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Fabio Levi: Una vita "nel vortice"

25.11.2005, decalogo per la convivenza: euromediterranea 2005
Nel tentativo di delineare un ritratto di Alexander Langer e di rievocare i vari momenti del suo impegno generoso e ininterrotto, mi è accaduto di parlare con alcune delle moltissime persone che lo hanno conosciuto. Fra i sentimenti manifestati verso di lui al primo posto ho trovato quasi sempre l’affetto: un affetto che il ricordo del suo repentino e drammatico congedo vela di una nota di sconcerto e di nostalgia: come se la memoria fosse attraversata da un improvviso tremore.
Quella diffusa disposizione d’animo è una parte incancellabile di quanto Langer ha lasciato di sé, strettamente legata alla sua personalità, al suo modo di essere. Credo tuttavia che, se oggi vogliamo ripensare la sua storia – e questo vale tanto più per chi lo ha conosciuto direttamente -, dobbiamo saper andare oltre quell’affetto per ricostruire passo dopo passo lo sviluppo della sua vita e delle sue idee - sempre così legate agli incontri con le persone e alle iniziative intraprese -, magari prendendo a prestito un po’ della sua non comune capacità di guardare le cose a distanza e di analizzarle con tutta la cura necessaria; solo a quel punto potremo verificare se saremo stati in grado di cogliere e restituire di lui un’immagine non troppo lontana dal vero: e potremo verificarlo anche dalle reazioni e dai sentimenti che avremo saputo suscitare intorno alla sua figura in particolare nei nostri interlocutori più giovani.

Ma veniamo in concreto alla vicenda di Langer, che qui potrò considerare solo per cenni, cominciando da una citazione. Siamo nell’ottobre del 1991, quando già da due anni egli era deputato europeo e, fra le molte cose di cui si occupava, guardava con grande attenzione a un problema per lui ineludibile, quello delle minoranze, anche in rapporto con la crisi da poco scoppiata nei Balcani. Il breve passaggio che mi appresto a leggervi riguarda gli zingari; Langer li definiva come un “popolo mite e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli e confini, ma semplicemente il diritto di continuare a essere quel popolo sottilmente ‘altro’ e ‘trascendente’ rispetto a tutti quelli che si contendono territori, bandiere e palazzi”. “Un popolo che, un po’ come gli ebrei, fa parte della storia e dell’identità europea proprio perché a differenza di tutti gli altri [essi] hanno imparato ad essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno!”. Questo però in una realtà che con il passare dei decenni è via via mutata: “Le esigenze dell’industria e dell’amministrazione” – continua Langer - hanno prodotto la distruzione del “mondo conviviale” dove era “possibile comunicare, scambiare, lavorare, visitare, migrare” fino a privare gli zingari del loro ambiente naturale. Ma “non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più ad essere agili, gentili ed autosufficienti come una volta”.
Sin qui la citazione, che non ho scelto per riproporre una sintesi sin troppo facile di alcuni aspetti pur decisivi del pensiero di Langer sulla storia dell’Europa o sui temi della convivenza. Anzi, penso si debba diffidare di ogni tentazione a ridurre quel pensiero a formule banalizzanti e consolatorie. La nitidezza della prosa e la linearità dei ragionamenti non devono far dimenticare le dolorose contraddizioni cui Langer si riferiva e delle quali era ben consapevole se non, spesso, direttamente partecipe. Altrimenti si finisce per creare di lui l’immagine oracolare e un po’ stucchevole dell’uomo savio che passa il tempo a ribadire sani principi. Quella citazione mi interessa per un’altra ragione. E’ come se nella rappresentazione degli zingari si potessero intravedere alcuni caratteri cui Langer aspirava, in primo luogo per sé ma non solo: la mitezza, il nomadismo, l’insofferenza per i bolli e le divise, tutti atteggiamenti che su di lui esercitavano un fascino indiscutibile. Qui mi soffermerò tuttavia su un altro di quei caratteri: la leggerezza, intesa come capacità di svincolarsi da “territori, bandiere e palazzi”, per poter essere più mobili e “compresenti” senza mai perdere però la consapevolezza di sé; la leggerezza nella sua qualità di virtù antica, ma proprio per questo tanto più preziosa per affrontare le novità del tempo presente.
