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Yael Danieli: La cospirazione del silenzio

1.2.2000, UNA CITTÀ n. 83 / Febbraio 2000
Il silenzio e l’indifferenza che fanno più male della persecuzione. Il trauma che infetta l’individuo, ma anche la famiglia, il vicinato, una nazione. L’importanza del risarcimento, della restituzione, della riabilitazione, della commemorazione. Parlare e raccontare è la condizione fondamentale per ogni ricostruzione. L’intervento di Yael Danieli ad un convegno a Tuzla su "trauma e memoria".

Yael Danieli, psichiatra, dirige il "Group Project for Holocaust Survivors and their children" di New York, da lei co-fondato nel 1975. E’ stata presidente della Società internazionale per gli studi sugli stress da trauma, di cui è ora coordinatrice internazionale e rappresentante alle Nazioni Unite. E’ stata tra l’altro consulente all’Istituto nazionale per la Salute Mentale degli Usa, per l’Unicef, per l’ufficio dell’Alto commissariato per i diritti umani. Prima di trasferirsi negli Usa per conseguire il Dottorato in Psicologia (con una tesi dal titolo: Difficoltà dei terapisti nel trattamento dei sopravvissuti dell’Olocausto nazista e dei loro figli) all’Università di New York, era nell’esercito israeliano e insegnava musica, filosofia e psicologia.
Tra le pubblicazioni recenti, International Handbook of Multigenerational Legacies of Trauma, New York, 1998 e The Universal Declaration of Human Rights: Fifty years and Beyond, UN, New York, 1999. Lo scorso ottobre è stata invitata a tenere un incontro pubblico a Tuzla, in Bosnia e alcuni work-shop a Teslic e a Banja Luka, nella Republika Srpska. Segue il suo intervento alla conferenza pubblica dal titolo "La democrazia non può esser costruita da anime ancora ferite", tenutasi a Tuzla.

Io credo fermamente che la cura, affinché sia significativa anche per le generazioni a venire, debba essere considerata un compito di tutti. Non riguarda infatti solo gli psicoterapeuti, i medici e nemmeno solo i politici; chiama in causa ciascuno di noi che apparteniamo non solo alla nostra comunità, o alla nostra famiglia, quanto piuttosto a quella che nella Dichiarazione delle Nazioni Unite viene chiamata "la famiglia dell’umanità".
Vorrei cominciare con una citazione di Elie Wiesel, Premio Nobel per la pace e sopravvissuto all’Olocausto, che 25 anni dopo la Liberazione, nel 1970, così si è espresso: "Con il rischio di offendere, deve essere enfatizzato che le vittime hanno sofferto di più e più profondamente per l’indifferenza di chi ha assistito, piuttosto che per la brutalità degli esecutori. La crudeltà del nemico non sarebbe stata in grado di distruggere il prigioniero. E’ stato il silenzio di coloro che credeva amici -crudeltà più vile, più sottile- che ha spezzato il suo cuore. Non c’era più nessuno su cui contare. Il desiderio di vivere era stato avvelenato. Se è questa la società umana da cui proveniamo -e da cui siamo stati ora abbandonati- perché cercare di tornare?".
So che molti di voi provano gli stessi miei sentimenti all’ascolto di queste parole. Ebbene, Elie Wiesel con queste parole ha voluto esprimere ciò che io nei miei scritti ho definito la "cospirazione del silenzio".
Questa sera vorrei condividere con voi parte di una ricerca condotta originariamente per le Nazioni Unite, finalizzata a stabilire il diritto alla restituzione, risarcimento, riabilitazione e commemorazione per tutte le vittime di violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali. A questo scopo ho condotto delle interviste non solo alle vittime dell’Olocausto nazista e ai loro figli, ma anche ai sopravvissuti dei regimi argentino, cileno, e altri. Così che possiamo imparare dalla loro esperienza e dal loro dolore.
Tutti questi gruppi, come altri con cui ho lavorato, concordano sul fatto che proprio la "cospirazione del silenzio", che è avvenuta dopo la Liberazione, cioè dopo la fine, con l’inizio della democrazia, è stato ciò che più li ha fatti soffrire.

