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Gianni Sofri: Ding Zilin, una madre straordinaria (Laudatio)

1.6.2005, UNA CITTÀ n. 79 / luglio-agosto-settembre 1999

La sera del 3 giugno 1989 un giovane studente universitario, Jiang Jelian, uscì di casa e fu uno dei primi ad essere ucciso in quella che passerà alla storia come "la notte del massacro di Tiananmen".

Da allora la madre, Ding Zilin, e il padre Jiang Peikun, dedicano la loro vita a mettere insieme l’elenco dei caduti e quello dei mutilati, le loro storie, per ristabilire la verità su un massacro tuttora negato dal regime cinese. L’importanza della lotta di tanti coraggiosi dissidenti, anche per sfatare l’idea, diffusa in Occidente, di un’Asia refrattaria culturalmente alla democrazia.

Non credo di svelare indebitamente segreti di bottega, se comincio con un rapido accenno al lavoro che anch’io ho svolto insieme agli amici della giuria del premio Langer, presieduta da Peter Kammerer.
Ci siamo trovati di fronte ancora una volta, come già le due precedenti, alla complessità, alla difficoltà, persino al disagio, da un certo punto di vista, del trovarsi a essere in qualche modo gestori dell’eredità di una persona come Alex, di una persona talmente complessa, talmente ricca di problematiche, di campi d’azione, di luoghi, di settori in cui la sua attività si è svolta, che ci siamo sentiti più volte a rischio, nel senso del privilegiare troppo un settore rispetto ad altri. Per esempio, quest’anno tutti noi siamo usciti da queste nostre riunioni convinti che occorra in futuro dare maggiore attenzione alle problematiche di tipo ambientale-ecologico. Di questo siamo assolutamente convinti, e credo lo si possa dire in pubblico, non conservarlo soltanto nell’intimo delle nostre convinzioni. Detto questo, la cosa che è successa quest’anno, è stata una cosa un po’ strana, e cioè che è emerso davanti a noi un personaggio come Ding Zilin. Meglio, sono emersi due personaggi (non vorrei che ci si facesse l’idea che c’è un principe consorte, a ruoli rovesciati), due grandi personaggi come Ding Zilin e Jiang Peikun.
Sono emersi, e si sono presentati alla nostra attenzione, abbastanza occasionalmente all’inizio, perché poi, stranamente, in coincidenza (casuale, per carità) con il nostro premio sono diventati molto noti, hanno avuto fotografie su copertine di illustri riviste internazionali, interviste di ogni tipo. Però non erano così noti quando noi abbiamo cominciato l’istruttoria del nostro premio. Io stesso avevo solo letto qualcosa di e su Ding Zilin in un libro molto bello di Marie Holzman e di Noël Mamère, Chine. On ne bâillone pas la lumière, cioè "non si può abbagliare la luce". Devo a una mia carissima e competente amica di avermi poi raccontato più cose, e permesso di allargare le mie conoscenze.
Quindi io dirò ora pochissime cose su Ding Zilin e sulle motivazioni del premio, e farò qualche considerazione sul problema del dissenso in Cina.
Di seguito i nostri amici Xiao Qiang e Marie Holzman parleranno più diffusamente di entrambi questi problemi, di Ding Zilin e del dissenso in Cina.
Immagino che qui dentro alcuni sappiano già più di me su Ding Zilin perché hanno letto qualcosa, per esempio il bellissimo articolo di Ilaria Maria Sala nel "Diario" di qualche settimana fa. Ma per coloro che non si trovano in questa situazione, dirò adesso molto brevemente chi sono queste persone a cui abbiamo dato il premio.
Dunque, Ding Zilin è una signora cinese, di Pechino; una signora, credo, di poco sotto i sessant’anni, Era assistente di filosofia all’Università; anche suo marito Jiang Peikun è professore di filosofia. Avevano un figlio di 17 anni, Jiang Jelian. Questo figlio di 17 anni è uscito di casa la sera del 3 giugno 1989 ed è stato tra i primi ad essere ucciso, in quella che poi è passata alla storia come "la notte del massacro della Tiananmen". Quindi è stata una delle prime vittime della Tiananmen. Era il loro unico figlio.
