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Gad Lerner: Vite diverse, ma vicine

27.11.2005, Decalogo per la convivenza - euromediterranea 2005
So che nella naturale divisione di compiti con Guido Denicolò io dovrei riflettere intorno al decalogo da un punto di vista, diciamo, più “euromediterraneo” e lui invece dedicarsi più specificamente alla realtà sudtirolese/altoatesina.
Prometto che cercherò di svolgere il mio compito, ma in una maniera molto disordinata e molto personale, perché non riesco a dimenticarmi che sto parlando qui, con voi, con tanti amici di Alex, e nel ricordo e nel rimpianto di Alex.
Mi scuserete se verranno fuori da subito, con un’invasione di campo, questi elementi di ricordo personale. Comincio quindi dalle sensazioni che ho provato oggi, arrivando con il treno, tornando a Bolzano dopo molto tempo e avendola trovata così bella, questa città che avevo frequentato molto perché ci stava Alex, perché ci venivo a trovarlo. E arrivando in stazione, non riuscivo a non immaginarmi la scena usuale di lui che mi aspettava, così come cercavo di immaginare come avrebbe guardato lui la città, dopo tanti anni. Ebbene: le prime tre donne incontrate erano una bellissima donna nera e due donne, per ragioni diverse, con il velo, una musulmana e una suora…
Nella bellezza di questa passeggiata, mille volte percorsa, verso l’albergo, ho subito pensato alla fortuna di Alex che ha potuto fare di questa città bilingue la sua base di partenza fondamentale, mentre nel frattempo, a quelle due lingue, se ne sono aggiunte tante altre, che ascoltavo per la strada nel breve tratto verso l’albergo. Poi, passeggiando nel mercatino delle Erbe, tra i banchi delle verdure, ho osservato che il numero di lingue che si parla lì è assolutamente molto oltre il tema del bilinguismo.
E mentre mi godevo la bellezza di questa città ricordavo anche il rapporto di Alex con la bellezza.
Io sono sempre stato uno che ha cercato di “godersela”, nonostante all’epoca fossi uno squattrinato. Oggi sono un benestante e mi è più semplice. Ricordo appunto una volta in cui, arrivando e incontrando Alex, lo trovai molto a disagio e in imbarazzo. Mi diceva: “Scusami Gad, ma stasera ti devo portare a casa mia, ma no, non la mia casa solita: la casa di famiglia, la casa di mia mamma. Scusami, scusami, è che casa mia l’ho prestata…” Ma perché scusami? Alla fine ho capito. Il fatto è che era una bellissima casa, una casa di lusso. E per lui l’idea di dormire in una casa di lusso era un fatto di disagio. Era il 1978, al ritorno dalla prima campagna elettorale della sua vita, in cui ebbi la fortuna di accompagnarlo un poco.
Questo per citare una caratteristica fondamentale di Alex che ha anche a che fare, io credo, con l’elaborazione di questo decalogo, e per questo è giusto citarla al principio. Appunto Alex era una persona che si sentiva personalmente responsabile per le sofferenze e i mali di cui veniva a conoscenza, se ne sentiva immediatamente, direttamente responsabile, e quindi viveva con disagio qualsiasi condizione di privilegio, perché gli risultava insostenibile.
Parto da qui, perché di questo decalogo - che invito davvero tutti a rileggere nella brevità ma nella densità dei suoi contenuti, nella sua formidabile attualità - mi viene facile isolare tre parole, sulle quali vorrei riflettere con voi, anche un poco sempre sul filo dei ricordi.
La prima parola che mi è venuta in mente, l’ho trovata scritta qui, in nota, nel decalogo. È una parola che Alex usava spessissimo riferendosi anche a qualcuno di noi (un “compagno”), che però mostrasse settarismo, spirito di fazione, piccineria. Lui lo definiva allora un “egocentrico”, una persona malata di egocentrismo. Qui per la verità scrive “egomania”. Qui parla di “egomania collettiva”, assai diffusa oggi. È una grave malattia dell’identità. La seconda parola è “flessibilità”. Identità, sì, relazione con la propria storia, le proprie radici, ma che sia sempre flessibile, che sia una relazione nella quale si ha la capacità di mettere il particolare in diretta relazione con il complesso della realtà umana e non soltanto umana, ambientale. Necessità dunque di relativizzare questa categoria dell’identità, di cui ci siamo sempre più riempiti la bocca, intorno alla quale negli ultimi anni abbiamo costruito retoriche insopportabili, narcisismi esasperati e secondo me velenosi. Ecco, Alex ci esorta a un comportamento esattamente opposto, che ritroviamo poi addirittura in una “parolaccia”, che è la terza parola che citerò dal decalogo. E cioè l’elogio della categoria del “tradimento”. C’è bisogno di capacità di tradire, di traditori della compattezza etnica, di persone, di forze capaci di autocritica verso la propria comunità. Vedete che l’uomo che prima di altri aveva approfondito, anche tra di noi, gli elementi dell’identità etnica, la necessità del rispettare e custodire le identità etniche (che altrove si pensava invece potessero essere superate, se non cancellate brutalmente) ha sempre però presente la necessita di renderle flessibili, di relativizzarle e talvolta di tradirle.
