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Passata la festa, richiuse le frontiere
15.6.2004
di FRANCESCO PALERMO. Libertà per le merci, ma non per le persone. Euro adottato da 12 paesi su 25. E poi: la retorica dell’apertura, la realtà del protezionismo, la costituzione rimandata. All’Unione, se vorrà essere tale, serve una svoltaSi è appena celebrato l’allargamento più grande, più importante e più rischioso della storia dell’integrazione europea. Preceduto però dal più grande dei fallimenti: la mancata adozione della sua costituzione. Un allargamento silenzioso: qualche servizio retorico su tv e giornali, bandiere, fuochi d’artificio, volti di bambini e Prodi a Gorizia. Qualche pagina di curiosità sui nuovi paesi, ma sostanza poca o niente.
L’impressione è che questo appuntamento, preparato per oltre un decennio, abbia seguito logiche compromissorie e di poco respiro strategico, sia sul piano interno che su quello esterno. Sul piano interno, a parte la retorica dei simboli e le irrazionali e ingiustificate paure di invasioni dei nuovi concittadini, non si è visto molto. Da un lato invece molta euforia verbale per un’Unione europea che dovrebbe allargarsi alla Turchia, alla Russia e a Israele (e magari un domani alla Cina, così risolviamo il problema della concorrenza…) e dall’altro un po’ di immancabile razzismo per i nuovi popoli che minacciano di invadere le nostre belle società etnicamente pure.
Ma se si leggono con attenzione i trattati di adesione si capisce che il 1 maggio non è cambiato poi tanto. Anzi, quasi niente. Le regole di libertà comunitaria si applicano da subito alle merci, ma non alle presone. Per periodi transitori differenziati (dai 5 ai 12 anni a seconda dei settori) saranno in vigore regole limitative della libertà di stabilimento dei nuovi cittadini, dell’acquisto di terreni, dell’introduzione dell’euro, che dunque oggi non è più la moneta della maggioranza dei Paesi, ma solo di 12 su 25. Nessuna limitazione per le imprese, ma era così già da tempo. Il diritto di stabilimento dei cittadini dei nuovi paesi sarà limitato (quindi uguale a prima) per altri 7 anni, con la “coraggiosa” eccezione fatta per ciprioti e maltesi (meno di un milione di persone, compresi vecchi, bambini e turco-ciprioti, cui bisognerà spiegare che sono cittadini comunitari pure loro…), che potranno stabilirsi fin da subito nei paesi della “vecchia” Europa. I vecchi Stati membri hanno potuto stabilire ciascuno per proprio conto regole sull’immigrazione dai nuovi paesi: molti l’hanno fatto per tempo (specie Gran Bretagna e Irlanda), garantendosi fin da subito l’immigrazione più qualificata. Altri, soprattutto l’Italia, non hanno voluto aprire quasi per niente le frontiere, e si troveranno così tra 7 anni a fare i conti con un problema che paesi politicamente meglio guidati non avranno.
L’allargamento asimmetrico
L’allargamento celebrato il 1 maggio risponde insomma a logiche simbolico-politiche ed economico-protezionistiche. Politiche, per l’indubbia importanza storica dell’adesione di paesi che 15 anni fa erano ancora nel blocco comunista. Economiche, perché consente di perpetuare, estendendo il territorio, le precedenti logiche del protezionismo dell’Unione: allargamento asimmetrico del mercato interno per poter continuare nell’interessante equilibrismo capital-protezionistico che caratterizza l’UE. Così i problemi non si risolvono ma si spostano solo in avanti nel tempo. E i problemi sono quelli di un sistema che promuove la concorrenza al suo interno per chiuderla all’esterno. Sembra anzi che si intenda continuare il gioco ancora a lungo, facendo entrare fra quattro anni Romania, Bulgaria e forse Croazia e Turchia. Incapace a perseguire la strategia decisa a Lisbona, che impegnerebbe l’UE a diventare entro il 2010 la più grande economia della conoscenza del mondo, l’Europa e i suoi Stati continuano a investire non in ricerca ma in sussidi agricoli, aspettando tempi migliori.
In realtà il problema più serio, quello istituzionale, non è stato risolto, né probabilmente lo sarà con la costituzione. La prospettiva dell’adozione della costituzione sembra allontanarsi nella sostanza, come si vede dall’annunciato referendum in Gran Bretagna, mentre si sprecano le dichiarazioni di ottimismo per l’approvazione a breve. In secondo luogo, perché il trattato costituzionale risolverà alcuni problemi di governo, ma non quello delle politiche, prima di tutto quelle sui sussidi agricoli. Senza regole chiare, razionali e coraggiose, il futuro dell’Unione rischia di essere buio.
Chi resta fuori senza un perché
Sul piano esterno, la logica del compromesso (al ribasso) politico-economico è ancora più evidente. Da un lato, l’adesione di dieci nuovi Paesi è evento sufficientemente traumatico per scardinare il sistema di governo della vecchia Unione e dunque per alimentare pericolosi nuovi razzismi ed euroscetticismi, nei vecchi come nei nuovi Paesi. Dall’altro, un allargamento immenso come questo non si è posto il problema di chi rimane fuori e perché. Non solo e non tanto nei confronti dei Paesi candidati (Romania, Bulgaria e Turchia), che attraverso il giogo della candidatura formale saranno ancora a lungo sottoposti ad un intensivo monitoraggio delle rispettive politiche economiche e di tutela delle minoranze (e non è detto che sia un male), quanto soprattutto nei confronti dei Paesi che a questo punto difficilmente comprendono le ragioni dell’esclusione. In primo luogo i Balcani, legati ad (e da) un Patto di Stabilità ed Associazione cui è difficile credere, e che presenta disfunzionalità crescenti. In secondo luogo verso i paesi dell’Europa orientale, che potrebbero legittimamente aspirare alla candidatura dopo che l’Unione ha abbandonato l’idea di una integrazione fondata su un nucleo duro di Paesi, e sembra pericolosamente avviata ad un’integrazione più morbida, più internazionale e meno costituzionale, più tradizionale e meno sperimentale di quanto si poteva sperare. Infine, nei confronti delle aree extraeuropee, verso le quali manca una chiara linea di collaborazione, in materia sia economica sia di immigrazione.
Il quadro appare a tinte fosche, ma non è la prima volta, nell’affascinante storia dell’integrazione. Finora il sistema comunitario è sempre riuscito a trovare i giusti anticorpi. Riuscirà miracolosamente ad accadere ancora una volta?