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Premio internazionale "ALEXANDER LANGER" 2003 alla memoria di Gabriele Bortolozzo all’Associazione “Gabriele Bortolozzo” di Mestre-Venezia

6.7.2003, una città
Cerimonia assegnazione premio Alexander Langer all’Associazione “Gabriele Bortolozzo”
Euromediterranea 2003 – Bolzano 6 luglio 2003– Sala di Rappresentanza del Comune

ore 10 – Proiezione del film “Porto Marghera, un inganno letale” di Paolo Bonaldi
Testimonianze di: Beatrice e Gianluca Bortolozzo, Paolo Bonaldi, Franco Rigosi, Michele Boato, Ferruccio Brugnaro, Anna Segre. Moderatore: Gianni Tamino

Premiazione

Intervento di Gianni Tamino, vice-presidente comitato scientifico Fondazione

Dico subito, dopo la visione di questo film [“Porto Marghera, un inganno letale” di Paolo Bonaldi, ndr.] che, anche per chi lo ha già visto, ogni volta, dà delle emozioni fortissime. Vedendo questo film credo che tutti abbiano potuto capire il senso della vita di Gabriele Bortolozzo; ma anche il senso di quelle che sono state le lotte all’interno delle fabbriche nei decenni passati; anche la difficoltà di far passare determinate idee, la solitudine a volte tra gli stessi compagni di lavoro e nello stesso tempo quale sia oggi la prospettiva dopo troppi anni che Gabriele non c’è più. Dico ‘troppi’ anni perché oggi abbiamo bisogno di persone come Gabriele: perché i problemi sono oggi, purtroppo, tali e quali. Come avete avuto modi di vedere alla fine del film, il processo voluto da Gabriele si è concluso - cosa ben nota - con l’assoluzione di tutti gli imputati. Diceva bene nel film Michele Boato: che la prima soddisfazione era che quei signori fossero sul banco degli imputati. Bene, oggi noi dobbiamo dire che sono ancora sul banco degli imputati, perché il processo di appello li vede ancora sul banco degli imputati. E abbiamo bisogno della forza di persone come Gabriele perché la conclusione di questo processo di appello non sia la stessa del primo processo. Affinché non si arrivi alla vergogna di vedere che le affermazioni che dimostrano la colpevolezza dei dirigenti delle varie società che si sono succeduti (perché sono cambiati il nomi ma non è cambiata la sostanza), quella documentazione che dimostra in maniera certa la loro responsabilità, nella sentenza è stata rovesciata. Si ammette che si sapeva, si ammette che c’erano stati degli atti, di fatto criminali, nei confronti dei lavoratori, ma si giustificano i dirigenti, l’azienda. Ecco, questo rovesciare nella sentenza quella che è la realtà dei fatti, è una cosa che bisogna in futuro evitare attraverso una precisa mobilitazione. Il premio alla memoria a Gabriele Bortolozzo, in qualche modo rappresenta un investimento per il futuro, per andare avanti rispetto a quello che è il processo a Marghera. Ma ricordando un’altra cosa: che contemporaneamente, in tutta Italia, altri processi contro altri polichimici, altri petrolchimici, sono in corso, da Manfredonia a Brindisi, a Priolo, a Mantova, e altri probabilmente ne verranno. Credo che ci sia anche Rosignano, dove la Solvey è la fabbrica che per prima ha introdotto la lavorazione del PVC, del CVM in tutta Italia. Quindi c’è una situazione diffusa. Un po’ tutta l’Italia vive il problema delle sostanze chimiche cancerogene. Anche Bolzano, attraverso il problema delle acciaierie Valbruna, ha visto cosa significa il problema di un inquinamento diffuso. Non c’è parte dell’Italia, non c’è parte del nostro territorio dove non ci sia una fabbrica che utilizza sostanze cancerogene. Non è solo ovviamente il CVM, a Marghera per esempio è anche la diossina, ma la diossina è in tante altre parti. In altre parti sono stati i coloranti, in altre parti l’amianto, i metalli pesanti cancerogeni come il cromo e così via. C’è una diffusione su tutto il territorio di situazioni che vedono in Marghera qualcosa di emblematico. È importante rovesciare la sentenza di Marghera e in qualche modo vorremo anche oggi dare un contribuito in questa direzione. É con quest’auspicio che io penso bisogna ricordare il grande insegnamento di Gabriele. Per questo motivo adesso chiamerò delle persone a darci una loro diretta testimonianza sulla persona. Darò la parola per primo al regista di questo film, che credo abbia suscitato fortissime emozioni in tutti noi. Chiedo quindi a Paolo Bonaldi di esporre quello che sono state le sue sensazioni nella realizzazione di questo film.

