Il ruolo dell’Europa nella crisi del Kosovo: Modello di nonviolenza o miccia del nazionalismo?
Nel parlare del Kosovo per tentare di descrivere alcuni aspetti della crisi e della disintegrazione jugoslava, vorrei trasportarvi in una situazione in cui guardare ad alcuni influssi che vengono dal firmamento, dall’alto, e ad altri che vengono invece dalla terra, dal basso.
È il “momento della terra”: il complesso assetto ex-Jugoslavo
Guardiamo per un attimo appunto al Kosovo che è stato il più importante punto di partenza della crisi e della disintegrazione jugoslava. Perché? Perché la pretesa e se vogliamo anche la vocazione possibile della federazione jugoslava multi-etnica come casa comune di molte etnie diverse con parità di diritti (e in un certo senso con una casa particolare per ognuno) è stata rotta prima di tutto nel Kosovo.
Infatti gli albanesi, uno dei popoli numerosi tra i molti popoli, etnie o minoranze, comunque li vogliamo chiamare, della federazione jugoslava, sono stati i primi a vedersi fortemente deprivati dei loro diritti, i primi nei confronti dei quali la promessa jugoslava non ha funzionato, anzi è stata sospesa, è stata messa fuori legge. In questo senso credo che si possa dire che fin dalla fine degli anni ’80 la revoca pratica dell’autonomia del Kosovo e la crescente oppressione e repressione sia poliziesca sia economica sia poi civile e culturale in quella regione sono stati un momento fondamentale che ha fatto scoppiare la precedente ipotesi di federazione multi-etnica e di equilibrio a volte anche molto complicato di popoli diversi con autonomie, pesi, contrappesi, garanzie reciproche. Questo lo prenderei come momento “della terra”.
... e quello “dal firmamento”: la ristrutturazione dell’Europa
Se viceversa guardo a quello che viene “dal firmamento”, io credo che dobbiamo renderci conto che dalla fine dell’89, e cioè dal crollo dei regimi comunisti dell’Est, sta avvenendo qualcosa che è ancora ben lontano dall’essersi esaurito: una ristrutturazione dell’Europa. Siamo di fronte a una delle grandi cesure della storia europea: come l’equilibrio del congresso di Vienna è durato in un certo senso fino quasi alla prima guerra mondiale, così l’equilibrio della seconda guerra mondiale è finito con l’89. Quindi siamo in una situazione generale di destabilizzazione in cui chi ha o crede di avere forza economica, militare, politica o anche ideologica, cioè di idee che possano trascinare gente, oggi gioca le sue carte e tenta di intervenire in questa ristrutturazione a proprio favore. Oggi viviamo in una fase in cui tutti i confini in Europa si stanno spostando. Dicendo confini non penso solo ai colori delle cartine geografiche dove questa o quella zona appartengono a questo o quello Stato. Parlo anche di confini economici, per esempio tra benessere e miseria. Parlo del riemergere di antichi confini, per esempio all’interno dell’Europa cristiana tra la cristianità occidentale e quella orientale, cioè tra il mondo cattolico e in parte protestante dell’occidente europeo, che finora ha vinto nella corsa europea, e l’oriente europeo, il mondo essenzialmente ortodosso che finora si è dimostrato più lento e vischioso, meno competitivo; oppure dei confini tra la cristianità e l’Islam. I confini, cioè gli equilibri, sono oggi rimessi in discussione tra est e ovest e anche tra nord e sud in Europa. Si pensi anche alla discussione, che per ora in Italia è arrivata poco, sull’attuale allargamento dell’Unione Europea, che è un allargamento che sposta il baricentro a nord, cioè con l’Austria ma soprattutto con i paesi scandinavi. Ripeto quindi che siamo in una situazione abbastanza fluida, in cui tutti quelli che pensano di avere una forza in campo da gettare, economica, politica, militare, ideologica, culturale, ideale, per tirare la coperta dalla propria parte per ridefinire zone di influenza, lo fanno.
