Operatori di Pace Operatori di Pace Corso 2003/2004

Corso 2003/2004
Corso 2005/2006 Corso master 2006/2007 Corso master 2007/2008 Corso master 2008/2009 Corso master 2009/2010 Corso master 2011-2012 Istituzioni naz. e internaz. Learn papers Thesaurus-odp L' arte del prendersi cura 2020 Fortbildungen: l’arte del vivere insieme (2021) Difesa civile e difesa militare Europa: corpi civili di pace Materiali tematici - Themenbereiche Comunicati Fortbildung - così lontano, così vicino (2022) Servizio Civile
Corso 2003/2004 (13) Corso 2003/2004 ALPINI Training (10)

Adriano Sofri: La storia di Jean-Sélim Kanaan, uno strano pacifista, autore di "La mia guerra all'indifferenza". Marco Tropea Editore

7.12.2004, La Repubblica
Ho letto un libro e voglio parlarvene, perché ha due ragioni forti di interesse. La prima è in quel che contiene. La seconda ve la dirò alla fine. L´autore è Jean-Sélim Kanaan, s’intitola "Ma guerre à l´indifférence", è uscito in Francia nel novembre 2002e in Italia nel dicembre 2004

È l´autobiografia, raccontata con una confidenza disincantata, di un giovane di trent´anni, volontario in organizzazioni non governative in Somalia e in Bosnia, poi funzionario dell´Onu in Kosovo e a New York. Kanaan è nato nel 1970 a Roma, da un padre egiziano di religione greco-cattolica, lui stesso diplomatico delle Nazioni Unite, e una madre francese e protestante. È cresciuto in Italia, ha studiato a Parigi, ha trascorso l´adolescenza a Pechino, si è laureato a Harvard. Ha imparato molte lingue: l´italiano, il francese, l´inglese, lo spagnolo, il serbocroato, un po’ di cinese, l´arabo. «Come un camaleonte» è di casa in tutto il mondo. Piuttosto, dopo la prima avventura umanitaria - a vent´anni, nella Somalia micidiale del 1992 - non si è più sentito di casa in nessun mondo. Non in quello della pulizia etnica, del vicino di casa tramutato in stupratore e cecchino di bambini, della morte in agguato a ogni strada da attraversare. Non in quello della carriera ordinata, dei giorni feriali in cravatta scura e dei weekend di alcool e coca. Il viaggio di andata nella paura e nell´orrore, e il viaggio di ritorno nella normalità così normale che impedisce di raccontare ciò che si è vissuto. Finché l´11 settembre - Kanaan è a New York, abbastanza vicino per riconoscere l´odore della morte e della polvere - fonde i due mondi in un´unica fornace. «Se tu non vai alla guerra, è la guerra che viene da te». Si accorge, Kanaan, che il pilota che si è abbattuto sulla prima torre è egiziano come lui, pressoché suo coetaneo, appassionato come lui di volo: e diventato però «combattente di Dio, pazzo e come appartenente a un altro mondo». Di colpo Kanaan si sente a New York come si era sentito a Sarajevo.
Riprova quel sentimento di vulnerabilità totale che lo aveva sopraffatto dal primo giorno nella sabbia di Mogadiscio, un kalashnikov di chissà chi premuto contro la tempia, l´assassinio deviato in extremis grazie a una frase pronunciata in arabo. Oppure, a un check-point serbo in Bosnia, la miliziana armata cui basta il suo secondo nome, Sélim, per minacciare di trucidarlo: «Tanto prima o poi vi avremo tutti».