Paolo Bonaldi, regista
Le prime volte che questo film veniva proiettato io non ero così emozionato come ultimamente mi capita quando lo rivedo in pubblico. É come se vedendolo con le persone lo capissi di più, come se passassi dalla dimensione tecnica del mio lavoro, che è raccontare delle storie, ad una sensazione più diffusa che mi arriva da chi lo guarda. Per questo sarò molto breve. Colgo l’occasione, come già altre volte, per ringraziare tutti i protagonisti, ma non mi è mai capitato invece di ringraziare tutte le vedove, tutti i figli, che hanno partecipato a questo film rivivendo dei drammi terribili. Ecco credo che anche il papà di Beatrice e Gianluca, probabilmente sarebbe d’accordo nel sentirli come co-protagonisti di questa storia che parla di lui e della realtà di Marghera. Grazie.

Gianni Tamino
Dopo aver sentito il regista di questo film, vorremmo adesso offrire alcune testimonianze di chi ha conosciuto Gabriele Bortolozzo - li avete già visti nel film stesso - e ha condiviso almeno una parte del suo percorso. In qualche modo mi metto anch’io tra questi, sia perché mi sono occupato di Marghera nei primi anni Settanta, quando si diffuse la conoscenza della cancerogenicità del CVM, sia perché mi occupavo di mutagenesi, cancerogenesi. In effetti fu il dipartimenti della medicina del lavoro dell’università di Padova che si occupò di questi problemi. Ma soprattutto perché con Gabriele ho condiviso, negli anni ottanta e novanta, alcune delle sue battaglie e nel 94 lui venne nel mio studio all’università a portarmi tutto il materiale che intendeva portare al pubblico Ministero di Venezia Felice Casson e che ha dato poi avvio al processo. Quindi, in questo momento mi sento particolarmente in causa. Ma vorrei che le testimonianze venissero anche dalle persone che avete visto nel film. Quindi invito Franco Rigosi. E’ un ingegnere chimico, fa parte dell’associazione Gabriele Bortolozzo e di Medicina Democratica; con Gabriele fin dai primi anni 80 aveva fondato il Movimento dei consumatori veneti.