Vorrei ora offrirvi il mio modello del trauma. Ebbene, alla domanda "chi sono" ciascuno risponde con una propria fisiologia e psicologia. Ovviamente poi ogni individuo esiste in una famiglia, in un vicinato, in una società, in una comunità, con una religione, un gruppo etnico di riferimento, una razza, ecc. Ebbene, se si potessero disegnare tutti questi elementi, avremmo al centro l’individuo, e poi tutte queste dimensioni attorno ad esso come cerchi concentrici. E si potrebbero aggiungere anche le dimensioni economica, educativa, spirituale, professionale, internazionale, universale, ecc.
Questa identità esiste infine con una continuità dal passato, attraverso il presente, fino al futuro. C’è infatti un libero fluttuare di energia e influenze tra queste dimensioni, perché c’è la memoria e poi ci sono i sogni, la fantasia... Voi infatti conoscete la storia dei vostri antenati e anche voi avrete la vostra vita e lascerete figli, nipoti...
Ora, il trauma crea una rottura in questo sistema e diversi traumi possono creare rotture su più dimensioni di questo sistema.
Per esempio, uno stupro in una società soggetta a condizioni normali può "infettare" l’individuo che subisce violenza, ma anche gli altri livelli, nel senso che può influenzare la famiglia, il vicinato. E se la comunità ne viene a conoscenza, ne verrà infettata anch’essa, per certo. Perché, per esempio, crescerà la paura anche nelle altre persone e così via.
Stupri ripetuti in una situazione di guerra, che quindi già comporta molte altre perdite, creeranno una rottura su molte più dimensioni. E va ricordato che qui non mi riferisco solo alla rottura che provoca l’evento, lo stupro, ma anche a quella provocata dalla cospirazione del silenzio che segue e aggrava la ferita, assicurando che la vittima non riuscirà a sanare quel trauma.
Cosa significa tutto questo in termini di guarigione dal trauma? Significa che l’individuo che ha vissuto quell’esperienza orrenda ha trovato difficile anche solo trovare le parole per raccontare la sua esperienza, e lo stesso è accaduto alla sua famiglia e alla società, che sono tutti passati per questo orrore. E’ questo, come ha scritto Wiesel, che ha reso quell’esperienza e chi l’ha vissuta assolutamente disperati: come potrò mai sentirmi pienamente membro della società, alla pari con gli altri, dopo tutto questo?
Come ha osservato Bruno Bettelheim, "Ciò di cui non si può parlare non può nemmeno essere fermato. E se questo non accade, le vecchie ferite continueranno a ulcerarsi generazione dopo generazione".
Oggi noi sappiamo, non solo sulla base della storia, ma anche in seguito a recenti ricerche, che ciò a cui Bettelheim ha dato voce in modo così suggestivo è assolutamente vero. Se non parli, se non metti in parole il dolore, che talvolta è veramente intollerabile e indicibile, non puoi sanarlo. E così noi scopriamo che, almeno nelle 32 popolazioni coperte dalla ricerca compiuta con alcuni colleghi; popolazioni di cui alcune neppure sapevano dell’esistenza delle altre, si arriva alle stesse conclusioni. Nel senso che, detto più chiaramente, nelle famiglie in cui non si è parlato gli effetti dei traumi saranno assolutamente peggiori di quelle in cui si è parlato. E questo è vero per le vittime, che rimarranno traumatizzate per tutta la vita, ma è vero anche per i loro figli. E anche le società in cui non si parla, difficilmente guariranno dei traumi sofferti. E così la storia del trauma continuerà il suo corso. E anche nelle nazioni che non parlano dei propri traumi -voi lo sapete meglio di chiunque altro- il trauma vissuto rimarrà e riapparirà non solo nella generazione attuale, ma anche, di nuovo, in quelle successive.
Voi potete vedere come in questo paese molte famiglie abbiano attraversato in modo traumatico la prima guerra mondiale, poi la seconda e ora la recente esplosione della Yugoslavia. E non è ancora finita... Ma se voi siete veramente consapevoli di questo, avete davanti una sfida e un’opportunità incredibili per invertire il corso di questo processo maligno.