Pochi giorni dopo, Ding Zilin, con l’aiuto di suo marito, poi con quello -crescente- di altre persone, che hanno collaborato con lei, si è dedicata a una attività lenta, difficile, molto faticosa -ora dirò anche perché- di ricostruzione di vicende personali del massacro.
Cerco di chiarire: il massacro della Tiananmen, malgrado tutto quello che se ne sa, che i media diffusero in presa diretta in tutto il mondo (molti di noi hanno anche visto, di recente, un bellissimo documentario televisivo di "Arté" su tutta la storia dell’89 cinese), ufficialmente non c’è mai stato, nel senso che il governo di Pechino lo ha negato, e continua a farlo. C’è stato un momento, tre anni fa, in occasione di un viaggio di Jiang Zemin negli Stati Uniti, in cui pareva, per usare una terminologia cinese, che i leader di Pechino fossero pronti a "rivedere i verdetti". Ma è stato solo un momento: non se n’è fatto più niente.
Quindi ancora oggi si sostiene da parte del governo che, a parte qualche scontro tra teppisti e militari, con alcuni morti (in prevalenza militari!), si è trattato di poca cosa. Insomma, ripeto, il massacro viene negato.
Gli opuscoli che io ho qui nelle mie mani contengono i primi risultati del lavoro di Ding Zilin, che è stato invece quello di ristabilire la verità, ricostruendo vicende di singoli individui. Fino ad ora, Ding Zilin è riuscita a ricostruire le vicende di 155 morti, uccisi nella notte del massacro o nei giorni immediatamente successivi. Il massacro non ha riguardato solo Pechino. Secondo le organizzazioni per i diritti umani ci sono stati morti in tante altre grandi città cinesi, e soprattutto i morti sono stati varie centinaia di sicuro, forse migliaia; e altre migliaia i feriti. Coloro che ancora portano nella loro carne, in quanto invalidi permanenti, mutilati, ecc. i segni di quella notte, o di quelle notti, sono tantissimi, sono migliaia. Però, ripeto, ufficialmente non ci sono.
La difficoltà di fronte alla quale si è trovata Ding Zilin è stata, intanto, rappresentata da rischi personali: per esempio, lei ha perso il suo posto di insegnante; per esempio ancora, lei era iscritta al Partito e invece la tessera le è stata negata da un certo punto in poi con il pretesto (molto diffuso nei partiti comunisti, in tutta la loro storia dalla Terza Internazionale in poi) che non aveva rinnovato in tempo, quando era scaduta, la sua iscrizione. Di più, siccome è un personaggio dotato di grande prestigio personale e molto rispettato, non è stata mai messa in prigione, a differenza della grande maggioranza dei dissidenti. E tuttavia basta che arrivi a Pechino un’alta personalità straniera, per esempio statunitense, ma non solo, perché -come altri dissidenti- lei e suo marito vengano immediatamente messi agli arresti domiciliari, in modo che sia loro impossibile incontrarla. Vengono poi periodicamente accusati delle cose più incredibili, per esempio di maneggiare troppi soldi rispetto al loro stipendio, perché loro adesso raccolgono anche dei soldi che poi distribuiscono agli invalidi, alle famiglie delle vittime bisognose, alle famiglie che hanno perso l’unico congiunto che percepiva uno stipendio. Allora, sotto questa accusa di carattere amministrativo-finanziario, loro vengono periodicamente messi agli arresti domiciliari. La ragione per cui abbiamo qui un caro amico cinese che ritirerà il premio a loro nome, e non abbiamo con noi loro stessi in carne ed ossa, è duplice: da un lato è perché in questo momento -e già da un lungo periodo- sono per l’appunto agli arresti domiciliari; secondariamente, perché in ogni caso difficilmente avrebbero accettato di prendere un aereo per venire in Europa, essendo praticamente sicuri che non li avrebbero fatti ritornare.