Kanaan è stato uno sportivo impegnato. È alto un metro e 85, è robusto, ma conserva un aspetto da ragazzo e il soprannome di Bambino. Il volontariato umanitario è la versione dell´avventura per quelli della sua età. «Avrei potuto impegnarmi, mi hanno obiettato, nell´aiuto ai tossici a Parigi. Ma volevo vedere le cose "altrove", scoprire l´intera scala delle emozioni umane». A Mogadiscio, dopo un primo giorno di sparatoria e sequestro, vorrebbe parlare coi responsabili della sua Ong della paura che lo ha invaso, del rischio così assurdo e gratuito: ne viene respinto come un pavido e un disadatto. «Non mi stancherò mai di denunciare questo comportamento delle Ong: machismo, irresponsabilità, insensibilità... Dei Rambo dell´umanitario senza alcuna nozione di psicologia...». Assiste all´instaurazione di integralisti sudanesi, sauditi, sotto specie di organismi caritativi musulmani, magari con l´insegna dell´Onu. Grazie all´italiano, familiarizza coi vecchi somali; non coi capi dell´Ong, che lo rimpatriano. Nel maggio del 1993 parte per la Bosnia coi Médecins du monde: amministratore di missione a Zenica, a Sarajevo. Da un ospedale all´altro: «È così triste un bambino malato o ferito». Verifica l´efficacia di certi caschi blu dell´Onu - gli inglesi, «i soli ad applicare il mandato della risposta immediata in caso di aggressione»- e l´inerzia e la viltà di altri, culminata nel mattatoio di Srebrenica. Raccomanda una collaborazione fra l´esperienza dei militari, quando vale, e l´azione umanitaria: idea vilipesa da un antimilitarismo di maniera diffuso nelle Ong. Nelle Ong, compresa la sua, vede arrivare gente che non ha alcuna competenza e se ne fotte della popolazione che è venuta a soccorrere. Sono là per «salire su qualche elicottero, girare in 4 per 4, scassare impunemente, non avere legge. La prima causa di mortalità fra gli stranieri volontari in zona di guerra è l´incidente stradale». Denaro della Ue che corre. Cinismo. «Certi dirigenti di Ong hanno una responsabilità criminale verso i loro volontari che espongono a pericoli evidenti». Preziose come sono, le organizzazioni gli si mostrano anche come nidi di ambizioni frustrate, che «non applicano mai a se stesse i principi che predicano al mondo».
Riprova paura e disperazione, e la domanda angosciosa su se stesso e sui propri simili. «Che cosa passa per la testa di un uomo che spara su un bambino?». A Sarajevo, ogni passo è una scommessa con la morte, la più feroce e la più fortuita. Viscere annodate, bocca secca, tremito, sudore, apnea... Nelle cantine degli ospedali si ammassano aiuti umanitari, anche farmaci invecchiati, anche scatoloni di zucchero con la data del 1947, anche 30 mila siringhe a uso unico scadute da tre anni... Dopo sei mesi torna a Parigi, i nervi a pezzi, la stessa impressione di tornare da un altro pianeta, la stessa impossibilità di parlarne con qualcuno, fossero anche i propri famigliari. La domanda cortese durante una cena: «E come va in Bosnia?» «Io mi vergogno di appartenere al campo dei vili e degli imboscati. Continuo a credere che la democrazia, i diritti umani e la giustizia siano conquiste fondamentali dell’´umanità. Per quanto ancora chiuderemo gli occhi? Bisognerà aspettare un compiuto genocidio per risolversi alfine ad agire? Dopo la Bosnia, per me niente sarà come prima».
Finita Harvard, dove cerca, e trova, il complemento alla buona volontà nella competenza e preparazione, entra all´Onu, consigliere per le missioni sul campo. Il primo impiego nel 1996, numero due nella ricostruzione della Bosnia nordoccidentale del dopo Dayton. C´è il denaro, ci sono i mezzi: l´azione volontaria appare, di fronte alle possibilità dell´Onu, come il cerotto di un pronto soccorso di fortuna. Ricostruire è il modo più drammatico e preciso di accorgersi della portata della distruzione. In capo a due anni e mezzo, Kanaan è conosciuto, da Bihac a Sarajevo, come Jean Bosanac, Jean il bosniaco.
È la volta del Kosovo, Pristina, dove arriva al seguito di Bernard Kouchner, il primo "supergovernatore" Onu, due mesi dopo l´entrata della Nato, 1999. Kouchner è insofferente di pastoie burocratiche. Kanaan si occupa della ricostruzione delle case, con un meccanismo semplice quanto inedito: il denaro passa agli inquilini costruttori «senza "ungere" né Ong né organismi onusiani».