Michele Boato, Eco-istituto Veneto Alex Langer
Buongiorno a tutti. Con questo premio si uniscono idealmente due persone con le quali ho molto collaborato e a cui ho voluto molto bene. Una è Alex Langer che ci ha lasciato il 3 luglio di 8 anni fa, e l’altro è Gabriele Bortolozzo che casualmente anche ci ha lasciato otto anni fa, qualche giorno dopo, il 12 settembre. E si uniscono nel nome della Fondazione Alex Langer, ma anche dell’Eco-istituto del Veneto che in questo momento un po’ rappresento, attivo dal ‘96, che porta il nome di Alex Langer, e nel nome dell’associazione Gabriele Bortolozzo, promossa dai figli, da Franco Rigosi che avete già sentito, da Luciano Mazzolin che è qui presente, suo compagno di lavoro e di lotte. C’è una sintonia fra queste due persone diversissime, che voglio segnalare. Già Franco prima ne ha fatto cenno.
È per esempio il caso dell’obiezione di coscienza. Alex la fa alle gabbie etniche e viene preso, lui e coloro che lo hanno fatto con lui, come pazzo. Gabriele la fa alle produzioni nocive. Assieme però a questi gesti più radicali vi è anche però la sensazione di lavorare per piccoli passi. Alex lo faceva per il Kossovo, cercando in tutte le maniere di impedire una guerra che poi c’è stata; Gabriele lo faceva con cose che anche allora sembravano piccole, ma erano enormi. Come quella della mensa biologica, che non ha ottenuto, anche se almeno ha ottenuto l’introduzione del menù vegetariano. E comunque oggi c’è una legge che obbliga ai prodotti biologici negli ospedali, nelle scuole. Una legge mal applicata in Italia. Ma è legge. E anche quello è stato un inizio di quella battaglia. Due matti.
Avete visto nel film le immagini di quella notte, nel gennaio dell’87, quando con le barche abbiamo bloccato per un ora la nave che trasportava 3500 tonnellate di fosfati e le scaricava appena fuori della laguna di Venezia. Si sapeva di quella nave già alla fine degli anni 70. C’era un comitato contro le lavorazioni nocive che l’aveva in qualche maniera segnalato, ma era rimasta lì quella segnalazione, poi ce n’eravamo dimenticati. Gabriele l’ha ripresa nell’84-85 ed è diventata una battaglia vinta. Io voglio segnalarlo perché quella battaglia è stata vinta. E non dobbiamo dimenticarci che la sconfitta, tra virgolette, del processo è uno degli episodi. Quella battaglia ha portato una serie di ministri, dapprima De Lorenzo, poi altri della sanità e dell’ambiente, a bloccare prima, poi riautorizzare, poi a bloccare definitivamente questa infamia dello scarico a mare. Le iniziative sono state azioni dirette: una volta con un peschereccio, partendo da Chioggia, abbiamo fatto una specie di rincorsa. Un’altra volta con una lancia - avete visto quando aprivamo gli striscioni - abbiamo fatto una rincorsa più riuscita. C’erano sei televisioni con noi su quella lancia, che hanno ripreso lo scarico a mare di questa nave. E questi signori ci hanno fatto di tutto veramente, li hanno ripresi con la televisione. Poi la polizia quel giorno ci ha accompagnati con l’elicottero e due motovedette, bloccandoci a Venezia, all’arrivo. E prendendo i nomi di tutti, compresi i bambini di 5-6 anni, che erano i figli di due giornaliste che erano nella lancia con noi. Una era Antonella Barina e l’altra una giornalista della Rai. Ed è stata una battaglia con il blocco della nave, addirittura uno sciopero degli acquisti - allora la Standa era proprietà Montedison - per una settimana invitammo a non comprare alla Standa, da Venezia fino a Palermo, in settanta città. La cosa alla fine è stata vinta. L’altra battaglia, quella dei CVM, non è ancora stata vinta e però, lo ha ricordato anche Franco Rigosi prima, non è una battaglia che è finita. La rottura dell’omertà la dobbiamo a Gabriele. Un’omertà totale. L’omertà degli industriali nel dire: non bisogna far sapere. Ci fu un incontro famoso, all’aeroporto Kennedy di New York, in cui le industrie chimiche di tutto il mondo che producevano il CVM, avevano deciso questo, in presenza del professor Maltoni, che aveva fatto l’inchiesta, aveva scoperto che era cancerogeno ed era stato obbligato a non rendere pubblica l’inchiesta. Resa pubblica però l’anno dopo perché una fabbrica americana aveva rotto le consegne, poichè c’erano troppi morti. E poi ancora le omertà dei politici che da una parte facevano le manifestazioni con i loro striscioni e dall’altra sapevano esattamente degli omicidi in corso. E l’omertà dei sindacati la cosa più grave, gravissima. Sindacati che non sono solo rimasti in silenzio ma hanno attaccato frontalmente Gabriele, affermando che diceva falsità, che non erano cose vere, che i numeri non erano quelli, che aveva degli interessi personali per fare quello che stava facendo. Uno di questi sindacalisti, dieci giorni fa, con vergogna, è stato nominato consulente di un assessore comunale di Venezia. È successa l’ira di dio a Venezia, dentro il suo partito e in tutta la città. Perché si sa quello che questi signori hanno combinato nella loro carriera. Era stato liquidato questo sindacalista dalla Montedison, con 500 milioni, tre anni fa, un premio di buon servizio. Questa battaglia la voglio dire, perché Gabriele è vivo anche per queste cose. Perché di lui si parla anche oggi, anche per questi motivi. Prima la sua obiezione di coscienza, poi la raccolta dei dati, poi le denunce quasi quotidiane con Luciano Mazzolin e con Medicina democratica. Poi l’esposto al p.m. Casson. Ebbene il fatto che il 28 novembre scorso siamo stati a venti metri da Bhopal, così si dice, perché venti metri ci hanno diviso a Marghera dall’incendio, dallo scoppio dell’impianto del fosgene. Attenzione: a Bhopal era MDI, a Marghera era TDI. La stessa cosa, identica. Quel fatto ha fatto capire all’intera città che non era un pazzo Gabriele, non erano pazzi coloro, non molti per la verità, che con lui denunciavano il pericolo, le morti e che propongono un futuro diverso, per questa città e anche per questa zona industriale. Uno di questi è il poeta operaio Ferruccio Brugnaro, che oggi purtroppo non può essere qui ma di cui verrà letta una poesia, che denuncia appunto la sentenza dell’assoluzione. E tanti altri singoli operai. Gabriele non era solo, Gabriele come Luciano, come Ferruccio, era collegato ad una serie di singoli operai che hanno avuto una forza enorme nel mantenere viva questa questione. Enorme. Era come un po’ quando i soldati dentro l’esercito organizzavano la lotta democratica, cioè una lotta che ha 10 - 20 valori in più di qualsiasi altra lotta democratica che possiamo fare all’esterno della fabbrica, o nella scuola, ecc. Prima la vita e poi tutto il resto. Lavoro sì ma non di morte. E io risento nelle sue parole in particolare l’eredità di queste quattro persone, due vive, due sono morte. Non vorrei che ricordassimo le brave persone solo quando sono morte. Quelle morte sono Giulio Maccaccaro e Laura Conti in cui vivevano Medicina democratica e Lega Ambiente. E poi due vive, una è Luigi Mara che abbiamo visto nel film, e che era, alle sue spalle, il suo retroterra scientifico. L’altra è Giorgio Nebbia, anche lui, sempre dalle retrovie, ha sostenuto con forza enorme le nostre battaglie sui fanghi, dandoci materiali, portandoci di tutto.
Per dire: ci sono delle alternative. Questi processi in corso devono tutti qualcosa a Gabriele, quello di Brindisi, quello di Manfredonia, quelli di Mantova: quello di Brescia della Caffaro, di Scarlino della Farmoplant. Sono nati tutti in questo humus di cui Gabriele è certamente una delle figure emergenti: gli dobbiamo tutti qualcosa.

