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Emanuela Fronza, Andrea Lollini: La persecuzione dei crimini internazionali: analisi dei modelli giurisdizionali e non giurisdizionali.

euromediterranea 2003
Da alcuni anni è possibile registrare da parte della comunità internazionale un consenso ed una volontà di perseguire i crimini internazionali. La conferma di questa tendenza, manifestatatsi in particolare a partire dall’inizio degli anni novanta, è data dalla istituzione dei Tribunali penali internazionali ad hoc ( v. infra) per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, dall’avvio di alcuni processi in sede nazionale per crimini internazionali (si pensi, per esempio, al processo contro il generale Augusto Pinochet), ma, soprattutto, dall’adozione, attraverso una Convenzione internazionale, di uno Statuto per una Corte penale internazionale permanente. A questo riguardo è essenziale sottolineare lo strumento utilizzato (una Convenzione) per l’istituzione della Corte, in quanto esso testimonia il consenso e la volontà dei cento e venti Stati che lo hanno firmato a perseguire i crimini internazionali per cui la Corte è competente (v. infra).

di
Emanuela Fronza (Università di Bologna) e Andrea Lollini (Università di Bologna)

I meccanismi per incriminare fatti qualificabili come genocidio, crimini contro l’umanità o crimini di guerra, come vedremo più dettagliatamente nelle pagine seguenti, sono tuttavia molteplici e si distinguono tra loro a seconda del contesto (statale o sopranazionale), a seconda della competenza (per materia, temporale e territoriale) e, infine, per le conseguenze previste a seconda dei casi per le persone di cui si è accertata la responsabilità per crimini internazionali. In questo breve contributo ci si limiterà a prendere in esame i meccanismi previsti a livello internazionale e nazionale, di tipo giurisdizionale e non, per la persecuzione dei crimini internazionali commessi dagli individui.

§ 2. I sistemi giurisdizionali e i modelli non-giurisdizionali di risposta ai crimini internazionali

I meccanismi ed i modelli di risposta ai crimini internazionali vengono suddivisi generalmente, dalla dottrina internazionale, in: a) sistemi giurisdizionali; b) i modelli non giurisdizionali (o quasi giudiziari).
In realtà, le accezioni con cui vengono ripartiti e classificati i numerosi meccanismi fino ad ora istituti per reprimere i crimini internazionali, sono molteplici. Prima di vedere in cosa consiste la differenza tra giursidizionalità e non-giursidizionalità, bisogna precisare che i modelli di giustizia vengono ripartiti secondo un'altra più ampia schematizzazione. Essa vede la contrapposizione tra i sistemi di giustizia detta "retributiva" (retributive justice) ed i sistemi di giustizia detta restorativa (restorative justice). Riteniamo qui più efficace, da un punto di vista descrittivo, riferirci alla suddivisione tra sistemi giurisdizionali e non giurisdizionali.
I sistemi propriamente giurisdizionali, sono quelli che prevedono la presenza di un giudice, di una sentenza, dell'utilizzo della prova (in senso rigorosamente processualistico) per stabilire le responsabilità penali individuali, in un contesto di rituale giudiziario altamente formalizzato. In breve, i sistemi detti giurisdizionali, sono quelli che prevedono l'utilizzo del processo penale (sia esso secondo una tipologia accusatoria o inquisitoria).
Per quanto concerne i modelli non-giurisdizionali, ci si riferisce invece a modelli che possono avere caratteristiche tra loro molto differenti. Li si può quindi definire solamente in funzione negativa rispetto ai sistemi giurisdizionali. In altri termini, i sistemi non-giurisdizionali sono tutti quei sistemi che non prevedono strettamente procedure in senso strettamente processuale. In particolare i sistemi non giurisdizionali sono quelli che non prevedono la presenza di un giudice che commisura sanzioni in seguito a sentenze. Ciò che viene privilegiato è l'aspetto inquirente. In questa prospettiva vengono facilitati tutti i meccanismi di assunzione di informazioni rispetto ai crimini (sia da parte delle vittime che da parte di coloro che hanno commesso i crimini). L'idea di giustizia che anima i modelli non-giurisdizionali è quella secondo cui, in presenza di determinate condizioni socio-politiche che rende impossibile procedere a processi penali per i crimini commessi nel passato, ritiene che sia più importante, rispetto al momento punitivo, quello di creare una memoria collettiva condivisa del passato. Pertanto, tali sistemi, mettono l'accento sulla necessità di raggiungere un "verità" ufficiale sul passato. Il tentativo, attraverso la cristallizzazione di una "verità ufficiale" che dia adito delle sofferenze inflitte, è quello di facilitare io costituirsi di nuove democrazie. La dottrina internazionale ha cominciato a sviluppare l'analisi e la riflessione sui sistemi non-giurisdizionali con particolare attenzione per quei contesti politici in cui sistemi democratici si sostituiscono gradualmente, a seguito di negoziati, a regimi autoritari, militari o comunque illiberali. In questa prospettiva si è soliti anche parlare di transitional justice.