Un’altra difficoltà che vorrei sottoporre alla vostra attenzione è questa: di fronte a un massacro eseguito dal potere, ma negato, è difficile che io riesca a trovare una persona che sia disposta a parlare con me e a dirmi: "Sì, io ho perso mio figlio quella notte, all’ora tale, nel luogo tale; ho saputo che un carro armato gli è passato sopra; ho saputo che gli hanno sparato alle spalle ecc.". Ding e Jiang hanno dovuto quindi superare molte paure, molte difficoltà di questo tipo.
In questo senso, io ho parlato di lei come di una "sacerdotessa della memoria" nella bozza delle motivazioni che avevo scritto. So che l’espressione non era piaciuta a Peter, e perciò avevo chiesto a Edi Rabini -ma vedo che non lo ha fatto- di sostituirla con "una Antigone": vedo in lei, cioè, più che una militante politica, un’Antigone. Nel senso che Ding intende appunto togliere dall’oblio tutte queste persone che sono morte, rendere loro un omaggio postumo, dare alla loro morte almeno un senso, ribellarsi contro il fatto che migliaia di famiglie non hanno avuto nemmeno la possibilità di elaborare il lutto per i loro cari.

Naturalmente, pur non essendo una militante dei diritti umani nel senso più preciso del termine, però, attraverso quest’opera, attraverso l’organizzazione dei familiari, grazie ai contatti che ha successivamente instaurato, Ding Zilin ha finito per affermarsi, e qui vorrei usare proprio le parole del nostro amico Xiao in un’intervista, come "l’attivista per i diritti umani più attiva e rispettata in Cina per il lavoro implacabile e coraggioso che ha svolto negli ultimi dieci anni in circostanze estremamente difficili e ostili".
Ecco, io non vorrei insistere ulteriormente a parlarvi di Ding Zilin o a leggervi suoi brani, molto belli. Ne leggerete alcune citazioni che abbiamo messo nelle motivazioni: "Ho scavalcato montagne di cadaveri, ho galleggiato sulle lacrime delle famiglie delle vittime...".
Quello che mi interessava sottolineare è che il premio Langer 1999 -mi limito qui a leggere le ultime righe delle motivazioni- "vuol rendere omaggio innanzitutto al rispetto della vita, un valore del quale Ding Zilin e Jiang Peikun si sono fatti testimoni coraggiosi e infaticabili, ma anche alla lotta per la democrazia, le libertà civili e politiche, i diritti umani, in un contesto difficile come quello rappresentato, non tanto dalle culture asiatiche, quanto dai regimi politici che governano quella parte del mondo così vasta e importante".
Se ho ancora qualche minuto, vorrei accennare qualche cosa di più su questo problema delle libertà, dei diritti umani.
Voi ricorderete che quando c’era l’Unione Sovietica, c’era un grandissimo interesse per i suoi dissidenti: personaggi come Sakharov, Soljenitsyn, Zinoviev avevano una grandissima popolarità in Occidente.
Questa popolarità era duplice, nel senso che da un lato c’era un reale interesse verso di loro da parte di persone amanti della libertà, della democrazia, e quindi molto sensibili a tutto ciò che si potrebbe raccogliere in una rubrica sotto la voce "oppressione delle libertà, persecuzione delle libertà individuali". Però c’era anche un qualcosa di politicamente utilitario -non entro nel merito, mi limito a constatare- che faceva sì che ci fosse strumentalmente, cioè dal punto di vista del contribuire alla messa in crisi dell’impero sovietico, una grandissima attenzione nei confronti di questi dissidenti. Questa attenzione non si è mai verificata per un dissidente cinese, se si vuole con una piccola eccezione, che è quella costituita da un grande personaggio che si chiama Wei Jingsheng, che ormai credo la maggior parte di noi conosce. Il quale però, per meritarsi questa fama relativamente maggiore rispetto a ogni altro protagonista del dissenso cinese, ha dovuto stare in carcere 18 anni (con un intervallo di 6 mesi, in cui era stato liberato perché Pechino in quel momento sperava di avere le Olimpiadi -poi non le ha avute e l’hanno rimesso in prigione con un’altra condanna nel giro di pochi minuti), soltanto per quelli che Amnesty chiama "reati d’opinione". E oltretutto scrivendo, come poi si è saputo (ma non lo si è saputo mentre era in carcere) delle stupende lettere, che sono pubblicate sia in inglese che in francese1, in cui non con protervia, perché lui tutto è tranne un protervo, però con un incredibile coraggio da oppositore solitario e indomito, si rivolgeva ai più alti dirigenti del partito, a personaggi potentissimi come Deng Xiaoping, per dirgli: "Caro compagno, tu sei veramente in errore, stai sbagliando tutto su questo, su quello e quest’altro". Loro gli rispondevano tenendolo dentro, torturandolo, perseguitandolo, tenendolo in isolamento per lunghissimi periodi...
