e vittime, chi ha iniziato la guerra e chi invece l’ha subita, chi ha vinto e chi ha perso, come se sulla base di soli criteri morali -chi è morto e chi è sopravvissuto, chi ha sofferto e chi no- si potesse applicare una nuova visione del passato.
Nel caso poi dei fascisti repubblichini c’è stato il tentativo di parificarli -addirittura sul piano giuridico, provvedimento aberrante e assolutamente anticostituzionale- ai combattenti della guerra e della Resistenza per ottenere dei risultati materiali, tangibili, oltre che una sorta di restituzione del loro onore di combattenti.
Ecco, il problema, a me pare, è questa continua sovrapposizione di piani diversi, per cui a volte si parla di storia e si intende la memoria o viceversa e così tutto diventa utilizzabile strumentalmente per l’obiettivo polemico immediato.
Memoria e storia sono delle materie assolutamente complesse, difficili, contraddittorie a volte, che vanno maneggiate con cura. Il che non significa che devono essere maneggiate solo dagli addetti ai lavori, per carità. Anche perché gli storici sono stati in prima fila in queste polemiche, spesso aizzandole o parteggiando per l’una o per l’altra. Sarebbe auspicabile una maggiore riflessione e pacatezza proprio nel discernere i piani differenti che non possono essere confusi tra loro.
Però è anche vero che in una situazione di carenza di identità collettiva questo emerge con maggiore forza e naturalezza e quindi la confusione è enorme.
La mancanza di un’identità collettiva, nazionale e comunitaria forte, l’assenza anche di forti identità nei due schieramenti politici principali e nelle loro componenti (tutti alla ricerca appunto di un’identità), rende la storia e la memoria un sorta di supermercato nei cui banchi muoversi per cercare di tirar fuori quello che può essere più utile sul momento.
Nella provincia di Forlì è sorta una polemica attorno al Museo dell’Idea di Romagna, la cui sede dovrebbe nascere presso la Rocca delle Caminate, donata nel 1927 al “capo del Governo” Benito Mussolini e nei cui sotterranei vennero torturati dei partigiani.
La polemica sorta intorno al Museo dell’Idea di Romagna riguarda il significato simbolico che quel luogo ha avuto durante il fascismo ma anche durante la Resistenza come prigione e sede di torture per i partigiani. La contestazione, che mi sembra assolutamente legittima, si riferisce inoltre all’intenzione di costruire un museo basato su un’idea di identità locale promossa da autorità pubbliche, esperimento che nella storia ha sempre dato dei risultati particolarmente nefasti sul terreno della convivenza con le altre identità che non possono che essere presenti, tanto più in un mondo sempre più globalizzato come il nostro. Qui non si tratta infatti di evidenziare nella storia quelle che possono essere state le caratteristiche di un paese, di una qualche cultura, ma di scovare, un po’ artificialmente, una dimensione chiaramente autonoma rispetto alle altre, casomai sottolineandone aspetti che sono in realtà difficilmente individuabili come appartenenti a una sola cultura (pensiamo alla cucina, alla gastronomia in un Paese che ne ha tante che si sovrappongono e si rincorrono nel tempo).
Anche questo è il segno, credo, di una forte crisi di identità collettive che spinge a ripensarne, ricostruirne di nuove. Chi lo fa nel modo forse più ovvio oggi, e anche meno pensato, più automatico, sono i media. Ma anche tra gli schieramenti politici, in nome di un’identità collettiva, si gioca molto su un piano di strumentalizzazione ideologica. A questo proposito andrebbe ricordato lo sforzo che è stato fatto nel corso del suo settennato dal presidente Ciampi, di ritrovare invece una più forte identità nazionale, sulla base però solo di alcuni momenti simbolici, la bandiera e l’inno nazionale, quindi estremamente debole.
Gli effetti combinati della globalizzazione, che tende a moltiplicare e affiancare le tante identità presenti nel mondo moderno, e la fine di quelle identità che si erano costruite nel passato portano allora alla crisi odierna. Oggi la debolezza di un’identità collettiva coesiste con la presenza sempre più massiccia di un multiculturalismo di fatto.
Di qui la ricerca di identità per le quali si va anche molto per le spicce, come se la costruzione di emozioni e di simboli non fosse anch’esso un percorso complicato e lungo.
Esiste anche una tendenza a voler vedere in tutti i conflitti una guerra civile in cui aggressori e aggrediti hanno pari responsabilità, per cui non resta che il perdono e l’azione umanitaria. Questo è vero in particolare per la Chiesa.
Rispetto alla questione delle guerre civili, va intanto precisato che non sono tutte uguali. Io credo che si possa parlare, per l’Italia, di una guerra civile alla fine della seconda guerra mondiale, che è però molto diversa da quella che è stata la guerra civile spagnola.