Vorrei ora esporvi alcune delle conclusioni tratte da quella ricerca, in particolare riguardo i processi di cura dei traumi.
La concettualizzazione parte dall’individuo per passare alla prospettiva sociale, nazionale e internazionale. Perché, come abbiamo detto, qualsiasi cosa ti accada in quanto individuo, influenza non solo te, ma anche la tua famiglia, la società, la comunità, la nazione, la comunità internazionale... E’ tutto collegato.
Allora, da un punto di vista individuale, la vittima ha bisogno che venga ristabilita la sua parità in termini di valore, potere e dignità nell’ambito della propria società o nazione. Affinché questo avvenga è necessario innanzitutto, il risarcimento, sia questo reale o simbolico. I soldi infatti non riportano in vita chi è stato ucciso, seppure talvolta possano contribuire a ricostruire le case. Tuttavia un risarcimento simbolico può fare molto per aiutare.
L’individuo necessita poi della restituzione, in questo caso di avere di nuovo una casa, al fine di tornare a sentirsi membro della società. Necessita inoltre della riabilitazione, che può essere una terapia fatta da specialisti, ma anche qualche altra pratica. Ci sono molti modi di farlo.
Infine, last but not least, è necessaria la commemorazione. Vorrei citarvi ora un’altra sopravvissuta. Il suo nome è Isabella Leitner, ed è anch’essa membro del nostro progetto:
"Il sole fece uno sforzo disperato per brillare quell’ultimo giorno di maggio del 1944. Il sole è caldo in maggio, fa bene. Ma anche il Cielo era impotente quel giorno. Una forza così malvagia governava il cielo e la terra da sconvolgere l’intero ordine naturale, e il cuore di mia madre stava fluttuando nel cielo colmo di fumo di Auschwitz. Ho cercato di cancellare quel fumo dalla mia vista per quarant’anni, ma i miei occhi ancora bruciano, madre".
Più tardi, Isabella così scrisse in America:
"Cerco attraverso il cielo in un dolore disperato, ma non riesco a distinguere alcuna sembianza umana... Non c’è alcuna traccia. Nessuna tomba. Niente. Assolutamente niente. Mia madre visse ancora per poco -Potyo per meno di quattordici anni. In un certo senso non sono veramente morte. Sono solo diventate fumo. Come si può seppellire il fumo? Come portare i fiori alle nuvole? Madre, Potyo... io sto cercando di dirvi addio. Sto cercando di dirvi addio".
Credo che questo brano esprima molto bene quale sia il sentimento dei sopravvissuti. Per me sottolinea ogni volta l’importanza della commemorazione.
Le persone che hanno perso qualcuno, senza averne notizia, vivono in uno stato di grande dolore. Non puoi piangere i tuoi cari, perché non hai un posto dove piangere, e non puoi piangerli anche perché non sai per certo se vanno compianti. Speri che non sia così.
Se guardiamo alla vita normale, quando qualcuno a noi caro muore, noi lo seppelliamo, con tutta la dignità che le nostre rispettive religioni ci raccomandano. Ma per le persone che risultano scomparse non possiamo fare niente di tutto questo; non possiamo celebrare i rituali stabiliti. E questo crea una sensazione terribile, perché non sai se si tratta di una persona che tornerà, o se invece ti manca una persona che non potrai vedere, abbracciare, toccare, mai più; neanche sentirne la voce. E non hai neppure una tomba da visitare. In molti casi non è rimasta nemmeno una fotografia, niente. Per questo la commemorazione è estremamente importante. Primo, perché è un modo rituale, simbolico, per restituire alla persona la dignità che avrebbe avuto in circostanze normali, come la visita alla tomba ecc.
La commemorazione, inoltre, è importante non solo per gli individui, ma per la società intera e per le relazioni tra gli individui e la società. La commemorazione si trova infatti in una posizione di cerniera tra il livello individuale e quello della società.
Quando c’è la commemorazione c’è una condivisione, così non ti senti più solo; il tuo dolore viene condiviso da altri che si preoccupano per te e per quanto ti è accaduto, e si preoccupano di ricordare la persona che hai perduto.