Ecco: è dovuto succedere qualcosa di così orrendo, perché un personaggio della dissidenza cinese diventasse noto anche al di fuori della Cina (e comunque mai quanto i Sakharov, i Soljenitsyn ecc.).
Non solo, negli ultimi anni, come un pochino accennava anche Peter prima, il dibattito si è allargato. In molti paesi asiatici, riprendendo e facendo proprie in qualche modo anche alcune tesi nate in Occidente, soprattutto fra antropologi (tesi anche importanti e interessanti sul problema del rapporto tra individuo e collettivo nelle culture orientali), è venuta avanti l’idea di una non-universalità dei diritti umani, e soprattutto di una loro non-validità per il mondo asiatico.
(Attenzione, mi accorgo di essere caduto anch’io nel trabocchetto delle "culture orientali" e del "mondo asiatico". Noi parliamo sempre di Asia, Oriente, ecc. senza tener presente che non esiste l’Asia, non esiste un Oriente; che gli stessi termini geografici che noi usiamo, del tipo "Vicino Oriente" o "Estremo Oriente", sono termini nostri, che rapportano sempre a noi popolazioni e culture diverse. Si è "estremo-orientali" rispetto a noi, ma un giapponese non direbbe mai di se stesso "sono un estremo-orientale"! E comunque, esistono tanti orienti, tante Asie, tante culture asiatiche. L’Europa ha una comunanza decisamente maggiore rispetto all’Asia, se non altro per diversità di dimensioni. E tuttavia, noi stessi ci sentiamo diversi dagli spagnoli o dagli scozzesi. (Tutt’al più, in un luogo come quello in cui ci troviamo oggi, possiamo sentirci bilinguamente italo-tedeschi...).
Ma torniamo a noi. In Asia, negli ultimi decenni, è emerso un discorso che gli studiosi definiscono variamente come "asiatismo", discorso sui valori asiatici, ecc., che ha i suoi leader nei dirigenti cinesi innanzitutto, ma anche, per esempio, in personaggi come il primo ministro malese Mahathir e in altri dirigenti dell’Asia sudorientale. Nei fatti, questi personaggi usano l’idea di una "alterità" delle culture asiatiche per giustificare regimi dittatoriali e in alcuni casi, come in Birmania-Myanmar, le peggiori violazioni dei diritti dell’uomo.
Un discorso serio su questi temi sarebbe troppo lungo e complesso per poterlo io anche solo avviare qui: però vorrei fare almeno una osservazione. Quando noi diciamo che bisogna rispettare le altre culture facciamo un’affermazione ovvia. Ma se spingiamo questa affermazione fino alle sue estreme conseguenze possiamo arrivare ad assurdità come il giustificare, per esempio, la peggiore oppressione della donna, semplicemente perché inserita in un "diverso" contesto culturale! Se malinteso, il "rispetto delle altre culture" porta ad astenersi dal giudizio, a rinunciare a se stessi e ai propri valori (spesso si tratta dell’ultima versione di un senso di colpa post-coloniale, dell’ultimo vestito del "buon selvaggio", dell’ultima versione di un terzomondismo sentimentale). Che questo sia sbagliato, a me pare certo, in particolare laddove comporta l’accettazione della violenza, specie di quella fisica. Ma ciò che a me interessa soprattutto sottolineare è che spessissimo sono gli stessi rappresentanti di altre culture a rifiutare questo concetto di alterità.
