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L'Europa e i palestinesi

1.5.1991, Da "Omnibus"
Reduce da una missione di 8 parlamentari (nazionali ed europei) di diversi paesi e gruppi politici in Israele, nei territori palestinesi occupati ed in Egitto, sento l'urgenza di riportare la quintessenza di quel che abbiamo visto e udito, e le conseguenze che se ne possono trarre.

La guerra del Golfo e la nuova congiuntura internazionale hanno creato, infatti, un misto tra urgenza, disperazione ed opportunità - una sorta di singolare "momentum" - che non deve essere lasciato passare invano, a meno di non voler suscitare entro pochi anni un nuovo Saddam Hussein nella regione, e probabilmente anche nuovi e violenti estremismi "dal basso".

Dunque: la situazione dei palestinesi nei territori occupati si presenta peggio che mai. La loro economia risulta decurtata di due terzi, decimata dalle conseguenze della guerra nelle rimesse degli emigrati, le sovvenzioni dal Golfo, i salari guadagnati in Israele. Dei loro diritti umani sarebbe meglio non parlare: sono quasi inesistenti. L'occupazione israeliana in reazione all'Intifada - una lotta, non dimentichiamolo, sostanzialmente nonviolenta e popolare - si è fatta sempre più sofisticata ed intransigente.

Fa effetto vedere persone adulte e ragionevoli che alle 19,40 della sera devono troncare comunque qualsiasi discorso ed attività perchè alle 20 comincia il coprifuoco e non possono più stare in giro. O apprendere, che per andare da Betlemme a Gerusalemme ci vuole un permesso che è difficile ottenere, si devono affrontare controlli imprevedibili e spesso arbitrari ai posti di blocco e che chiunque venga insignito di una particolare carta d'identità verde (diversa da quella normale, arancione) è considerato d'ufficio un "troublemaker", un sovversivo, e non può normalmente abbandonare la sua residenza. Per non parlare delle punizioni collettive, sempre più in auge: vola un sasso da una scuola, e la scuola per tre giorni viene chiusa; parte una sassaiola di ragazzi da una casa, e la casa può essere distrutta dai militari. La famiglia, il vicinato, una scuola, un villaggio - tutti diventano ostaggi per gli occupanti che usano queste punizioni collettive chiaramente come strumenti di intimidazione, non di giustizia. E' la discriminazione diventa norma: targhe automobilistiche e carte d'identità di colori diversi, in modo da distinguere subito chi appartiene alla parte dominante e chi a quella dominata, e chi deve essere fermato dalla polizia e chi no; diritti sociali fortemente differenziati (magari perché astutamente legati al compimento del servizio militare); un evidente e sensibile dislivello nei diritti linguistici, culturali, religiosi, economici. E poi la differenza più terribile e forse più inammissibile di tutte: che lo stato israeliano autorizzi una parte dei suoi cittadini (civili!) a portare - e usare! - armi contro l'altra parte. I coloni, che scelgono di piazzare i loro numerosi insediamenti nel bel mezzo dei territori occupati e sinora comunque non legalmente annessi ad Israele, girano armati, ed il solo fatto che li legittima a ciò è il loro essere ebrei - possono poi magari essere persino stranieri (ho visto con i miei occhi volontari stranieri delle forze armate israeliane che entravano in uniforme nelle moschee).

L'effetto devastante di questo protrarsi di una situazione di contrapposizione violenta tra occupanti ed occupati, che non favorisce certo le posizioni ragionevoli e moderate tra i palestinesi, coinvolge ovviamente tutta la società israeliana: i modi rudi delle forze dell'ordine tendono a diventare norma quotidiana, e tra poco non ci sarà praticamente più israeliano o israeliana adulta che non avrà fatto parte, nel tempo del servizio di leva o dei frequenti richiami, delle forze di occupazioni, dunque avrà partecipato a pattuglie, rastrellamenti, blocchi, perquisizioni, controlli, demolizioni di case, arresti, combattimenti, bastonature, rottura di braccia o di gambe, feriture, uccisioni. Un imbarbarimento che rischia di pesare assai a lungo ed in profondità. L'ossessione della sicurezza in questo contesto ne favorisce una lettura sempre più militare, sempre meno politica: ci si sente sicuri in ragione della propria forza, non dei rapporti stabili e pacifici e della preminenza del diritto.

Per i palestinesi ogni giorno che passa peggiora la situazione: nuovi insediamenti, terre confiscate, palestinesi (soprattutto cristiani) che emigrano, rovina economica, sfiducia in una soluzione politica. Non è nell'interesse della pace se l'incancrenimento diventa irreversibile. Ora i palestinesi, e la stessa OLP (che si lecca ancora le ferite per l'infelice posizione presa nei giorni della crisi e della guerra del Golfo), sono più flessibili che mai: che non si vogliano accontentare di un'autonomia per gestire la nettezza urbana, pare ragionevole.

Da "Omnibus" Maggio 1991
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