Gianni Tamino
Michele ha già anticipato che uno dei compagni di iniziative a tutto campo, anche di riflessioni, di Gabriele, è stato Ferruccio Brugnaro. E quindi non avendo al possibilità di avere direttamente qui l’operaio poeta Ferruccio Brugnaro, chiediamo a Mao Valpiana di leggere una sua poesia. Però voglio ricordare l’enorme quantità di poesie che potete leggere in raccolte, in libri, ma in gran parte disponibili anche sulle riviste che vi ho citato prima, Sia Medicina Democratica sia Gaia pubblicano le poesie di Brugnaro.

Mao Valpiana legge: Tutti assolti al processo per le morti al petrolchimico.

Lavoravamo tra micidiali veleni
Sostanze terribili, cancerogene.
Non affermate ora, furfanti e ladri di vite
Che non c’era alcuna certezza
Che non c’erano legislazioni.
Non dite
Non dite che non sapevate.
Avete ammazzato e ammazzate ancora
Tranquilli, indisturbati, tanto il fatto non sussiste.

I miei compagni morti non sono mai esistiti
Sono svaniti nel nulla
I miei compagni operai morti non possono tollerare questa vergogna
Non possiamo sopportare questo insulto
Nessun padrone
Nessun tribunale potrà mai recingerci
di un così grande infame silenzio.