Quando io ho conosciuto Alex - stiamo parlando ahimé credo di più di 30 anni fa - io ero senza nazionalità, nonostante vivessi in Italia da parecchio. Ero arrivato da bambino piccolo, ma non l’avevo ancora ottenuta. Avevo invece un cartoncino marrone, si chiamava “titolo di viaggio” e veniva rilasciato agli apolidi. Era una condizione particolarmente scomoda per vivere, poiché significava ad esempio fare le code agli uffici delle questure, ogni anno, per avere il rinnovo del permesso di soggiorno oppure ogni volta che si voleva andare in giro anche solo da Milano a Chiasso ottenere dal Consolato svizzero il visto di ingresso provvisorio ecc.
Eppure vorrei dire che mi sentivo molto più italiano allora di quanto sia portato a sentirmi oggi. Questo è il paradossale percorso delle identità. Credo che valesse anche per Alex. Avevamo in comune questi nomi … non proprio “Mario Rossi”. Anzi lui forse aveva un accento straniero più marcato del mio. Però, quali che fossero le nostre identità di origine, le nostre matrici, i posti da cui venivamo, dentro a Lotta Continua questo era molto meno rilevante. Non ci veniva chiesto.
Certo, io ero un ebreo, nato a Beirut, con parenti provenienti da varie parti d’Europa, i genitori e quasi tutti i nonni nati in Palestina… Però non contava, non mi capitava neanche di parlarne con gli altri. Oggi conta enormemente di più e credo che questa non sia una bella notizia.
Alex aveva nove anni più di me, era un uomo che aveva già molto vissuto, con molte esperienze. Io ero appena un ragazzino che si ritrovava nella sede di Lotta Continua a Roma (e guarda caso anche nella stanza della commissione/redazione esteri, dove c’era Lisa Foa con la sua giacchettina cinese impeccabile). Probabilmente io ero richiamato, in quella condizione omologante, a superare la stranezza del mio nome e cognome e a identificarmi interamente nel progetto. Al punto che - cito una fatto di cui mi vergogno molto anche se anonimo - forse nel ‘76 o nel ‘78, quando all’ONU fu votata una risoluzione in cui si equiparava il sionismo al razzismo, scrissi io l’articolo su Lotta Continua, anonimo, nel quale si diceva che l’approvazione era una buona cosa, giusta… Anche se naturalmente non lo pensavo affatto. Alex, per la sua storia probabilmente, per le diverse sensibilità che gliene derivavano, era invece quello con cui si poteva parlare anche delle proprie origini. Per esempio anche del fatto che sì, eravamo uniti dal progetto della militanza, della trasformazione della realtà, però, guarda un po’, io ero anche uno che voleva bene ad Israele, c’era la mia famiglia, la mia storia. Così la mia critica, netta, alle politiche dei governi israeliani non toglieva il fatto che, quando nei cortei si gridava “Al-Fatah vincerà!”, a me, come minimo, non mi bastava.
Ecco, Alex era uno con il quale di questo potevi parlare e in più lo traduceva immediatamente in azione. Diceva: Gad, parti, vai in Israele, organizziamo delle cose, tu parli l’ebraico, contatta l’opposizione israeliana… Fu lui a incoraggiarmi a fare diversi viaggi di quel tipo. In uno - per me memorabile per l’imbarazzo - andai a parlare al congresso delle Pantere nere israeliane, riunite nella città di Be’er Sheva, al limitare del deserto del Negev. Qui, nel mio pessimo ebraico che avevo scritto in caratteri latini traslitterati per cercare di balbettare il meno possibile, cercai di contattare persone che avrei in seguito portato anche in Italia. Naturalmente andai anche in Cisgiordania a parlare con i sindaci palestinesi dell’epoca e organizzai quindi il loro viaggio qui in Italia, per fare incontrare in via Dandolo 10, israeliani e palestinesi.
Già allora l’idea era facciamoli incontrare, usiamo il fatto che io parlo l’ebraico per farli incontrare, per incrociare le persone. Ci sembrava di fare cose importantissime ed eravamo molto emozionati quando li mettemmo insieme. Ed erano le prime volte che accadeva.