Ovviamente, è rilevante anche il modo in cui la società sceglie di commemorare, che tipo di monumento commemorativo decide di avere: se scegli una persona con la pistola vuol dire che come eroe hai scelto un killer, anche se tutto è avvenuto per la difesa del tuo paese o di un ideale. Ogni forma di memoriale, infatti, vale non solo per i sopravvissuti, ma anche per l’educazione dei bambini della generazione successiva. Perché tra i compiti della società, c’è anche quello di costruire monumenti commemorativi per gli eroi.
Sono stata molto colpita ieri nel vedere che Tuzla ha scelto un poeta e un artista come monumenti principali da porre nel centro della città. Sono così felice di questo, che voglio sicuramente fare una foto prima di andarmene. Anche perché le statue sono vicino alle foto dei giovani uccisi nella piazza cittadina il 25 maggio 1995, per cui dicono anche che uno di loro sarebbe potuto diventare un poeta o un artista. Questo ha creato in me un profondo senso di soddisfazione.
Ma questa è solo una parte della commemorazione. Vorrei condividere con voi cosa fa Israele per commemorare l’Olocausto, per esempio.
In Israele, nel giorno della Shoah, che è la data in cui commemoriamo l’Olocausto, un minuto prima delle 8 di mattina c’è una sirena e ogni cosa, in tutto il paese, si ferma. Ogni singola persona si ferma e rimane in silenzio, in ricordo delle vittime. Ogni automobile nelle strade si ferma, le persone escono e si fermano, in piedi, tutte insieme.
Ogni attività nel paese si ferma per ricordare. E per giurare che questo non accadrà mai più. Ecco, questo per la società significa: siamo tutti assieme e per le vittime significa: non sono solo. E’ la memoria condivisa, il dolore condiviso. Perché questa memoria appartiene a tutti, è coscienza nazionale, sociale, non solo individuale. E questo accade anche in altri paesi per altre ricorrenze.
Mi vengono le lacrime agli occhi ogni volta che ci penso, sebbene ormai siano parecchi anni che non mi trovo in Israele per questa occasione. La sensazione di essere tutti assieme è così potente in quei momenti...
Io qui consiglio caldamente di istituire qualcosa di simile. Soprattutto perché qui la gente ha così tante persone che ancora risultano disperse. Per quanto riguarda, poi, i dispersi tuttora in vita, che casomai non sanno nemmeno che ora hanno di nuovo una casa, dato che è in atto questo ritorno. Ebbene, io credo che loro avranno bisogno di un profondo senso di solidarietà, che è poi ciò che la commemorazione mette in atto. Avranno bisogno di sentire che per questo paese è importante che ciascuno di loro abbia una casa, un luogo dove crescere i figli con dignità.
Io suggerisco che il paese scelga questo tipo di iniziative simboliche, affinché la gente non si senta isolata e sola con le loro ferite aperte. Perché è un modo orribile, orribile, di vivere.
La società ha anche il compito di sollevare le vittime dal processo di demonizzazione ed emarginazione. Perché non è l’individuo a dover e poter fare questo. Del resto è proprio la società a volte a far sentire gli individui come se fossero veramente pazzi quando il dolore è insopportabile.
Altro obiettivo importante è dare potere alle vittime, in modo che i sopravvissuti possano, quanto meno, entrare nelle decisioni che li riguardano. E questo vale per le vittime in quanto singoli, ma anche in quanto gruppo.
In Sudafrica, dove sono stata consulente nella Commissione per la Verità e la Riconciliazione, in molti casi il paese aveva voluto stabilire cosa fosse meglio per le vittime, senza che queste fossero neanche presenti con il loro punto di vista. Sarebbe importante ricordare tutto questo, così qualora si decida di creare una comitato per le vittime, almeno uno dei membri dev’essere una vittima. Diversamente, le vittime non solo non usciranno dal trauma, ma subiranno tutto questo come un’ulteriore traumatizzazione.
Quarto compito della società è l’educazione, che interessa le scuole di ogni ordine, ma anche le università e i media.

Passiamo ora al livello nazionale, che ha come obiettivo primario quello di ristabilire la legalità. Questo significa la condanna e l’incriminazione dei responsabili dei crimini commessi.