Tra egemonie serbe e croate riprende il nazionalismo albanese
Tornando un attimo alla questione del Kosovo e da lì alla ex-Jugoslavia, io credo che possiamo osservare che nella penisola balcanica dalla fine del dominio ottomano, quindi dall’inizio del nostro secolo, le due nazioni principalmente protagoniste in conflitti sono state i serbi e i croati. Gli albanesi erano abbastanza marginali, nel senso che erano comunque confinati in una situazione di scarsa autonomia politica. La stessa Albania ha faticato a sorgere, è stata poi invasa e occupata dall’Italia, dopo aver riacquistato l’indipendenza è vissuta per lungo tempo auto isolata sotto il regime di Enver Hoxha, quindi è stata praticamente assente. Sembrava che su quell’area dei Balcani essenzialmente due popoli si disputassero l’egemonia: quello serbo e quello croato, con conflitti anche molto sanguinosi, in particolare nel periodo della seconda guerra mondiale. In questo quadro la questione albanese era relegata ad essere abbastanza marginale. II Kosovo poteva essere effettivamente una questione interna e la presenza di una popolazione da due a tre milioni di albanesi nella ex federazione jugoslava, principalmente nel Kosovo ma anche in Macedonia e Montenegro o come emigrati anche in Serbia e altrove, pareva una questione minore che sembrava poter essere risolta in termini interni di autonomia.
Ovviamente oggi la situazione è molto diversa perché in poco tempo è riemersa una questione albanese nei Balcani. Intanto l’Albania ha recuperato una situazione di maggior democrazia interna e questo è molto importante, perché prima difficilmente gli albanesi che non vivevano in Albania avevano nostalgia dell’Albania, che era un grande carcere: l’albanese kosovaro, l’albanese in Macedonia e quello in Montenegro stavano in realtà meglio dell’albanese in Albania e non c’era una grande aspirazione ad unirsi.
Diversa la situazione oggi. Oggi il popolo albanese, per lungo tempo svantaggiato da molti punti di vista, comincia a contarsi e a dire: noi siamo, se ci mettiamo tutti insieme, quasi sette milioni. Sulle cifre non voglio sbilanciarmi particolarmente, ma è un popolo della stessa stazza numerica di altri popoli non grandissimi; è comunque un popolo numeroso e quindi credo che non dobbiamo meravigliarci se oggi nella disintegrazione e nel riassetto generale va alla ricerca di fattori di integrazione nazionale.
Oggi il nazionalismo riprende fortemente quota: i precedenti fattori di federazione e di integrazione si sono in parte rivelati fallaci, il socialismo come obiettivo comune, che doveva essere il momento federativo dell’Est, è praticamente dissolto. Gran parte dei nostri fattori federativi sono inapplicabili all’Est: nell’Europa Occidentale il fattore federativo degli ultimi 40 anni è stato il mercato, prima potevano esserlo la comune fede cristiana, o un principio dinastico; ma che mercato comune si può proporre nelle condizioni attuali dei paesi dell’Est? In quei paesi il mercato non può essere un fattore federativo intorno al quale aggregarsi e in nome del quale impegnarsi. In quei paesi al massimo può esserci il tentativo di vincere a gomitate una corsa in cui comunque ci saranno pochi vincitori e molti perdenti. lo credo che non dobbiamo meravigliarci troppo dell’importanza del nazionalismo per chi non ha grandi patrimoni economici o materiali da spendere.
Le contraddizioni e il cattivo esempio dell’Europa
Questa forza di attrazione del nazionalismo credo sia anche rafforzata da alcuni insuccessi e da alcune evidenti contraddizioni dell’Europa Occidentale. Ne indico solo due:
- Non siamo riusciti a proporre e realizzare veramente un’Europa dei diritti. Finché c’era la cortina di ferro abbiamo detto: noi possiamo fare l’Europa comune con tutti quelli che hanno democrazia, perché eravamo ben sicuri che quelli restavano fuori. Appena questa clausola di esclusione è scomparsa, abbiamo detto: sì, possiamo fare l’Europa comune con tutti quelli che hanno democrazia e che hanno anche una moneta forte. Si è aggiunta una clausola che ha sbugiardato sostanzialmente l’intera promessa europea e che quindi ha reso molto più lontana una prospettiva di integrazione europea.