Ferruccio Brugnaro, 5 novembre 2001

Gianni Tamino
Questa poesia, in qualche modo, riapre, rilancia il problema di andare avanti verso le prossime scadenze che abbiamo di fronte. In qualche modo con questo premio si vuole anche dare forza a queste iniziative. Prima della premiazione vera e propria chiedo ad Anna Segre di leggere le motivazioni, che in gran parte sono già evidenti dal film e dalle testimonianze.
Anna Segre, vice-presidente della Fondazione Langer
Vorrei abusare della vostra pazienza ancora per due minuti, proponendovi oltre che la lettura delle motivazioni del premio, una riflessione che sarebbe molto cara alla mia amica, sorella - perché non c’è un analogo femminile per dire ‘fraterna’ - Anna Bravo che, non stando bene di salute, non è qui con noi oggi ma a cui dobbiamo, come Fondazione Langer, l’idea di dare il premio 2003 a Gabriele Bortolozzo. E quindi penso a lei in questo momento e penso che le motivazioni che vi leggerò dopo sono transitate per molto tempo tra i nostri computer per riuscire a esprimere al meglio il senso di gratitudine che sentiamo verso Gabriele Bortolozzo. . Ed un pensiero va anche agli altri premi, agli altri sette premi che già sono stati consegnati, in questa ancora breve vita della Fondazione, breve, ma ricchissima di nuovi e proficui incontri.. E perché il ricordo sia concreto mi piace almeno nominare le persone che hanno ricevuto il premio. Il primo premio, nel 1997, è andato a Khalida Messaoudi. L’anno successivo a Yolande Mukagasana e Jacqueline Mukansonera. Nel 1999 a Ding Zilin e Jiang Peikun. Nell’anno duemila a Natasa Kandic e Vjosa Dobruna. Nel 2001 a Sami Adwan e Dan Bar-On. L’anno scorso, nel 2002 a Esperanza Martinez.
Noi della Fondazione Langer siamo molto fieri di tutti questi premi. Perché sono andati a persone che incrociano la loro vita privata, la loro vita di lotta contro o per qualche cosa, alla loro vita pubblica, cercando sempre di migliorare situazioni al limite del possibile. Mi preme sottolineare qualcosa che non è ancora venuto fuori oggi. Non che io non abbia da raccontare, volendo, storie analoghe a quelle del Petrolchimico di Marghera, anche se di più limitato impatto e senza un leader riconosciuto come Gabriele Bortolozzo, capitate nella mia regione. Basta fare un nome e tutti gli ambientalisti sobbalzano. L'Acna di Cengio. E’ stata sulle cronache per anni e anni. Così come la miniera a cielo aperto di Balangero, l’unica in Europa, prima che fosse bandito l’amianto dalla produzione, è stata anch’essa una miniera di morte.
Allora, quello che vorrei sottolineare e che non è ancora stato evocato qui, oggi, è l’importanza della memoria e di quella famigliare, in particolare. Ci troviamo davanti a una figura, Gabriele Bortolozzo, che ha ben usato la sua vita per fare tutto quello che abbiamo visto nel film e ci hanno raccontato i testimoni. Certo ci sono le carte dei processi, ci sono gli articoli su “Medicina Democratica”. Ci sono gli articoli su “Una città” che già nel ‘99, ha ripescato questa storia ricca di significati, come sovente fa questa rivista. Però ci sono anche i figli. Quelli che abbiamo qui oggi al nostro fianco. Beatrice e Gianluca. Forse senza di loro questa storia non sarebbe arrivata alle tante persone a cui è arrivata avendo visto il film, letto il libro, e che ancora avranno l’occasione di leggere libri, di veder il film. Non sono tanti i casi in cui capitano queste cose. Lo so anche per esperienza personale. Molte volte queste carte stanno nel cassetto di casa e bisogna avere quasi lo stesso coraggio di chi ha combattuto, per tirarle fuori, per renderle pubbliche. Non solo quindi gli atti del processo, ma gli appunti personali del loro padre, le sue riflessioni sui casi di malattia, costituiscono la memoria intera di questa vicenda. Voglio sottolineare tutto questo perché a volte manca la memoria nelle istituzioni collettive, dove ci aspetteremmo dovrebbe essere depositata. E allora la memoria dei figli viene a supplire questa memoria che non c’è. E penso sia molto molto importante. E quindi vorrei ringraziare Beatrice e Gianluca per aver continuato l’opera del loro padre, e anche tutti i loro figli, che abbiamo avuto il piacere di conoscere, che certamente avranno un nonno da ricordare. E sono, è giusto nominare anche loro: Federica, Leonardo e Mattia.
Vengo alla lettura delle motivazioni ufficiali per il conferimento del Premio. Ma devo dire che mai come quest’anno abbiamo utilizzato sì la storia di Gabriele Bortolozzo nelle sue lotte al Petrolchimico, ma abbiamo guardato molto alla sua vita, ispirandoci anche al bel titolo del libro “L’erba ha voglia di vita”. Quindi un Bortolozzo impegnato in fabbrica ma anche un Bortolozzo impegnato nella difesa della natura.

All’Associazione Gabriele Bortolozzo il Premio Internazionale Alexander Langer 2003

Il Comitato scientifico e di Garanzia della Fondazione Alexander Langer, composto da Renzo Imbeni (presidente), Gianni Tamino (Vicepresidente), Anna Bravo (relatrice), Ursula Apitzsch, Patrizia Failli, Annamaria Gentili, Liliana Cori, Pinuccia Montanari, Margit Pieber, Alessandra Zendron, ha deciso di attribuire il premio Internazionale "Alexander Langer" 2003, dotato di 10.000 Euro, alla memoria di Gabriele Bortolozzo per tramite dell’associazione che porta il suo nome.