Ma per una nazione è fondamentale anche tutelare e assicurare la raccolta delle testimonianze. Perché dopo un trauma spesso si verifica il tentativo di cancellare quanto accaduto, negandone la stessa esistenza. E noi dobbiamo assolutamente impedire tutto questo.
La nazione si deve occupare anche del piano dell’educazione, già menzionata al livello della società. Infine va creato un meccanismo nazionale per il monitoraggio e la risoluzione dei conflitti, allo scopo di prevenire interventi militari.
L’ultimo livello, quello internazionale, ha il compito di affermare in modo concreto il proprio impegno a combattere l’impunità, provvedendo a un trattamento equo contro chi viola la giustizia.
La comunità internazionale, oltre alla creazione di tribunali dotati di meccanismi ad hoc, dovrebbe finalmente puntare ad un unico tribunale internazionale, che agisca con il mandato della suddetta comunità e che possa così intervenire nei casi in cui le comunità nazionali non dispongano dei mezzi adeguati.
Chi dovrebbe chiedere scusa a chi in un paese in cui vivono assieme vittime e carnefici? E in cui il tutto è complicato dal semplice fatto che questo discorso ha chiare implicazioni politiche?
Dirò subito che sul piano umano, dopo che tutte le condizioni menzionate siano state esaudite, e dopo che la storia di vittimizzazione di ogni gruppo sia stata raccontata e sanata, accadrà semplicemente che la maggior parte della gente si troverà a chiedersi perdono gli uni con gli altri.
Da questo punto di vista, la lezione più importante l’ho appresa in Sudafrica, dove ho trascorso molto tempo entrando in contatto con tutti i gruppi in lotta.
Ebbene, ciascun componente di tutti questi gruppi ha una triste e drammatica storia di vittimizzazione, che può risalire a cento, duecento anni addietro, oppure a ieri. Ma ognuno di questi gruppi, in una fase, è stato nella posizione della vittima.
E allora, la vera sfida laggiù, ma forse anche qui, è che ogni gruppo si impegni innanzitutto a conoscere adeguatamente la propria storia -lavoro lungo e complesso- e le proprie ferite, per poi tornare tutti assieme. La storia ci ha ampiamente mostrato che se non compiamo questo lento e faticoso processo, continueremo a ferirci, riproducendo così altre storie di vittimizzazione, casomai in qualche altro modo, in qualche altro luogo. Dal punto di vista psicanalitico, fin tanto che uno si sente "vittima" vuol dire che non è ancora stato curato e guarito. E fin tanto che questo non avviene, quella persona non può tornare a vivere pienamente la propria vita.
E’ molto interessante, infatti, in questo lavoro con gruppi diversi, in cui ognuno ha la propria storia di vittimizzazione, come, classicamente, ciascuno cerchi di dimostrare di essere più vittima degli altri. Tra l’altro c’è un altro effetto collaterale, ossia che finché non si riconosce e rispetta la nostra esperienza e visione interiore in quanto vittime (individualmente o come gruppo), così da sanarla, si sarà addirittura portati a conservare il trauma, come prova inconfutabile del proprio statuto di vittima. Così da alimentare un ciclo di vittimizzazione che potenzialmente non ha mai fine.
Anche quella dei serbi, per esempio è una storia di traumi e sofferenze, in particolare durante la seconda guerra mondiale. E’ come se loro sentissero che la loro storia in quanto vittime non fosse stata sufficientemente raccontata. Proprio questo invece è un passaggio necessario per poter passare all’analisi della loro storia più recente, in cui il loro ruolo è passato da quello di vittima a quello di aggressore. Perché fino a che noi non ascoltiamo e impariamo ogni storia in tutti i suoi dettagli, cercando di sanare intanto quella che ci riguarda in particolare, e avviando una richiesta di cooperazione, per arrivare a ciò che alla gente piace definire "riconciliazione", non avremo completato il lavoro. Non è sufficiente che venga presa una decisione di questo tipo a livello politico. La politica può decidere chi sta al potere, ma non può imporre la cura delle ferite. O forse non abbiamo ancora creato degli "healing politician", dei politici con questo potere di cura. Ne abbiamo avuto qualcuno come Mandela e Havel, e però -non voglio offendere nessuno- non tutte le popolazioni sembrano avere il coraggio di scegliersi dei politici in grado di avviare un processo di "cura". E comunque, anche in questi casi, c’è stata la necessità di comporre tutto quanto era accaduto e stava accadendo nella società.