§ 3. I modelli giurisdizionali


3.1. LE CORTI INTERNAZIONALI

3.1.1. La Corte penale internazionale permanente

Il primo importante tentativo di creare una Corte internazionale penale risale all’iniziativa della Società delle Nazioni del 1937; questa Convenzione fu tuttavia ratificata da un solo stato. Altri sforzi in questa direzione hanno accompagnato l’approvazione della citata Convenzione sul genocidio del 1948. Anche durante i primi anni ’50 le Nazioni Unite hanno cercato di istituire una Corte a carattere permanente, ma tutte queste iniziative - sebbene la Convenzione sul genocidio e sull’apartheid facciano espresso riferimento a un organo di giustizia internazionale- non ebbero alcun risultato a causa, in particolare, della guerra fredda. Nel 1992, la Commissione di Diritto Internazionale produsse un insieme di principi per la Corte e fu successivamente incaricata dall’Assemblea generale di iniziare ad elaborare un Progetto di Statuto, che fu terminato inizialmente nel 1993. Nella sessione del 1994 la Commissione di Diritto Internazionale modifico’ questo progetto di articoli e lo adottò insieme allo statuto, insieme ad una Raccomandazione dell’Assemblea generale che convocava una Conferenza Diplomatica per concludere una Convenzione. Nel dicembre 1994 l’Assemblea Generale rinviava la Conferenza, ma nominava un Comitato ad hoc e un poi un Comitato preparatorio per negoziare un progetto, che avrebbe portato ad una approvazione politica. Gli incontri di questi Comitati facevano infatti emergere numerosi punti di divergenza rispetto a molteplici aspetti dello Statuto della Corte Penale internazionale permanente.
Il 17 luglio 1998 è stato approvato a Roma lo Statuto della Corte penale internazionale, ad opera della Conferenza diplomatica a tal fine convocata dalle Nazioni Unite con provvedimento del 17 dicembre 1996 e a cui hanno partecipato 161 Stati (sui 185 appartenenti alle Nazioni Unite). Sette Stati hanno votato contro e fra questi gli Stati Uniti e 21 si sono astenuti. Tale trattato è entrato in vigore il 1 luglio 2002. La Corte ha la sua sede all’Aia (art. 3), ma se sarà opportuno si potranno autorizzare i processi in altri luoghi. Essa, ai sensi del Preambolo e dell’artt. 1 e 17 dello Statuto, ha carattere complementare, per cui, a differenza dei tribunali penali internazionali, il sistema nazionale rimane il sistema portante di questo nuovo assetto della giustizia penale internazionale. Ne discende pertanto che, di fronte ad episodi pur sussumibili nelle fattispecie criminose di cui agli artt. 5-8 dello Statuto, nessuna azione sarà consentita davanti al giudice sovranazionale ove un Paese che abbia su di esso giurisdizione stia esaminando o giudicando il caso.
La Corte sarà competente solo per le persone fisiche e per le violazioni più gravi . In particolare si definiscono quattro figure criminose: genocidio, crimini contro l’umanità- compresi i crimini di violenza sessuale -, le gravi violazioni delle leggi di guerra commesse in conflitti interni o internazionali e il crimine di aggressione rispetto a cui tuttavia non si è ancora raggiunta una definizione, per cui la Corte potrà essere competente per esso solo quando una procedura di emendamento o di revisione (ex art. 121 e 123) fisserà gli elementi di questo reato e le condizioni per l’esercizio della competenza.
Per quanto concerne l’esercizio dell’azione penale, la Corte può essere adita da uno Stato parte del Trattato (art. 14), dal Consiglio di Sicurezza o dal Pubblico Ministero (art. 159). Salvo il caso in cui essa sia attivata dal Consiglio, la Corte può esercitare la sua giurisdizione solo sullo Stato sul cui territorio il crimine è stato commesso o rispetto allo Stato di cui l’accusato è cittadino. (art. 12, precondizioni per l’esercizio della giurisdizione). Il Pubblico Ministero può adire la Corte di sua iniziativa, ma solo dopo l’autorizzazione della camera preliminare ed in virtù dell’art. 16 il Consiglio di Sicurezza può domandargli di sospendere le indagini per un periodo di 12 mesi rinnovabili (art. 16) . L’organo dell’accusa sembra dover affrontare un insieme di difficoltà poiché deve soddisfare criteri e condizioni prima di poter aprire le indagini: domanda da parte di uno Stato, Stato parte, assenza di giudizio sul medesimo fatto a livello nazionale, violazione non deve essere all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza ex cap. VII della Carta. Se l’iniziativa proviene dallo Stato l’accusa dovrà accertareche esso sia parte della Convenzione. Non è così, invece, nel caso in cui l’iniziativa parta dal Pubblico Ministero. Il Consiglio di Sicurezza può adire la Corte per una situazione che esso esamina nell’ambito del cap. VII della Carta NU e attribuire un mandato alla Corte per giudicare queste violazioni. In questo caso l’attivazione dipende da una decisione del Consiglio ed in questa ipotesi la Corte penale internazionale diviene una sorta di Tribunale ad hoc, a disposizione del Consiglio di Sicurezza e non sono necessari i due suddetti principi di collegamento (territorialità o nazionalità dell’autore).