Alexander Langer possedeva la dote straordinaria di sapersi trovare ogni volta – lo ha notato Adriano Sofri – là dove accadevano i grandi fatti del giorno. Come nel ’68, quando i carri armati sovietici invasero Praga: lui c’era. O nel dicembre del ’91, quando gli studenti albanesi diedero il colpo di grazia all’ultimo regime comunista dell’Est europeo. Ancora una volta Langer era lì. E così in molti altri luoghi cruciali della storia di più di trent’anni, e al momento giusto. La sua leggerezza era tale non solo da consentirgli di arrivare quasi all’istante, ma in molti casi di essere già sul posto, grazie a una acuta e particolarissima sensibilità per le variazioni del clima sociale e politico nell’Italia e nell’Europa di fine secolo. D’altra parte quella sensibilità si era potuta affinare attraverso l’esperienza diretta delle maggiori trasformazioni che negli ultimi decenni hanno sconvolto l’ordine politico e gli stili di vita determinatisi subito dopo la seconda guerra mondiale: la svolta conciliare della Chiesa cattolica, le rotture operate nel ‘68 dalla generazione nata nel dopoguerra – Langer era non a caso del ’46 -, le grandi conquiste materiali e, insieme, i colossali disastri ambientali prodotti da una lunga fase di incontenibile sviluppo, la fine della guerra fredda e l’implosione del mondo sovietico. Si è trattato di sconvolgimenti dagli effetti destabilizzanti che ogni volta scardinavano certezze consolidate e mettevano duramente alla prova le capacità degli individui di galleggiare in un vortice dagli orizzonti sempre più vasti.
Di fronte a tutto questo Langer ha saputo via via elaborare un approccio originale, uno stile particolare – non sempre capito o condiviso da parte di alcuni suoi compagni di strada - che proprio per la sua specifica natura sarebbe riduttivo ricondurre esclusivamente alla sfera politica. In quel vortice egli si muoveva rivendicando gelosamente la propria autonomia e la propria responsabilità individuale, al di fuori di partiti e organizzazioni stabili – se non per il periodo di partecipazione a Lotta Continua, scelta però all’inizio per il suo carattere aperto e antidogmatico –. Questo concretamente voleva dire viaggiare senza soste incontro alle situazioni e incontro agli altri, con un bagaglio leggero da cui non mancava mai il necessario per ricostituire all’occorrenza il proprio ufficio in un qualsiasi scompartimento di treno, e con una rete di contatti individuali destinata a crescere a dismisura con il passare degli anni. Nell’azione politica quello stile comportava una connaturata insofferenza per i vincoli posti alle relazioni interindividuali dal consolidarsi degli apparati, delle ideologie e delle logiche di gruppo. Quanto al rapporto con le istituzioni, la consapevolezza del loro peso nella vita sociale era alla base di uno sforzo continuo inteso ad esaltare anche i più piccoli margini di apertura presenti al loro interno e a considerare in particolare le assemblee rappresentative “come se” potessero effettivamente disporre dei poteri a esse ufficialmente attribuiti. Infine l’azione di Langer traeva buona parte della sua forza dal rapporto che egli rinnovava costantemente con le proprie radici, con le persone e i luoghi da sempre più vicini, con un retroterra “antico” insomma, come antico era e rimaneva – lo abbiamo visto – il patrimonio culturale e di vita degli zingari.

Rivolgiamo ora lo sguardo, più che allo stile di Langer, alle sue idee, ben sapendo peraltro che vi era una stretta convergenza – il termine “coerenza” mi appare in questo caso troppo rigido e concludente – fra i suoi modi di essere con gli altri e gli obiettivi che volta per volta si dava. Al riguardo vorrei riprendere un interrogativo emerso a Firenze in un incontro pubblico per la presentazione della prima antologia dei suoi scritti. A porlo è stata Grazia Zuffa, che si chiedeva come mai in quei testi comparisse così di rado la parola “libertà”. E in effetti, nel corso della riflessione e delle esperienze - potremmo dire - di una vita intera, sono state altre le questioni più esplicitamente frequentate, come la convivenza, l’ambiente, l’impegno sociale, la democrazia. Ed è stato più volte lo stesso Langer a sintetizzare preferibilmente sotto quei titoli i vari versanti della propria azione politica.
Eppure egli aveva un suo modo specifico e originale di coniugare il termine libertà, che nondimeno preferiva pronunciare con grande parsimonia. Innanzitutto attraverso i propri atti concreti; lui in prima persona teneva a comportarsi da uomo libero: come già abbiamo visto, muovendosi con naturalezza verso gli altri e verso il mondo nei panni del “viaggiatore leggero”, da quando, ragazzo, girava l’Italia in motorino fino, molti anni dopo, alle sue numerose puntate nei Balcani, là dove più dirompente si era scatenata la violenza della guerra. E poi rivelando una spiccata insofferenza contro le costrizioni imposte per via gerarchica o per il tramite di rigidi schemi ideologici e sviluppando di conseguenza una incoercibile disposizione ad andare controcorrente. Ma c’era anche dell’altro e per scoprirlo può essere utile considerare i vari ambiti di azione cui ho appena accennato.