- La seconda promessa che non abbiamo mantenuto è che anche noi, pur con la moneta forte, non abbiamo in realtà costruito veramente un’Europa comune. Il nazionalismo, per cui ognuno fa per sé e tenta di essere più forte degli altri, non è veramente debellato all’interno dell’Unione Europea. Noi assistiamo, e sul campo jugoslavo questi si sono scatenati peggio che mai, a una forte competizione di interessi nazionali, spesso divaricanti e a malapena ovattati nell’Unione Europea. Quindi anche l’esempio di integrazione sovranazionale che potevamo dare noi non è granché.
Credo non dobbiamo meravigliarci troppo che la seduzione nazionalistica oggi sia così fortemente in crescita, praticamente, è un po’ l’unica idea forte che circoli. E in un certo senso un’idea federativa, però non di più popoli, perché per l’appunto l’idea nazionalistica difficilmente federa più popoli, anzi generalmente li aizza uno contro l’altro. Credo che oggi dobbiamo realisticamente riconoscere che nello spazio ex-jugoslavo si affrontano tre aspirazioni di pari dignità e di sempre più pari virulenza: l’aspirazione alla grande Serbia, quella alla grande Croazia e quella alla grande Albania; questo trascurandone altre minori. La guerra bosniaca in questo senso probabilmente rischia di dare un primo premio all’aspirazione alla grande Serbia e di aiutare un po’ l’aspirazione alla grande Croazia. Se questo sarà l’esito della guerra bosniaca, cioè un rafforzamento rispettivamente dell’idea della grande Serbia e dell’idea della grande Croazia, allora sarà ancora più difficile che si neghi legittimità alla stessa aspirazione da parte albanese. Si potrà dire che gli albanesi sono più deboli, che Tirana non ha né lo stesso potenziale militare di Belgrado né le stesse amicizie economiche di Zagabria, però sarà difficile negare questa legittimità. Questo mi pare venga fuori rimettendo insieme il “firmamento” europeo e il “suolo” del Kosovo. Peraltro esso è considerato sacro da parte di due popoli, quello serbo e quello albanese; e sapete che i conflitti intorno alle terre sacre sono particolarmente inestricabili, perché ne va dell’anima dei rispettivi popoli e quindi succede che sia ancora più difficile che altrove intravedere una soluzione non dico facile, ma abbastanza soddisfacente.
La spartizione etnica: inclusione ed esclusione forzate
La possibilità di guarigione dipende fortemente dalla soluzione generale che si darà al conflitto. Sarà una soluzione etnica, cioè quella di, un po’ come si illudeva il presidente Wilson alla fine della prima guerra mondiale, “poter ritracciare i confini europei secondo principi chiaramente riconoscibili di insediamenti etnici”? Sappiamo benissimo che questo principio è stato disapplicato; io vengo da una terra, l’Alto Adige, che in quel caso non avrebbe dovuto andare all’Italia. Allora i principi del presidente Wilson non sono stati rispettati, ma ancora più difficile sarebbe applicare criteri così in una regione del mondo in cui l’intreccio tra popoli è molto più variegato.
Dico però che se la comunità internazionale, le grandi potenze singolarmente prese, la NATO e le Nazioni Unite alla fine decidessero, come mi pare stia succedendo, che la spartizione etnica, e diciamo pure con parola brutale l’epurazione etnica, è alla fine la soluzione più semplice e cominciassero ad applicare questa soluzione in Bosnia con separazioni abbastanza nette, tracciando confini che via via si solidificano, allora sarà molto difficile che nel Kosovo si applichi un principio diverso.
Ovviamente quando parliamo di soluzioni etniche io credo che si possano intendere varie cose. Credo che ci siano due modalità per soluzioni chiaramente etniche: una è quella della inclusione forzata delle etnie diverse, cioè dell’assimilazione, della negazione di identità (intendendo semplicemente con etnia un gruppo che ha in comune la religione o il colore della pelle, e non etnia nel senso più lato, di ciò che dà il senso del noi). Nel caso del Kosovo per esempio questo significa dire: è terra serba, punto e basta! Che poi parlino un dialetto locale che si chiama albanese non ci interessa, ma fa parte della Serbia. L’esclusione forzata invece può andare dalla ghettizzazione alla cacciata fino alla soluzione più tragica dello sterminio. Entrambe queste soluzioni io le chiamo soluzioni etniche, perché vince una linea chiara di demarcazione etnica, l’esclusivismo etnico, cioè un monocolore etnico. Dall’altra parte ci sono quelle soluzioni che in qualche modo puntano alla convivenza, che sono quindi contrarie all’esclusivismo etnico e prevedono invece esplicitamente possibilità di pluralismo etnico e di convivenza. Questo non vuol dire solo non venire massacrati o sterminati, vuol dire anche poter sviluppare la propria lingua, cultura, religione, scuola; insomma tutto quello che fa parte del noi collettivo.