E’ difficile immaginare una lotta più solitaria e pionieristica di quella che Gabriele Bortolozzo, operaio al Petrolchimico di Porto Marghera, inizia nei primi anni settanta contro l’uso nello stabilimento del cloruro di vinile monomero (Cvm). All’epoca il sindacato locale è concentrato sul tema della difesa del posto di lavoro, la sensibilità ecologista è minoritaria, gli organismi preposti al controllo della nocività e la magistratura sono sordi alla questione Cvm. Si sa poco e non si fa niente per sapere, con il risultato che nel corso degli anni si arriverà a 260 vittime (157 operai morti e 103 ammalati) e alla devastazione della laguna.
Nel 1973, subito dopo aver saputo che l’Oms ha riconosciuto gli effetti cancerogeni del Cvm, Gabriele Bortolozzo dà il via a un lungo scontro con il colosso chimico. Non accetta di farsi visitare nell’infermeria di fabbrica precisando di non fidarsene; protesta perché agli operai ammalati si fanno mancare le cure; di anno in anno accumula esposti e denunce sulla nocività nei reparti e sull’inquinamento ambientale, e si impegna per promuovere una campagna di opinione contro lo scarico nel mare Adriatico dei fanghi Montedison. E’ il primo operaio in Italia a dichiararsi obiettore di coscienza alle produzioni nocive e a rifiutarsi pubblicamente di lavorare nei reparti del Cvm, tra i primi a sollevare il problema dello smaltimento e occultamento all'estero dei residui tossici delle lavorazioni.
Nel frattempo svolge una inchiesta capillare per censire le vittime del Cvm. Parte dalle persone che conosce, e seguendo i fili delle relazioni allarga il campo di ricerca; forte della sua conoscenza del ciclo produttivo, mette insieme liste di nomi reparto per reparto, raccoglie le schede mediche, parla con gli ammalati e con le vedove; un passo dopo l'altro, una notizia dopo l'altra, scopre i casi e li cataloga. A questo lavoro da detective accompagna lo studio. Si procura tutti i dati disponibili della Montedison, dell’Oms, di fabbriche simili all’estero, esamina i risultati e a volte li corregge e li integra, dove c’era il vuoto fa nascere un patrimonio di conoscenza. E diventa, prima di qualsiasi medico, magistrato o specialista, il vero esperto della nocività del Cvm. La risposta aziendale è una serie ininterrotta di soprusi, fino all’isolamento in un reparto confino. Ha dalla sua parte la Commissione Ambiente del Consiglio di Fabbrica, ma il sindacato nel suo complesso non lo sostiene.
Negli anni novanta Bortolozzo è meno solo. Sull’onda della crescente attenzione ecologista e quindi anche dell’interesse per i suoi dossier su problemi di inquinamento, viene invitato a convegni e dibattiti, e va a parlare in alcune scuole, l’attività che gli sta più a cuore. Stringe rapporti con Medicina Democratica, e nel 1994 pubblica sulla rivista del gruppo un dossier sulle morti e malattie da Cvm al Petrolchimico; nello stesso anno presenta al Pubblico Ministero di Venezia Felice Casson un esposto che sarà la base delle indagini per il processo contro i dirigenti Montedison ed Enichem iniziato nel ’98 e conclusosi con una generale assoluzione nel 2001, ma con una forte crescita di consapevolezza sulla necessità di costruire strumenti di tutela dei cittadini e dei lavoratori dai danni ambientali.
Questa è una storia importante, lungo la quale Bortolozzo sceglie costantemente di fare da ponte fra diritti/bisogni spesso contrapposti, come quello di avere un lavoro e quello di preservare salute e ambiente. Ma non è tutta la sua vita. Lontanissimo dal “lavorismo” tanto diffuso nel movimento operaio, Bortolozzo è un uomo che si dedica ai figli e ai rapporti umani, un uomo attento al bello, alle piccole cose, al privato, al “superfluo”, che per sé e per gli altri vuole il pane, ma anche le rose; che spende tempo e energie per approfondire la conoscenza del territorio, dei fiumi, della flora, della fauna, e sa distinguere centinaia di uccelli dal canto e ricostruire gli itinerari veneti di Hemingway. Il pensionamento dà più spazio a queste passioni. Studia, organizza per amici e scononosciuti gite ciclo-botaniche nei dintorni della sua casa, e escursioni a tema su un artista o sull’architettura di un dato periodo storico, per esempio le ville del Terraglio e della riviera del Brenta, i paesini costruiti intorno al fiume o al canale; pensando soprattutto ai più giovani, fornisce schede e materiali informativi. Sono aspetti e modi di vita che rivelano una concezione della mascolinità rinnovata e aperta, in cui la pensione è una gioia anziché una crisi da perdita di ruolo, e un ideale educativo fondato sulla condivisione delle esperienze, sul fare (ancora una volta) da ponte fra persone, temi, punti di vista.
Gabriele Bortolozzo muore il 12-9-1995 a Mogliano Veneto, investito mentre pedalava sulla amata bicicletta. L'Associazione a lui dedicata, creata dai suoi figli Betarice e Gianluca con altri amici e estimatori, è impegnata per la salvaguardia del patrimonio culturale e ambientale del territorio veneto. Ha partecipato al processo contro l’Enichem, creato due borse di studio, sviluppato un sito Internet per divulgare la propria attività e costituire una biblioteca telematica. Ha pubblicato, postumo, il libro di Gabriele Bortolozzo L'erba ha voglia di vita, l’inchiesta “Terra, Aria, Acqua, Valutazione o Svendita”, il volume “Processo a Marghera”.
Di fronte all’urgenza di “globalizzare” il diritto al lavoro e insieme la tutela della vita umana animale e ambientale, di fronte alla deriva efficientista che divora il tempo e schiaccia la soggettività e di fronte al rischio di un azzeramento della memoria operaia, la Fondazione Alexander Langer Stiftung vede in Gabriele Bortolozzo una preziosa figura di riferimento e nella Associazione una garanzia per la continuazione dei suoi studi, del suo lavoro e della sua visione del mondo.