Poi, ripeto, è cominciato a diventare più importante, ad accentuarsi il peso del “da dove vieni”, di qual è l’identità che ti è attribuita. Un’identità che in buona misura ti sei elaborato tu: quindi parecchio inventando, manipolando, perché gran parte delle identità di cui ciascuno di noi oggi si riempie la bocca, sono operazioni inautentiche, artificiali, elaborate ex post. Questa nostra ossessiva ricerca dell’autenticità, dentro una condizione esistenziale contemporanea sradicata, metropolitana, ci porta così a ricercare, a inventare, cosa possa esserci stato prima di noi, sulla base di racconti, suggestioni e desideri.
Io credo allora che il contributo di Alex sia stato prezioso nel portare rispetto alla ”Heimat”, ma senza mai lasciarsene imprigionare. Invece, l’operazione insidiosa del rendere decisivo l’elemento della differenza, è stata un’operazione ideologica, ma anche un’operazione culturale, portata avanti e cresciuta da più parti, in luoghi insospettati e anche dentro di noi.
Potrei descrivervela nella elaborazione molto efficace, e che per certi versi ha vinto, della nouvelle droite. E cioè l’elaborazione dell’idea che il paradigma universalistico delle culture giudaica, cristiana e illuminista, secondo cui gli uomini sono tutti fondamentalmente uguali, sarebbe un falso, una costruzione artificiale, perché la natura ci ha fatti diversi. Al pari non significherebbe essere razzisti (nel senso classico del XX secolo, cioè nell’affermazione della superiorità di una razza sull’altra) affermare che comunque per i neri è sempre meglio restare a casa loro, perché se vengono qui soffrono tantissimo e nello stesso tempo impediscono a noi autoctoni di vivere autenticamente i nostri costumi, le nostre culture.
Ma questo è il versante di destra dell’elogio della differenza, è l’oblio di un fatto fondamentale, oltre che elementare, cioè che la parola ‘identità’ non a caso ha la stessa radice linguistica della parola ‘identico’; o che è sempre molto, ma molto di più quello che mi accomuna a qualsiasi altra persona che non quello che mi distingue da quella persona...
Vi dicevo però che questo preoccuparci della distinzione è cresciuto anche dentro le nostre fila. Non voglio aprire un dibattito che sarebbe fuori tema e che vi proporrei in modo solo superficiale, ma persino l’elaborazione del pensiero della differenza di parte femminile e femminista ha contribuito in noi ad accrescere quello che è diventato un vezzo, una moda, persino un narcisismo. Come dicevo prima, appunto: l’esaltazione del fascino dell’unicità della propria condizione. “Io vivo un’esperienza unica.” Come tale non posso scendere a compromessi con l’altro, perché devo proteggerla e custodirla. E per custodirla la condizione necessaria è la separazione. Solo separandomi io posso custodirla.
Io questo lo vedo particolarmente in quella che considero una involuzione, un processo negativo, interno alle comunità ebraiche. Persino il gusto con il quale andiamo a leggerci la letteratura ebraica o andiamo a esaltare la raffinatezza di alcune espressioni della cultura ebraica viene spesso interpretato in questa chiave, in questa logica: proteggiamo qualcosa che altrimenti andrebbe perduto. E lo possiamo proteggere soltanto vivendoci come comunità separata. Ma questo è l’esatto contrario del processo culturale di universalizzazione della propria cultura, della propria relazione con il mondo, che aveva accompagnato l’emancipazione ebraica in Europa: “l’uscita dal ghetto”. Lo stesso movimento sionista era nato perché gli ebrei chiedevano di poter finalmente avere gli stessi diritti degli altri, di potere essere finalmente considerati uguali agli altri. Non diversi. E senza quella paura ossessiva: aiuto! se mi mescolo, se vado incontro, se metto la mia identità in relazione con le altre questo comporta la mia assimilazione, la mia cancellazione. Che l’integrazione e l’emancipazione possano voler dire “assimilazione” è una visione pessimistica del futuro. Non a caso la ritroviamo oggi nelle componenti più tradizionaliste della Chiesa cattolica che nella secolarizzazione dell’Europa, nel rifiuto di indicare le radici cristiane nel preambolo della costituzione o nella presunta “invasione” islamica del vecchio continente vede la premessa a una cancellazione della presenza cristiana, una Chiesa che non si riesce a immaginare all’altezza dei nuovi tempi e dentro alla nuova realtà “contaminata”. Si dà per scontato che questo cancellerebbe ecc.
Da qui - fino a questo momento, evidentemente, vi ho parlato dell’egomania o dell’egocentrismo come malattia molto diffusa oggi - passiamo alla flessibilità delle identità.