Nello spazio ex-jugoslavo purtroppo la conflittualità oggi è ancora in alto mare pur essendovi stata una prima decisione in favore dell’opzione etnica. Le secessioni erano anche un’opzione in favore della delimitazione etnica. Oggi in Croazia e in Serbia si tenta di costruire una forte omogeneità nazionale; in Bosnia emerge un’identità musulmana che prima era un fatto culturale, ma che oggi sempre più diventa senso dell’identità e dell’incompatibilità albanese nel Kosovo; un sentimento simile è destinato a crescere nella Vojvodina tra gli ungheresi. Così la Slovenia è diventata oggi una nazione molto fiera di sé, che non vuole confondersi con altri ed essere confusa nel calderone balcanico. In vari modi la corsa verso una netta affermazione etnica è oggi l’opzione prevalente, ma non ha ancora totalmente vinta.
La convivenza non si può imporre
Ora è evidente che noi non possiamo da fuori dare lezioni a nessuno e dire: voi dovete scegliere la convivenza invece della separazione etnica. Non abbiamo diritto, tanto più se la nostra esperienza di convivenza non è tra le migliori e comunque è per ora una convivenza per ricchi, in cui molti conflitti possono essere coperti da una certa abbondanza di mezzi che permette di attutirli. È ovvio che se c’è un’acuta lotta per il pane e per il tetto è anche molto più facile che i fattori di differenziazione si trasformino in fattori di esclusione. Se il lavoro è poco, perché dobbiamo spartirlo con qualcuno? Se avere una casa è difficile, perché dobbiamo ammettere altri che non facciano parte del nostro noi? E così via. È chiaro che la diversa situazione socio-economica influisce molto e che la povertà esaspera tendenzialmente i conflitti etnici.
Allora cosa si può fare oggi per sostenere la convivenza senza pensare di imporre soluzioni il meno possibile violente e ingiuste? Innanzitutto credo sia abbastanza evidente che le soluzioni nonviolente, o meno violente, vanno nella direzione della convivenza e non della epurazione o della demarcazione etnica, perché la demarcazione etnica può essere ottenuta solo con un grande impiego di violenza: con guerre, massacri, attacchi, repressioni, discriminazioni, espulsioni, campi di prigionia. Lo stiamo vedendo, e non solo in Jugoslavia, ma anche in realtà da noi geograficamente più lontane e quindi meno percepite, come nel Caucaso ed in altre zone della ex Unione Sovietica. In questo contesto io credo che soluzioni nonviolente debbano andare nella direzione di sostenere il più possibile gli elementi di convivenza, di compatibilità, gli elementi che puntano non all’esclusione etnica, ma in qualche modo a processi di reintegrazione. Questo non vuol dire ricostruire la vecchia Jugoslavia, fare una federazione Balcanica; tutto questo è prematuro immaginarlo, però sostenere i fattori di integrazione credo che dia alcune possibilità e abbiamo su questo anche una grande responsabilità.