Il presidente della Fondazione
Helmuth Moroder

Il presidente del Comitato Scientifico
Renzo Imbeni

Tamino
Come normalmente avviene alla fine di ogni premiazione, chiediamo a coloro che hanno ricevuto il premio di esprimere delle loro sensazioni, dei loro punti vista, che possano permettere di capire oggi cosa si può fare, quali sono le sensazioni, in questo caso anche alla memoria di Gabriele, ma proiettando possibilmente anche al futuro, perché è questo il senso dell’associazione.
Beatrice Bortolozzo
Non ricordo tante giornate così emozionanti come quella di oggi, io sono arrivata qui con una traccia di discorso … [si commuove] .. che non penso veramente di poter più seguire, dopo aver conosciuto tante persone, gli amici di Alex Langer che fanno parte della Fondazione che porta il suo nome.
Vorrei veramente che ci fosse qui papà. Riceviamo questo premio con un velo di tristezza. Vorrei essere stata io lì, seduta ad ascoltare, e lui qui a parlare. È stato detto quasi tutto di papà. Chi era papà… Forse sul piano personale vi posso raccontare ancora qualcosa. Negli anni 50, quando papà è entrato in fabbrica, era un giovane pieno di sogni che faceva parte di una generazione di altrettanti giovani, che avevano visto nello sviluppo economico una promessa di una vita agiata e migliore. Questi giovani hanno creato una nuova classe sociale, alla quale sono state imposte delle regole di una cultura industriale, che non permetteva nessun confronto perché era nuova. Forse la fregatura è stata proprio questa. Il fatto che si promettesse un benessere economico in una situazione in cui la nazione usciva praticamente dalla miseria, e quindi in cambio si poteva chiedere qualsiasi cosa. Forse non stupisce il fatto, non ha stupito nessuno all’epoca, non ha neanche incuriosito nessuno, che nel piano regolatore del ’62 per Venezia - questo lo voglio citare - fosse “autorizzata a Marghera la costruzione di impianti che diffondono polvere ed esalazioni dannose alla vita umana e che scaricano in acqua sostanze velenose”. Forse questo ha permesso, ha dato il via a che ci fosse lo scempio di vita umana e ambientale che poi negli anni c’è stato a Porto Marghera. Nello stesso anno, nel ’62, forse si realizza il sogno più grande di Gabriele: diventa papà. [si commuove] In quell’anno nasce mio fratello, sei anni dopo nasco io. Diciotto anni da turnista sono tanti, soprattutto in un ambiente della fabbrica come quello di porto Marghera. L’ambiente è malsano, il lavoro è duro. Gli operai vengono puniti anche per piccole disattenzioni. Sono molto rigide le punizioni. Dopo diciotto anni che papà lavora lì, scopre nel ‘73, che ha lavorato per diciotto anni, giorno dopo giorno, a contatto con una sostanza cancerogena. Allora iniziano le sue proteste. Non mi dilungo a dire quante sono state e quali sono state. Gli interventi precedenti le hanno elencate meglio di quanto avrei potuto fare io. A casa però noi non sappiamo nulla. Non sappiamo quasi niente di quello che succede. Papà è una persona solare, ottimista, che fa delle nostre curiosità delle vere esperienze di vita, da toccare, sentire, vedere. Io ricordo dei musei che visitavamo insieme, di quando scalzi abbiamo visitato un padiglione della biennale di Venezia, per sentire meglio l’opera d’arte che l’artista aveva realizzato sul pavimento. Di quando accendevamo la televisione - Mtv - e ballavamo insieme. Di tutti i giorni di ferie che lui prendeva perché non voleva assolutamente perdersi le partire di calcio di mio fratello. Oppure quando andavamo in trasferta con la squadra di pallacanestro e tutte le mie compagne di squadra facevano a gara per salire in macchina con noi: era l’unico genitore che permettesse di cantare in macchina, o di fare un po’ le matte… Nel 1985 papà si dichiara obiettore di coscienza alle produzioni cancerogene, e quindi, come dice lui, viene “relegato in un bugigattolo”. Forse quello è il periodo più duro perché viene attaccato da più parti. Viene attaccato per umiliare il suo lavoro, ma per umiliare anche la persona.