Così, per esempio, uno dei grandi protagonisti dell’Asia contemporanea, e cioè la leader democratica e nonviolenta della Birmania, Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, nel 1994 ha scritto non a caso un articolo intitolato: "La cultura della democrazia e dei diritti dell’uomo è universale". Aung San Suu Kyi non è un’intellettuale eurocentrica: è birmana, è asiatica. A sua volta, Fang Lizhi, il fisico cinese esule dall’89, ha scritto che "se il movimento di Tiananmen ha provato qualcosa è che il popolo cinese vuole la stessa libertà di chiunque altro. I cinesi non hanno un sistema di valori diverso dal resto del mondo". In Corea, il vecchio dissidente, poi capo dell’opposizione di sinistra e poi ancora, per qualche tempo, del governo, e cioè Kim Dae Jung, rifiuta decisamente il mito dei valori antidemocratici dell’Asia. Perfino dal mondo musulmano emergono molte voci in favore della democrazia e dei diritti umani. C’è un libro tradotto anche in italiano, che io consiglio molto, di due scrittori egiziani che si firmano con lo pseudonimo di Mahmoud Hussein: s’intitola Versante sud della libertà, e contiene una protesta molto vibrata contro quegli intellettuali del Terzo mondo, ma anche o più ancora occidentali, di destra e di sinistra, che vedono nella democrazia e nei diritti umani e civili per i paesi dell’Asia e dell’Africa un lusso, o che condannano quei popoli -noi condanniamo quei popoli- a una sorta di immutabile vocazione a dittature, autoritarismi, violenze e assenza di libertà. Già nella prima parte del libro ci si interroga con queste parole: "La democrazia inventata in Occidente è forse un suo privilegio esclusivo? Le altre società sono forse per natura inadatte alla libertà?". Va da sé che la risposta, sia in questo libro, come in tante altre prese di posizione di asiatici e di africani, è negativa.

Dico questo perché negli ultimi tempi, prendendo a pretesto la complessità di queste problematiche, il rispetto delle culture tende a trasformarsi in rispetto di governi antidemocratici. E questo mi pare grave e preoccupante.
Ancora due cose brevemente, questa volta sull’Italia.
In Italia ci sono vari modi di far passare sotto silenzio o negare (c’è una sorta di negazionismo anche su questo) il dissenso in Cina e in generale nei paesi asiatici. Ma in Cina soprattutto.
Una volta, un diplomatico italiano -peraltro molto intelligente- con cui avevo avuto occasione di parlare di questi temi, mi raccontò un aneddoto riferito a Andreotti. Pare che Andreotti, allora ministro degli esteri, una volta abbia spiegato che esiste un solo modo di trattare con i cinesi, ed è di "parlare all’orecchio". Voleva dire: mai chiedere delle cose in maniera esplicita, minacciare, mettere sullo stesso piano diritti umani e rapporti commerciali, perché per l’appunto la Cina è molto importante, e lo sappiamo, da un punto di vista commerciale, geostrategico, geopolitico ecc. Si possono ottenere dei risultati solo parlando all’orecchio. Se c’è qualcosa da chiedere, alla prima occasione lo si fa, però insomma senza che lo si sappia in giro; un po’ come quando Darwin fece una conferenza svelando per la prima volta che noi discendiamo dalle scimmie e una signora uscendo, un po’ stravolta, disse al marito: "Speriamo che non lo si sappia in giro".
Andreotti avrebbe aggiunto, secondo quanto mi venne riferito: "Lei non sa quanti vescovi siamo riusciti a tirar fuori di galera!". Sembrerebbe dunque che il metodo funzioni con i vescovi. Verrebbe però fatto di osservare che in Cina ci sono ancora non pochi vescovi in galera, e che comunque i vescovi sono un gruppo relativamente piccolo, mentre la repressione politica riguarda numeri assai più elevati.