In primo luogo quello dell’impegno per la convivenza. Nella visione di Langer, i “traditori” della compattezza etnica, sottraendosi alla logica dei blocchi contrapposti e ai doveri dipendenti esclusivamente dall’appartenenza al gruppo, esercitano nient’altro che la propria libertà e anzi possono contribuire alla libertà di chi hanno accanto. In questo – a differenza dei “transfughi”, viceversa osannati dalla parte cui si aggregano - essi pagano con lo scarso amore di cui sono per lo più oggetto la serenità e la ricchezza che vorrebbero dispensare a sé e agli altri grazie alla propria maggiore apertura alle relazioni con il prossimo. Anche se non bisogna dimenticare che un tale esercizio è tutt’altro che agevole e i suoi risultati non sono per nulla garantiti; ma è proprio l’assenza di garanzie preventive a dare alla libertà e all’autonomia – un termine quest’ultimo che ricorre più spesso negli scritti di Langer – il loro ineguagliabile sapore.
C’è poi il rapporto con l’ambiente. Qui a costringere non sono tanto i limiti ineludibili nella disponibilità delle risorse naturali, ma la folle corsa allo sviluppo che quei limiti si rifiuta colpevolmente di riconoscere in una incontenibile furia dilapidatrice. Viceversa libertà vuole dire sapersi svincolare da quella logica suicida, procedere sulla strada dell’autolimitazione, valorizzando fra le altre anche le proprie doti di fantasia nell’immaginare uno stile di vita rinnovato e più semplice.
E ancora: l’impegno sociale. Il sostegno ai più deboli è per Langer anche lotta contro la tendenza dei più forti a impadronirsi senza ritegno delle ricchezze altrui su scala locale come su scala planetaria; ma quel sostegno non può essere separato dalla difesa dell’ambiente e dalla pratica della convivenza. Anche se si è costretti in tal modo ad affrontare contraddizioni difficili da gestire, come ad esempio quando per mantenere posti di lavoro c’è chi si mobilita in difesa di produzioni nocive; o quando, per salvaguardare le condizioni delle masse diseredate, si chiude un occhio sul rispetto dei diritti fondamentali. Anche su questo Langer ha avuto modo in più occasioni di misurarsi, tentando una strada che andasse oltre le tendenze ben presenti nella tradizione della sinistra a porre la difesa della giustizia davanti a quella della libertà.
E per concludere la democrazia: da potenziare attraverso soluzioni adeguate quali, da un lato, il decentramento del potere finalizzato a una maggiore partecipazione e, dall’altro, strumenti di carattere federale in grado di corrispondere – in particolare in Europa - alla tendenziale inadeguatezza della dimensione nazionale per la risoluzione dei principali problemi politici, sociali e ambientali. In tal modo intendendo la cura e lo sviluppo della democrazia – si pensi in particolare all’attenzione di Langer alla difesa dei diritti fondamentali nella crisi dell’Est europeo, ma non solo - come una condizione per facilitare la libera partecipazione e il libero confronto fra gli individui.
Qui come altrove l’accento risulta posto dunque, più che sull’obiettivo da raggiungere, sull’impegno concreto per perseguirlo. Come se per Langer il vero problema non fosse tanto quello di immaginare preventivamente l’orizzonte verso cui muoversi e di trarre da una discussione delle mete da raggiungere concrete indicazioni di comportamento, ma di districarsi faticosamente fra le innumerevoli costrizioni della realtà e delle relazioni quotidiane per creare le condizioni di una difficile emancipazione; in questo cercando di praticare qui e ora un ideale troppo vasto e ambizioso da poter essere racchiuso in una qualche definizione o anche solo nominato con eccessiva disinvoltura.

Quell’impegno era la fatica quotidiana di Langer. Ma non ha cessato, dopo di lui, di essere anche la fatica di tanti altri. Per questo è forse utile dire qualcosa su come possono apparire oggi le sue idee e la sua esperienza.
Se si rilegge il gran numero di articoli apparsi a sua firma su periodici grandi e piccoli – l’archivio della Fondazione è da questo punto di vista una miniera inesauribile di continue scoperte –, si rimane colpiti, oltre che dall’intelligenza e dalla profondità delle analisi, dalla ricorrente impostazione prescrittiva di molti testi, come se studiare una situazione potesse avere un senso solo in vista di un problema da risolvere. Proprio quel taglio assai peculiare attribuisce ai vari ragionamenti un tono – come hanno notato in molti - quasi profetico, facendo apparire le indicazioni sulle cose da fare, sulle direzioni da intraprendere come capaci di orientare l’azione anche oltre il momento in cui esse sono state formulate.