Nel punto 5 del decalogo di Alex c’è la richiesta di “consentire una nozione pratica più flessibile e meno esclusiva dell’appartenenza e permettere quindi una sorta di osmosi tra comunità diverse”. Quando penso a questi concetti così generali li traduco, di nuovo, nell’esperienza personale. Io ho cinque figli, anche se alcuni sono acquisiti. Sono tutti e cinque ebrei anche da un punto di vista formale, nel senso che i primi quattro hanno già celebrato la propria maggiore età (bar-mitzvah) e il quinto che è più piccolino ha già fatto il miqvel, quella che si chiama una conversione, oltre che la circoncisione. Ma sono cinque ragazzi ebrei tutti figli di donne cristiane... Questo potrà terrorizzare forse qualche rabbino integralista, che non avrebbe accettato di convertirli, ma che oggi in base alla legge, alla tradizione, deve accettare il fatto che sono ebrei. Così come è ebrea mia nipote, Asnia, che è stata adottata all’età di cinque anni da mia sorella ed è una bambina rom. In quel caso non c’è stato neanche bisogno di convertirla perché è diventata “figlia di madre ebrea” nello stesso istante in cui è stata adottata legalmente. L’elemento della consanguineità – pensiamo anche alle polemiche intorno al recente referendum – scompare di fronte a relazioni familiari nuove, ad affetti che crescono in questo modo. Non credo di andare fuori tema se parlando di flessibilità vi cito non soltanto l’esigenza che diverse comunità etniche convivano, si parlino, si frequentino, ma vi cito anche storie più personali. Io sono convinto che oggi, nel terzo millennio, non ci sia da avere paura del fatto che vi siano anche bambini ebrei, figli di donne cristiane. Dov’è l’assurdo? È nuovo, è un cambiamento in atto nella condizione dell’identità ebraica che non ci deve, non ci può terrorizzare.
Da questo punto di vista io credo sia chiaro come e perché arriviamo all’ultima categoria cioè a quella del tradimento, auspicato da Alex. “Si devono valorizzare le persone e le forze capaci di autocritica verso la propria comunità: veri e propri traditori della compattezza etnica che però non si devono mai trasformare in transfughi, se vogliono mantenere le radici e restare credibili.”
Ecco, Alex, a me nel ’75, chiedeva di non diventare un transfuga. Diceva: tu vivi un disagio, detto o non detto, nel militare in una sinistra rivoluzionaria interamente ed esclusivamente filopalestinese, che non ha amore per Israele? Bene, non diventare un transfuga per restare con noi. Lavoraci dentro. Sii traditore.
Il traditore è quello che sa elevare il momento del dissenso e farne battaglia politica. Sa andare a fare il sit-in degli ebrei sotto il consolato israeliano, la mattina dopo la strage di Sabra e Chatila, beccandosi pure del “traditore”. Ma poi scoprendo che dentro la società israeliana crescono le posizioni critiche che chiedono di superare la fase in cui, non i leader della destra israeliana, ma i leader laburisti israeliani, come Golda Meir, dicevano testualmente: i palestinesi non esistono. Questa cosa è cambiata ed è cambiata anche grazie ai traditori.
Io penso quindi, in conclusione, che anche Alex sia stato questo. Credo che, qui, lui sia stato spesso accusato di tradimento, in particolare della comunità tedesca, ma che questo sia stato un suo elemento di forza. E il punto di partenza probabilmente gli deriva da quella capacità che è rarissima, quasi unica, che taluni di noi assegnano addirittura alla santità, nella misura in cui la santità è la capacità di farsi carico, sulle proprie spalle, dei dolori del mondo. E ciò non retoricamente: molti si proclamano buoni e molti si proclamano indignati per ogni bambino che muore in Africa, ma sappiamo che non è possibile considerare le morti tutte uguali, è al di sopra delle forze della natura umana. Questa santità non è possibile.
Quella caratteristica di Alex di pensare sempre di doversi far carico dei mali e delle sofferenze che incontrava (probabilmente anche la stessa che lo ha perduto, che lo ha portato a non farcela più e a togliersi la vita dieci anni fa), è stata il motivo per cui ha saputo entrare in relazione con le sue identità e con le identità altrui, con le minoranze - le regioni d’Europa, una visione quindi autonomistica e composita di questa realtà europea - senza diventare schiavo delle identità. Sempre, io credo, prendendole come è giusto con le dovute precauzioni e in modica quantità. Altrimenti davvero le identità possono fare malissimo e possono uccidere, ma soprattutto sono false, sono invenzioni posticce e contemporanee.
A meno che noi non riusciamo, grazie anche a decaloghi come questo, a saperle mettere in relazione una con l’altra.

Gad Lerner è giornalista e scrittore

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