Si può parlare anche (ma non solo) di guerra civile nella ex Yugoslavia. Quasi tutti i conflitti moderni vedono infatti una compresenza di categorie diverse. Ed è vero comunque che nelle guerre civili c’è una quota di vittime chiamiamole “innocenti” da entrambe le parti, così come c’è una violenza eccessiva da entrambe le parti. Però, attenzione, questi elementi non vanno considerati come dati equivalenti che si elidono a vicenda. Oggi certo è più complicato fare una semplice valutazione di responsabilità, di colpe, però queste sono tutte presenti e vanno individuate.
La tendenza a una riconciliazione che stende un velo è forte anche per ragioni pragmatiche: spesso viene vista come la maniera più spiccia per disinnescare i contrasti, le tensioni, i conflitti. Inoltre è anche l’opzione maggiormente auspicata dalle religioni, nel caso specifico dalla Chiesa cattolica, perché è un modo di destoricizzare quello che è avvenuto, portando su un terreno di comportamenti etici e atteggiamenti morali quello che invece è stato il risultato di un preciso percorso storico.
La Chiesa, che in alcune situazioni, anche recenti, è stata direttamente coinvolta, le chiese locali intendo (pensiamo sia alla Yugoslavia, sia al Rwanda, e allo stesso Sudafrica), tende dopo a spostare tutto su un piano che non è più quello concreto della storia, ma è quello della morale. A quel punto, attraverso il perdono, che diventa il concetto che dovrebbe sostituire la riconciliazione, si pensa di poter risolvere il problema.
Ora, il perdono è in genere una questione individuale. E’ giusto che si facciano questo tipo di operazioni da parte di esponenti pubblici, ma hanno un valore più che altro simbolico-propagandistico di riconoscimento necessario di colpe proprie o dei governi del passato. Su questa delicata questione del perdono e della riconciliazione bisogna poi dire che non risolve il conflitto di memorie e di visioni della storia.
Non è un caso che molte delle commissioni post-conflitto si sono arenate proprio nel fare i conti col passato, con la storia, perché è il compito più difficile e il più complicato. Nella stessa ex Yugoslavia probabilmente è molto più facile arrivare a definire dei confini che non fare i conti con la storia, con le responsabilità sul terreno storico, o riconoscere all’altra parte una pari dignità e così via.
Da questo punto di vista allora il problema è come far sì che memorie diverse diventino il terreno per arrivare a storie ancora diverse, ma che si confrontino e che possano sfociare in una storia più unitaria sul terreno dei fatti, rimanendo casomai più problematica sul terreno delle interpretazioni.
In questo senso l’esperienza de La storia dell’altro. Israeliani e palestinesi è significativa perché le memorie contrapposte erano tanto forti da rendere impossibile arrivare a una storia unica. La scrittura di storie diverse però ha permesso di depurare un po’ il racconto, la narrazione dall’emotività delle memorie. Nello stesso tempo la possibilità di leggere e confrontarsi continuamente con la storia dell’altro permette di ipotizzare, sul terreno dei fatti, dei singoli eventi, una cronologia comune a cui si possono ancora accompagnare ovviamente memorie molto diverse, ma che dovrebbero dar luogo a una storia in cui è contemplata un’interpretazione differente, ma non la negazione.
Anche perché la storia quando è tale, cioè quando riesce a comprendere cos’è stato il passato, deve tener conto di tutti gli aspetti, anche soggettivi, dei diversi attori in campo e non può, come fa la memoria, pensare solo al proprio.
Nelle memorie invece è legittimo che in un caso sia presente solo la costruzione dello Stato di Israele e nell’altro solo la cacciata dai territori della Palestina, perché per quel gruppo quello è l’elemento fondante della memoria, che non ha necessità di confrontarsi con altro che con se stessa.
Perché in Sudafrica l’operazione nata con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha funzionato?
Effettivamente quella sudafricana è l’unica esperienza in cui questo equilibrato bilanciamento di tutte le verità di una parte e dell’altra (e però anche delle diverse responsabilità, molto differenziate, con un peso molto diverso) ha avuto successo.
Mi sembra che la sua riuscita vada individuata proprio nel fatto che il discorso della riconciliazione e della pacificazione nazionale fin dall’inizio è stato strettamente legato alla necessità di far emergere e raccontare la verità storica in tutti i suoi aspetti.
E’ stata la volontà di puntare sulla verità che ha fatto emergere le verità scomode dei vincitori, dei combattenti contro l’apartheid, cioè le violenze e violazioni dei diritti che avevano compiuto nel corso della loro giustissima e sacrosanta battaglia. Mi pare che questo tipo di riconoscimento della verità sia invece spesso assente, se non come dichiarazione di principi.