Eppure noi ancor non sappiamo niente. Papà ha 51 anni, dice che dopo i 45 anni è iniziato il periodo più bello della sua vita. Era ricco di energia, correva maratone, passava molto tempo in montagna a camminare e a casa non faceva trapelare niente. Lui ha sempre sorriso, non ha mai alzato la voce con noi, ha sempre dialogato. In quegli anni scopre che molti suoi colleghi sono morti e troppi sono morti di tumore. Allora inizia questa ricerca certosina, che diventa una vera e propria passione quando finalmente va in pensione. Ha più tempo a disposizione per studiare, per cercare. Una sua vicina di casa ci dice che la luce della stanza in cui lavorava al computer era sempre accesa, fino a notte inoltrata. Nel 1993 finalmente pubblica il dossier nel quale parla delle morti da CVM. Nello stesso anno accade un altro momento che lui definisce “di massima gioia, di massima realizzazione della vita”, diventa nonno. Nasce [si commuove] il suo primo nipote, l’unico che ha conosciuto. Poi nel ’94 il pubblico ministero Casson lo invita a parlare dell’esposto che lui ha presentato. Non gli sembra neanche vero. E in effetti ha paura ad essere felice, ha paura a gioire di questa cosa. È veramente stupefatto. Chiaramente è con amarezza che noi abbiamo visto poi che questo processo sia iniziato senza che lui potesse assistervi. Però siamo veramente contenti perché è stato il primo processo penale nella storia del mondo, di questo tipo. Ha rappresentato un precedente. Ci sono indagini che speriamo porteranno ad altri processi. Certo non è finita perché, come abbiamo detto prima, se si pensa che morire o ammalarsi di inquinamento in Italia sia cosa di altri tempi, si sbaglia. È soltanto del 2001 la scoperta, a Priolo in Sicilia, nel tratto di mare antistante gli stabilimenti, guarda caso dell’Enichem, di presenza di mercurio per migliaia di volte superiore ai limiti di legge. Si pensa non sia un caso che nel 2000 il 5,6 % dei bambini che sono nati lì siano nati con malformazioni. Questo succede in Italia. Ma tante lavorazioni chimiche che non sono più economicamente vantaggiose nei paesi cosiddetti ricchi, come il nostro, sono state adesso portate nei paesi del sud del mondo e quindi non si può permettere che lì succeda quello che è successo in Italia. Perché forse questo è quello che succederà. E allora noi come Associazione vogliamo partecipare a questo cambiamento culturale, a questo processo di cambiamento, che ha permesso anche di arrivare ad un processo. Il nostro lavoro consiste proprio in questo. Informare. Abbiamo visto che i vincitori del premio Langer degli anni scorsi sono riusciti a fare quello che hanno fatto proprio attraverso l’informazione. Perché purtroppo un misfatto diventa scandalo soltanto quando se ne parla, vergogna per le aziende che sono coinvolte soltanto quando l’opinione pubblica è coinvolta. Allora dobbiamo imparare a scandalizzarci sempre. A dare per scontato che certi crimini vengano puniti. Quindi informare, coinvolgere l’opinione pubblica, coinvolgere i bambini, tutte le classi sociali in questo processo di cambiamento. E continuare a chiedere alle autorità di svolgere il lavoro che spetta loro di diritto. Non ci devono essere dei Gabriele a scoprire che ci sono delle persone che muoiono perché lavorano a contatto con delle sostanze. Devono essere le autorità a svolgere questo lavoro.
Una domanda che mi è stata fatta da Paolo Bonaldi (quando è venuto da noi gli abbiamo permesso di condividere delle memorie molto intime, familiari, con molta fatica) era: “ma cos’è che ha spinto una persona come tua papà a intraprendere un lavoro così che ha comportato tante difficoltà, tanti problemi?” Io gli ho risposto, ma ho sempre avuto la sensazione che lui non fosse soddisfatto della mia risposta. Poi alcune settimane fa ho partecipato, come facciamo spesso come Associazione, ad un incontro di scout, ai quali ho parlato del processo, del lavoro di papà, e cosa facciamo noi come Associazione. E poi alla fine uno di questi ragazzi si è avvicinato ed è successa una di quelle cose che magari non succedono per caso. E mi ha detto: “sai cosa penso, io penso che tuo papà avesse un senso profondo della propria libertà.” Questa cosa mi è piaciuta molto. Io penso che sia questo che ha unito Alex e Gabriele, proprio questo atto di amore incondizionato, questo senso così profondo della propria libertà che li ha portati a sentire molto naturalmente di aver il diritto, il dovere di partecipare in modo piccolo o grande alla storia del mondo.
Io oggi vorrei ringraziare di cuore due grandi amici di papà che sono sempre presenti, instancabili, che sono Franco Rigosi e Luciano Mazzolin. Papà sarebbe anche felice di vedere che qui ci sono i suoi nipoti, Mattia, Federica e Leonardo. Perché tutto il suo lavoro lo ha fatto propri per i suoi nipoti, per le generazioni future. Io penso che fosse un uomo che ha piantato veramente il seme di un sogno. E pur essendo consapevole di non poterne godere i frutti, l’ha fatto, l’ha curato, l’ha annaffiato, con la speranza che un giorno i suoi nipoti potessero godere della sua frescura.
Grazie.

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