L’esperienza del Verona Forum
Io cerco in conclusione di indicare alcuni passi in base all’esperienza di un organismo che sta praticando questa reintegrazione. L’organismo al quale mi riferisco si chiama Forum di Verona per la Pace e la Riconciliazione nella ex-Jugoslavia. La prima riunione è stata fatta a Verona nel ’92 e oggi la rete, pur sempre piccola, è la più consistente tra forze democratiche di tutta la ex-Jugoslavia. Vi cooperano qualcosa come 150 persone di tutte le parti della ex-Jugoslavia, dal Kosovo alla Macedonia, dalla Slovenia a tutte le parti bosniache e a tutte le regioni della Croazia, Istria e Dalmazia comprese. Il Forum di Verona ha lavorato finora attraverso modalità molto complicate: vi partecipano persone che normalmente non si possono neanche parlare, cioè che si possono incontrare solo se invitate all’estero – se si riesce in tempo a provvedere a tutti i visti e a tutte le complicazioni aggiuntive – o che si possono parlare per telefono se noi da un paese nostro riusciamo a collegarci contemporaneamente con Belgrado, Zagabria, Prishtina e così via. Quindi queste persone affrontano enormi difficoltà solo per mantenere aperto un filo di discorso e di confronto reciproco, invece che parlarsi dai pulpiti delle rispettive televisioni e giornali, che sono normalmente pulpiti di odio e di istigazione e non di dialogo. Cercherò di riassumere quello che oggi è lo stato delle proposte rivolte in particolare alla società civile e quindi a chi si riconosce in questo convegno.
Nove punti per la convivenza etnica
- Come ho appena detto, una prima richiesta immediata e fondamentale è quella di agire, e mi pare che questo stesso convegno lo stia facendo, per riaprire le comunicazioni, riattivando ad esempio le linee telefoniche, dove a volte basta inserire un jack. È una questione politica e non tecnica: non sono distrutte. Riaprire tutte le comunicazioni: posta, telefoni, strade, ferrovie, aeroporti.
- Una seconda richiesta è quella di sostenere un’ampia e assai più robusta offensiva di informazione. Oggi esistono migliaia di giornalisti di tutte le parti della ex-Jugoslavia che sono ridotti al silenzio nei rispettivi paesi, perché non cantano nel coro nazionalista. Quindi non si tratta di paracadutare la CNN, ma sostanzialmente di dare mezzi, cioè microfoni o emittenti, perché in questa area ci sia di nuovo un’informazione non dipendente da singoli regimi. Una delle proposte che da lungo tempo si discute, ma non si riesce a rendere operativa, è di prendere a questo scopo la ex Radio Free Europe, la radio che da Monaco e poi da Budapest si rivolgeva all’intero Est Europeo. Purtroppo un’esperienza sostenuta dalla Comunità Europea, tentata l’anno scorso e salutata da noi con grande favore, cioè quella della nave nell’Adriatico, è stata un’esperienza troppo debole (non arrivava ad abbastanza interlocutori, copriva appena un pezzo di costa) e forse anche, mi permetto di dire, troppo caratterizzata dalla nostalgia per la vecchia Jugoslavia: aveva un fondo di ipotesi politica in cui molti degli attuali protagonisti e contendenti non si riconoscevano abbastanza.
Non ho difficoltà ad ammetterlo: personalmente sono un nostalgico della vecchia Jugoslavia, nel senso che avrei fatto tutto il possibile per mantenerla, anche se so che era piena di errori. Però non solo non pretendo che altri condividano questa convinzione, credo anche che oggi sarebbe un grave errore insistere a vedere come fattore di dialogo, di convivenza e di integrazione solo coloro che erano fan della vecchia Jugoslavia. Questo non porterebbe da nessuna parte e quindi bisogna che oggi i protagonisti del dialogo, della riconciliazione, della reintegrazione vengano cercati anche tra coloro che aborriscono la vecchia Jugoslavia, anche nel Kosovo, ovviamente.
- La terza richiesta, e qui mi rivolgo di nuovo in particolare alle autorità locali, anche se poi sono gli Stati che la devono sostenere, mi pare riguardi una volta in più la questione dell’accoglienza, non solo di profughi in generale, ma in particolare di coloro che si sottraggono alla guerra.
Credo che non esista metodo più efficace per sottrarre forza alla guerra che ospitare le persone che si rifiutano di prendervi parte, cioè disertori e obiettori di coscienza. Oggi per esempio in Germania si comincia a rispedire indietro le persone che in varie parti della ex-Jugoslavia hanno rifiutato il servizio militare.