C’è come un equivoco di fondo. Cioè è vero che tutte le memorie sono legittime in quanto memorie, ma non tutte, come storia, sono credibili e verosimili o addirittura veritiere.
Ecco, questo passaggio non è assolutamente automatico: possono benissimo esserci oggi le memorie dei sopravvissuti, dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana che hanno un vissuto che può essere anche di vittime, di patriottismo, di amore per la Nazione, di tanti valori positivi. Questa memoria però dev’essere accompagnata da una verità storica che è quella del ruolo che ha avuto la Repubblica Sociale, delle azioni violente e criminali che ha compiuto, in proprio o assieme ai nazisti.
Questa è l’unica possibilità per cui il risorgere della memoria avvenga assieme a un consolidamento della verità storica e anche del dibattito storiografico, perché, ripeto, le interpretazioni della storia non possono mai essere unificate in un unico canone. Questa è l’unica cosa che può permettere di affrontare il passato e metterlo in relazione con i valori comuni positivi a cui si vuol fare riferimento. I quali però credo ci siano, è che sono deboli dal punto di vista della trasmissione simbolica ed emotiva.
Noi abbiamo a livello internazionale la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, a livello italiano, la Costituzione della Repubblica italiana, entrambe dello stesso anno, formalizzate nel ’48; credo siano due strumenti più che sufficienti a dare una forte connotato identitario alla comunità italiana inserita in una comunità internazionale e globale. Questi mancano però di efficacia, problema che non credo sia risolvibile con l’inno nazionale o la bandiera.
In Sudafrica sembra sia prevalso l’aspetto della politica su quello della giustizia formalmente intesa.
In Sudafrica c’è stato un ruolo forte, in qualche modo quasi autoritario (anche se solo sul piano carismatico) della politica. Si è deciso di sottomettere la giustizia, cioè il fare i conti con i casi individuali, con le ingiustizie del passato, alla logica dell’interesse nazionale, che in quel momento era rappresentata soprattutto dall’esigenza di riconciliazione e di emersione della verità. Ecco, quell’obiettivo, che era un obiettivo politico, ha preso il sopravvento e quindi ha messo in qualche modo tra parentesi l’andamento ordinario e normale della giustizia.
Nel far questo si è avuta anche la forza, il coraggio, per proporre un metodo, che più che alternativo, è “integrativo” della giustizia retributiva i cui limiti, soprattutto a livello internazionale, sono oramai sotto gli occhi di tutti. Basti guardare al processo di Milosevic all’Aja, al Tribunale internazionale per il Rwanda, al processo a Saddam Hussein, anche se è tutta un’altra cosa.
Queste modalità tradizionali risultano infatti sempre meno rispondenti alla necessità di giustizia, ma anche di informazione e conoscenza della verità storica, che ci si aspetta da un procedimento giudiziario.
Esistono altri esempi in giro per il mondo?
Ce ne sono. Quanto stiano funzionando è ancora un po’ presto per dirlo. Un po’ perché a volte questi strumenti fanno parte degli “accordi” e quindi sono visti dalle due parti, o da una delle due, come una condizione imposta. Poi molti di questi paesi sono in una situazione di transizione. E’ stato anche il caso del Sudafrica, dove però il nuovo potere aveva una legittimazione democratica fortissima -quella che in altre realtà non sempre è presente.
In Italia a che punto siamo?
In Italia purtroppo si sconta tutta la costruzione che c’è stata negli anni. Prendiamo ad esempio il problema messo in evidenza dagli ultimi libri di Pansa. Questi libri sostanzialmente raccontano cose vere, su cui realmente per tantissimo tempo si era steso un silenzio. Anche se poi c’erano stati una serie di studi e analisi, rimasti abbastanza circoscritti e conosciuti da storici. Da questo punto di vista, per motivi anche comprensibili magari, Pansa ha voluto sottolineare la novità di questa verità e informazione che sarebbe stata, non solo nascosta e minimizzata, ma addirittura cancellata. E già questo è un elemento che provoca, come era successo per le foibe, dei conflitti più sottili. Per molti oggi il problema è diventato, non il riconoscimento di quello che è avvenuto, di quei dati di fatto portati e raccontati, ma il silenzio che c’è stato in mezzo.
Ma voler recuperare una verità attraverso la messa sotto accusa di chi quella verità ha contribuito a tacere o emarginare, rende le cose complicate, perché sono due verità diverse che non possono essere messe assieme. E’ contraddittorio e ingiusto, proprio sul terreno storico, attribuire a chi per esempio ha contribuito a quel silenzio una colpa che si riverbera sui fatti precedenti. Io vedo questa continua sovrapposizione di soggettività successive all’elemento oggettivo dei fatti, della storia che si andava a ricostruire. Questo è ciò che rende difficili le cose.
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