Ma torniamo alla domanda e a come si colloca qui la questione. Fino a che ogni storia non viene raccontata e "curata", anziché impegnare le energie per sanare le proprie ferite, la gente, al contrario, perpetuerà le conseguenze, i risultati della propria storia traumatica, attraverso la violenza, oppure col silenzio, che sono i due modi estremi di fuggire dal dolore di essere stati vittime.
E ancora, torna la questione che in questo paese la gente sembra non conoscere la propria storia, mentre la conosce e molto bene. Questo è un ulteriore ostacolo alla possibilità di tornare di nuovo assieme, come persone guarite, curate, che vivono nella stessa terra. Certo, non si può costringere all’amicizia nessuno, come il fallimento del precedente regime comunista ci ha mostrato. Come dire, ci abbiamo provato in quest’area, ma non ha funzionato. Per cui forse bisognerebbe trovare un’altra via e dare a questa una possibilità.
In Sudafrica ho avuto delle conversazioni anche con Desmond Tutu, che è un altro eroe della riconciliazione. Ebbene, io credo che anche per lui non si tratti di "ri-conciliazione", quanto piuttosto di "conciliazione". Perché ci dev’essere la costruzione consapevole e volontaria di una società guarita, sana, quindi in un certo senso nuova. Vanno impiegare tutte le energie per adempiere a questo compito. Perché noi stessi abbiamo conoscenza del nostro trauma, almeno in parte, nel senso che quanto meno siamo consapevoli di ciò che ancora non conosciamo.
Allora, dobbiamo veramente lavorare su tutti questi aspetti. Io ci credo molto. Anche perché, francamente, quanto si arriva a conoscere le persone, come capita a me, ascoltandone i traumi e le terribili sofferenze, e parlo di tutti i gruppi -tra l’altro questo è un paese veramente bellissimo con della gente straordinaria- alla fine ti viene solo da dire: "Per favore, basta. Smettetela!".

Anche la dimensione tempo ha un ruolo fondamentale in queste considerazioni. Voi tutti saprete che solo recentemente è uscita la storia delle banche svizzere e degli ebrei. E solo ora si stanno scoprendo quante fabbriche avevano schiavizzato i prigionieri ebrei -e non solo- durante la seconda guerra mondiale. Ebbene, questo sta avvenendo a più di 50 anni di distanza dai fatti in questione.
Allora, quando noi ci poniamo queste domande che hanno a che fare con l’ammissione di responsabilità, dobbiamo tenere a mente che la dimensione tempo esiste e noi la dobbiamo rispettare. Dobbiamo imparare dalla storia che essere pazienti è eccellente anche proprio dal punto di vista pragmatico. Non è semplicemente una buona idea, un atteggiamento di buon senso. E’ proprio importante anche per il lavoro da fare.
Anche la vicenda dei bombardamenti su Hiroshima e Nagasaki ci conferma come sia doveroso che nel tempo tutte le parti in causa chiedano perdono, per azioni diverse.






Quando sono stata a Hiroshima la prima volta, anche allora per lavorare con i sopravvissuti, ricordo di essere rimasta a dir poco choccata di fronte alla constatazione che non provavano rabbia. Tanto che io continuavo a chiedere: "Ma come? Non siete arrabbiati?". Non riuscivo a capire, non me l’aspettavo. Mi ci è voluto molto tempo per arrivare a capire come la loro cultura si rapportava al trauma subito. Devo dire che ancora non ho risposte certe su questo. E però voglio aggiungere che comunque, a distanza di tempo, anche gli Stati Uniti hanno chiesto scusa. E infine che anche Tokyo ha avviato e concluso un processo contro coloro che ha ritenuto i responsabili della violazione dei diritti umani, che sono stati puniti.
Può essere che se si avvia un circuito virtuoso in cui è garantita una qualche forma di giustizia, forse si crea anche un minore bisogno di scuse. Anche se io resto per l’atto del chiedere perdono.