- Credo anche che ci sia il bisogno, al di là del dibattito se debbano essere italiani o non italiani, di rafforzare molto la presenza di truppe dell’ONU nell’ex-Jugoslavia. Credo che da questo punto di vista, lo dico sapendo che forse urto la sensibilità di qualcuno, un ultimatum come quello della NATO, peraltro richiesto dal Consiglio di Sicurezza, sia stato salutare e quindi personalmente dissento da coloro che hanno subito gridato all’orribile ultimatum della NATO. La NATO ha accolto una richiesta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e mi pare che la pressione su Sarajevo si sia molto allentata.
Adesso forse ci vorrebbe la stessa cosa per Gorazde, però mi sembra che esista la necessità, al di là di singoli momenti, del ripristino di una situazione di autorità internazionale, visto che le autorità locali sono fortemente in conflitto tra loro. Penso in particolare al problema degli armamenti pesanti. Certo si muore anche di armamenti leggeri, ma fa una grande differenza essere cannoneggiati o bombardati dal cielo, dove c’è una disparità tale che chi possiede armi pesanti può evidentemente colpire molto fortemente.
- Credo ancora che sia importante che si sostenga il Tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità commessi nell’ex-Jugoslavia, che sulla carta già esiste, nel senso che esistono i giudici, un codice di procedura, un piccolo finanziamento iniziale. Questo Tribunale chiaramente non può risolvere i problemi politici, ma tutti i democratici nell’ex-Jugoslavia lo chiedono come condizione essenziale anche per riabilitare il loro buon nome. Per esempio i democratici serbi dicono che se non si distinguerà mai tra criminali e persone civili e democratiche, tutto verrà imputato come colpa collettiva. Questo tribunale è un po’ come un figlio messo al mondo con due risoluzioni quasi rivoluzionarie del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel febbraio e nel maggio dell’anno scorso, che adesso è come esposto davanti ad un convento e non si sa ancora se qualcuno veramente lo alleverà. Io credo che noi, in particolare nell’Unione Europea, dobbiamo crederci fortemente: il che vuol dire recepirne i provvedimenti, dare la necessaria assistenza, finanziarlo; assistenza vuol dire anche fornire giuristi e personale perché possa funzionare, altrimenti c’è il rischio che venga utilizzato come semplice arma di pressione politica, e le potenze lo tengano lì in serbo, minacciando: o bombardiamo o usiamo il Tribunale, o vi mettete d’accordo. Se vi mettete d’accordo allora mettiamo una pietra sopra e chi si è visto si è visto. Invece quella società oggi, se non vogliamo che ci siano odi lunghissimi, ha un forte bisogno di giustizia; poi magari potrà anche amnistiare e riconciliare, ma deve stabilire le responsabilità.
- Sugli aiuti umanitari non credo di aver bisogno di parlare qui, perché altri lo hanno fatto e soprattutto perché mi rivolgo a persone che sono già informate perché li stanno attuando.
- Credo inoltre che sia importante chiedere gli stessi diritti per tutte le minoranze ed etnie in tutta la ex-Jugoslavia, qualunque sia la situazione statuale.
- Credo che per il Kosovo in particolare sia necessario che oggi ci si muova fortemente a livello governativo e che si dia visibilità e riconoscimento particolare alla scelta nonviolenta finora mantenuta. Credo che questa scelta debba essere anche nobilitata, cioè debba essere internazionalmente riconosciuta come una scelta che non è semplicemente di debolezza, cioè di uno che non ha abbastanza armi o appoggi per combattere. Se viene riconosciuta e valorizzata come scelta politica, c’è anche la speranza che in un momento in cui i rapporti di forza cambiassero venga mantenuta e questo sarà cruciale, perché altrimenti guai alle vendette!
- Concludendo credo che si debba forse da parte della nostra società civile rilanciare una proposta che ogni tanto ci viene fatta da varie parti della ex-Jugoslavia e che oggi può sembrare anche assurda, ma che vorrei fare mia con piena convinzione, cioè chiedere che a tutti coloro che intendono rappacificarsi nell’ex-Jugoslavia venga offerto uno status di associazione speciale (la formula la si potrà inventare) con l’Unione Europea, valorizzando la loro scelta di pace come una scelta di Europa.
Intervento al Colloquio internazionale di Venezia “I paesi dell’Est fra transizione pacifica ed esplosione di conflitti” - Trascrizione da registrazione del 9 aprile 1994
Azione nonviolenta, ottobre 1994