Una seconda osservazione mi è suggerita da una lettura fatta invece soltanto ieri sera. Nel penultimo numero di "Limes" c’è un articolo di un tal Fabio Mini (indicato nell’elenco degli autori come "Generale") sulla regione autonoma cinese dello Xinjiang, che in maniera meno nota che non per il Tibet, è però anch’essa una regione in cui ci sono conflitti etnico-cultural-religiosi molto forti, perché è un’altra di quelle regioni che sono state assoggettate dai cinesi e fatte oggetto di una sinizzazione molto violenta. Regione, peraltro, di grande importanza strategica, per risorse minerarie e industriali, perché confina con il territorio dell’ex Urss, perché è molto vasta e poi anche perché i cinesi ci fanno brillare le loro atomiche, fanno lì i loro esperimenti nucleari.
Perché vi cito questa cosa? Perché a un certo punto, mentre leggevo questo articolo ho fatto un salto: "Nessuno in Occidente parla dello Xinjiang. In generale le minoranze etniche della Cina vengono trascurate perché in Occidente c’è solo una grande attenzione per i dissidenti cinesi che sono quattro gatti". Testuale.
Cioè questo tale, il Generale Fabio Mini, sosteneva che i dissidenti sono "quattro gatti" e poi andava avanti e diceva ancora: i dissidenti cinesi non solo sono quattro gatti, ma non hanno mai rinnegato il comunismo e cioè non hanno mai fatto una critica completa di ciò che li ha massacrati. Tende anche a dire, il Mini, che sulla Tiananmen massacro non c’è stato, è tutta una cosa pubblicitaria.... E infine aggiunge: e nessuno di loro -i dissidenti- ha mai preso posizione a favore di queste popolazioni, per intenderci tibetani, abitanti dello Xinjiang, della Mongolia interna, ecc. che sono perseguitate dal governo centrale.
Ora questa cosa è vergognosa. Che su una rivista come "Limes", la rivista dell’establishment geopolitico italiano, possa uscire un articolo che dice cose di questo genere è assolutamente indecoroso. Perché, se non altro, la più bella, la più straordinaria delle lettere coraggiosissime che dal fondo di una prigione Wei Jingsheng scriveva a Deng Xiaoping, nell’ottobre del 1992, è una lettera di dieci pagine sul Tibet. Nella quale questo poveretto che stava in prigione, che non aveva libri, che aveva soltanto la sua memoria, ma che non era né uno storico né un intellettuale, era però in grado di spiegare a Deng Xiaoping tutti gli errori che stava facendo nella gestione della questione Tibet. E di spiegargli, per esempio, una cosa che tutti gli intellettuali del regime invece cercavano di occultare, e cioè che i rapporti storici, tradizionali tra Tibet e Cina erano dei rapporti "fluidi", non erano dei rapporti di sovranità e di dominio insomma. Erano dei rapporti tra due pari, in cui in alcuni momenti prevaleva l’uno e in altri l’altro.
Quello che voglio dire è che, contrariamente a quello che ho visto scritto in questo paludato articolo, esiste un rapporto tra tutti coloro che si battono per il problema delle libertà, della democrazia e dei diritti umani in Cina e coloro che si battono per il riconoscimento di maggiori diritti in regioni che hanno subìto e che subiscono una oppressione da parte dei cinesi Han, come appunto il Tibet, lo Xinjiang ecc.
A volte, insomma, quando si parla di questi temi (in buona sostanza, quando si parla delle libertà per chi ne è privo, di qualsiasi parte del mondo si tratti), non ci si scontra solo con vari tipi di opportunismo, versioni serie o caricaturali di Realpolitik, interessi economici, preoccupazioni militari, ecc., ma anche con una desolante disinformazione. Disinformazione e negazionismo vanno sempre a braccetto. E questa è stata, ed è, un’altra buona ragione per rendere omaggio alla coraggiosa impresa di Ding Zilin e di suo marito Jiang Peikun. E per premiarli. Grazie.


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