In questi anni ho sentito spesso nominare il "silenzio" dei bosniaci. Tra l’altro a volte sono gli stessi bosniaci a lamentarsene, per esempio i rifugiati nei confronti della popolazione locale dei luoghi in cui si trasferiscono, da cui vorrebbero maggiore solidarietà, e che invece appunto non esprimono compassione. C’è chi parla di un semplice modo di essere, quasi un’abitudine. Altri che mettono in allarme rispetto alla possibile strumentalizzazione di questo silenzio da parte della comunità internazionale per mantenere i bosniaci in una condizione di impotenza, e così via. Come interpretare questo silenzio?
Riprendendo il concetto di "cospirazione di silenzio", la mia ferma convinzione è che la gente parla quando ha qualcuno che ascolta. Non solo: quando chi ascolta crea le condizioni necessarie affinché chi deve parlare si senta autorizzato a farlo. La vittima allora non sarà felice solo di parlare, ma di poter "finalmente" parlare. Noi infatti non possiamo immaginare cosa significhi sopprimere, tenersi dentro, un tale bisogno di parlare così a lungo e così profondamente. Per cui forse la domanda dovrebbe diventare: ma dov’è la gente che dovrebbe ascoltare?
Perché le vittime vogliono parlare. Questo veramente non c’è bisogno di chiederlo. E allora come può la gente non ascoltare?

Una delle cose che non ho ancora raccontato è come sono giunta a studiare la "cospirazione del silenzio", su cui ho compiuto delle ricerche anche piuttosto ampie, e non solo rispetto all’effetto sulle vittime. E ne sono rimasta così turbata da stravolgere radicalmente la mia carriera, da cambiare il mio dottorato: dalla studio sulla psicologia della speranza alla cospirazione del silenzio, che è diventata una dissertazione molto corposa.
Ebbene, ciò che ho fatto è stato intervistare tutte le persone allora note -eravamo negli anni 70- che erano state vittime dell’Olocausto, e i loro figli.
Allora infatti insegnavo al corso di psicologia e da tempo mi occupavo di psicologia della speranza su cui appunto avevo deciso di svolgere il mio dottorato. Così avevo individuato varie categorie di avvenimenti e persone, lasciando ai miei studenti i casi meno significativi, e tenendo per me le vittime dell’Olocausto e i prigionieri di guerra.
Ebbene, ero stata subito avvisata che i sopravvissuti non parlavano con nessuno. Di non avermene a male.
Devo anche dire che dalla mia esperienza in questi casi avevo imparato a lavorare con la gente preferibilmente nella loro casa, piuttosto che nel mio ufficio. Per cui ho iniziato andando nelle case degli intervistati.
Ebbene questi, che si era supposto non volessero parlare, semplicemente non mi avrebbero più voluto lasciare andare via. Volevano solo parlare, parlare, parlare... E talvolta abbiamo parlato fino a notte inoltrata, e spesso hanno chiamato i vicini, i figli...
E’ stato uno studio eccellente!
E ciò che mi hanno detto è che nessuno li voleva ascoltare. Tanto che erano arrivati alla conclusione che nessuno li poteva capire. A meno che non fosse passato per la stessa esperienza.
Scoprire questo mi sconvolse. Letteralmente. Ma io allora ero una giovane studentessa di psicologia molto idealista e ciò che trovai assurdo, incredibile fu sentire da loro che nemmeno gli psicologi, gli operatori li ascoltavano. Voglio dire, la società ha l’obbligo morale di essere empatica verso i suoi membri. Ma i professionisti hanno un obbligo per contratto. Per cui se noi non ascoltiamo rompiamo quel contratto, non assolviamo il patto che abbiamo stipulato.
Quell’esperienza fu per me assolutamente devastante: tutti i miei ideali mi stavano crollando davanti agli occhi. In quel periodo due sentimenti particolari scoppiarono dentro di me. Un grande dolore per ciò che andavo ascoltando, cosa che mi spinse, assieme alle persone che condividevano le mie stesse emozioni, a creare il centro per le vittime dell’Olocausto, così da aiutare i sopravvissuti. Badate,
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