Dopo il Kosovo, New York, il Palazzo di Vetro. Così giovane, è già un P4, un funzionario medio-alto, con un grasso stipendio, e la promozione automatica ogni cinque anni: fino alla pensione. E tanti privilegi. Solo che... «Questa insopportabile lentezza», e l´inconcludenza. «Se non venissi, quando se ne accorgerebbero? Se morissi, se ne accorgerebbero?... Certi giorni, ho davvero l´impressione d´essere morto». E soprattutto la tristezza. «La cosa più sconvolgente qui è che la gente non è contenta. Bisogna dirlo! Gli impiegati di questa organizzazione che si vuole piena di speranza e di sogni per un mondo migliore, sono persone tristi...». E a quelli che viaggiano e tornano, è riservata la stessa insensibilità delle Ong. C´è un solo psicologo per gli ottomila dipendenti dell´Onu. «Continuare a dire buongiorno a tutti nell´ascensore e commentare il tempo che fa oggi... Anche se ieri ho visto i bambini morire, oggi tutto bene, grazie». Si arrangino con gli antidepressivi, o l´alcool, o gli psicologi privati. Solo dopo il Ruanda, si è presa in carico la ferita dell´anima degli umanitari...
Kanaan aveva amato l´Onu nell´ammirazione infantile per suo padre, ne apprezza ora il potenziale. «Se una Ong come Action contre la faim salverà diecimila persone, l´Onu ne salverà un milione». A volte riesce, dopo tutto: Kosovo, Guatemala, Timor Est. Altrove non va, al punto da far vergognare del premio Nobel: Sarajevo, Srebrenica. Ruanda, il più grande sterminio premeditato di civili, compiuto sotto gli occhi di Kofi Annan. «Oggi l´Onu manca di umiltà e di umanismo, semplicemente».
Kanaan si prepara a ripartire, benché si sia sposato, con Laura Dolci, un´italiana, e abbia messo su casa a New York. Non è a suo agio con gli americani, con la loro mancanza di curiosità per il resto del mondo, con la loro smania mercantile, con la loro sbrigativa rinuncia a capire perché tanto odio, a prevenire nuove covate di terroristi, ad accorgersi di appartenere allo stesso mondo degli altri. «Quando sono in Europa, in Francia o in Italia, sono felice. Amo la dolce vita... Partecipare al consolidamento di questa Europa unita politica, militare, sociale che comincia piano a vedere la luce... La presenza costante del bello e dell´eterno che ci circonda in una qualunque delle città italiane».
«So -scrive Kanaan- che l´immagine che ho dato delle Ong è mille miglia lontano dall´idea romantica e idealista che se ne può avere all´esterno: queste organizzazioni sono anche il luogo in cui si affermano ambizioni dubbie, ego ipertrofici... Ma anche luoghi in cui si esprimono, come da nessuna altra parte, cameratismo e fraternità, e si incontra la gente più formidabile del mondo». Quanto alle Nazioni Unite, «la critica e il dissenso -dice Kanaan- non vi sono ben viste. Bisogna sopportare e stare zitti, niente libertà d´espressione. Ma io decido di dirlo, perché il nostro lavoro è nobile e sono persuaso che l´Onu può fare meglio». «So -conclude- che un giorno tornerò, un po’´ come Ulisse, nella Roma in cui sono nato. Ma prima mi resta un lungo cammino da fare: arrivato a quello che mi sembrava il traguardo, mi accorgo, scrivendo questo libro, che sono appena all´inizio».
Questo il contenuto del libro, che valeva la pena di essere raccontato: lo leggerete a suo tempo. L´altra ragione della sua importanza, che ho promesso sopra, è troppo presto detta. Il 19 agosto 2003 a Bagdad un camion bomba guidato da un kamikaze contro il Canal Hotel, sede dell´Onu, fece 23 morti. Morì dissanguato Sergio Vieira de Mello, brasiliano, inviato speciale dell´Onu, il più brillante della generazione di mezzo, il candidato migliore alla successione di Annan. Morirono Rick Cooper, il miglior arabista delle Nazioni Unite, e Nadia Younis, già portavoce del Palazzo di Vetro. Fra le vittime non nominate dai quotidiani italiani c´era anche un funzionario medio-alto di appena 33 anni, Jean-Sélim Kanaan. Suo figlio, Mattia Sélim, aveva allora tre settimane. Kanaan aveva giudicato «illegale e vile» la guerra americana in Iraq. La versione italiana del libro, a differenza dell´edizione originale, contiene la fine.
pro dialog