Torniamo, a titolo di esempio, al testo già citato sugli zingari e leggiamo ciò che segue le analisi iniziali: “bisogna – scrive Langer – che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di ‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana, dei rom e dei sinti, e faccia posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali, militari e computerizzati. Un modo di vivere che indica non solo un passato ricco di tradizione, di dignità e di sofferenza, ma anche una possibile modalità di convivenza tra migranti e residenti, e forse un’esistenza capace di affidare la propria identità e continuità non al possesso (di immobili, carte di credito e diplomi), ma solo alla solidarietà della comunità”.
Lo sguardo è anche qui rivolto al futuro e il discorso sembra aprire verso un orizzonte quasi utopico. Ma l’utopia, soprattutto dopo la stagione “rivoluzionaria” di Lotta Continua e le dure disillusioni degli anni ’70, aveva finito per suscitare in Langer una sensazione di disagio, quasi di allarme, che egli non esitava a esprimere con un coraggio a trattare del proprio passato non così comune nella sinistra: “non ce la farei a vivere – troviamo scritto in un’intervista del 1985 - in una di quelle utopie che a volte noi stessi propaghiamo: i nostri stessi scacchi sono forse uno scampato pericolo”. Nondimeno egli affermava subito dopo: “possiamo chiamare ‘realismo’ lo spazio fra un discorso limite e una situazione data”; laddove il “discorso limite” implicava una visione non troppo astratta e impalpabile quanto meno della direzione di marcia e, viceversa, la “situazione data” era lì per attribuire un giusto valore alle ragioni dell’esperienza. Da dove infatti se non da un’ampia visione di prospettiva ma anche dalla “circoscritta esperienza dei ‘blocchi etnici’” potevano derivare ad esempio le “poche e modeste regolette” - Langer amava non prendersi mai troppo sul serio – utili a favorire la convivenza fra gruppi diversi?
Altrove – mi riferisco qui a un pezzo di bilancio del 1989 sulla realtà sudtirolese - si parla delle indicazioni per il futuro nei termini di “modesti desideri, non rivendicazioni o proposte irrealizzabili o talmente alte sul firmamento politico da esigere chissà quale architettura istituzionale o diplomatica per potersi compiere, ma suggerimenti che nascono dalla concreta esperienza”. Per non dire dello sforzo ricorrente di elaborare, nelle sedi istituzionali come il Parlamento europeo, “una serie di norme che assicurino una sorta di ‘minimo garantito’ in fatto di tutela e valorizzazione delle lingue e culture minoritarie” o su tante altre questioni.
Un tale modo di porsi mette noi oggi nella condizione di apprezzare l’ampio respiro delle visioni tracciate da Langer e nello stesso tempo il suo sforzo estremo di concretezza. Sull’efficacia delle iniziative assunte volta per volta non è ovviamente possibile ora esprimere valutazioni circostanziate che dovrebbero fare i conti con realtà troppo numerose e troppo diverse. Qui a Bolzano mi limito solo a rilevare il peso straordinario che le sue idee sulla convivenza interetnica hanno avuto quanto meno come indispensabile catalizzatore di processi che andavano ben al di là della specifica iniziativa di una sola personalità o di una sola forza politica. Si può aggiungere d’altra parte che egli non esitò in varie occasioni a impegnare tutte le proprie energie in imprese al di sopra delle sue forze e, forse, delle forze di chiunque. Come nelle guerre della ex Jugoslavia quando il suo tentativo di creare legami diretti fra i diversi popoli in conflitto attraverso il Verona Forum si rivelò forse alla fine poco più di una goccia nel mare. O forse non fu così e non lo fu senz’altro per coloro che parteciparono a quegli incontri. Come pure è difficile valutare il peso del sofferto sostegno pubblico dato all’appello del sindaco di Tuzla perché fosse posta fine al massacro con un’azione di forza mirata e controllata.
D’altronde in ognuna di quelle azioni c’è tutta la incommensurabile sproporzione fra la dimensione del singolo individuo – pur con tutta la sua intelligenza e la sua entusiasta dedizione – e un mondo di fine secolo sempre più mobile e ingovernabile; c’è insomma uno degli aspetti centrali della condizione esistenziale di tutti noi, per fronteggiare la quale Langer hat alles getan, was für ihn möglich war, ha fatto tutto ciò che era in suo potere.

Fabio Levi insegna storia contemporanea a Torino






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