Gli altri articoli dello Statuto sanciscono i principi di diritto penale applicabili (in particolare quello della legalità dei crimini e delle pene, della irretroattività, della responsabilità penale personale e della imprescrittibilità di tali crimini), le procedure, le modalità di impugnazione ed infine i principi di cooperazione e assistenza giudiziaria internazionale oltrechè le questioni finanziarie.
La Corte, inoltre, non disponendo di una polizia, né di prigioni resterà fortemente tributaria della volontà degli Stati e della loro disponibilità a cooperare per catturare i criminali come per la fase di esecuzione delle pene.
Nel complesso il testo dello Statuto di Roma risulta un po’ frettoloso anche a causa dello scarso tempo a disposizione per la sua messa a punto, ma costituisce indubbiamente un traguardo sul piano tecnico-giuridico per l’affermazione di della responsabilità dei capi di governo, per la nuova dimensione assegnata al livello sopranzionale come fonte di norme penali e sul piano politico per l’adesione di una cosi vasta comunità di Stati rispetto alla necessità di garantire tutela effettiva ai più elementari diritti fondamentali. L’istituzione di una Corte permanente necessiterebbe dunque di molteplici considerazioni di carattere giuridico e di carattere politico. Non è possibile in questa sede compiere una analisi approfondita di tutte le questioni; è necessario tuttavia segnalare schematicamente perché l’adozione dello Statuto di Roma risulta un momento fondamentale nell’assetto attuale della giustizia penale internazionale. Innanzitutto esso costituisce il primo testo omogeneo con norme di imputazione dei crimini internazionali (cfr. art. 22 e seguenti dello Statuto). In secondo luogo lo Statuto di Roma, sulla base del meccanismo della complementarietà, impone agli Stati parte di adeguare la loro legislazione nazionale - sostanziale e processuale - per la persecuzione dei crimini internazionali.
In terzo luogo lo Statuto di Roma rappresenta una importante tappa nella evoluzione giuridica del diritto penale internazionale in quanto si affermano in un testo di diritto scritto, vincolante per chi vi aderisce, principi fondamentali del diritto penale - quali quello di legalità e di irretroattività-, nonché le pene previste per questi reati (negli Statuti dei Tribunali ad hoc per le sanzioni si rinviava alla griglia sanzionatoria dell’ex Jugoslavia e del Ruanda). Infine questo teso , pur con tutti i deficits che esso ancora presenta, testimonia un consenso e una volontà di molti Stati di reprimere i crimini internazionali. In proposito si desidera compiere un’ultima osservazione: la Corte penale internazionale non sembra rappresentare la comunità universale: occorre essere molto prudenti nel ritenere che si tratta di un consenso molto vasto perché, da un lato, manca la ratifica di molte superpotenze, quali gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, Israele, l’India e che, anzi possono bloccare la giustizia penale internazionale. Dall’altro il corpus normativo, rappresentato dallo Statuto di Roma, è un diritto che possiamo definire “occidentale”, in quanto riflette solamente solamente due tradizioni giuridiche - quella romano germanica e quella anglosassone-, col risultato di non avere preso in considerazione al momento della stesura del testo altri importanti sistemigiuridici, quali il diritto africano e il diritto musulmano.

3.1.2. I cd. Tribunali ad hoc .

I Tribunali speciali (ad hoc) corrispondono a quei casi in cui degli Stati, in circostanze particolari, decidono di creare un organo giurisdizionali, con competenze territoriali e temporali limitate per giudicare i responsabili di gravi violazioni.

a) I Tribunali di Norimberga e di Tokyo

Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati vincitori crearono i Tribunali internazionali militari di Tokyo e di Norimberga.
In relazione al Tribunale di Norimberga occorre ricordare che nella dichiarazione di Mosca degli Alleati del novembre 1943, si affermava che i criminali nazisti minori sarebbero stati giudicati e puniti nei paesi di commissione dei crimini, mentre i maggiori criminali nazisti, i cui crimini non avevano una localizzazione geografica sarebbero stati processati e puniti in base ad una decisione comune dei governi degli alleati.(Declaration of German Atrocities, Nov. 1, 1943, in American Journal of International Law 3, 7-8, 1944).
L’8 agosto 1945 i governi vincitori (Francia Inghilterra, Usa, Urss) firmarono l’Accordo di Londra, che sanciva l’istituzione del tribunale e a cui venne allegato lo Statuto del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga. Oltre mille nazisti furono processati davanti alle corti nazionali o a Tribunali militari nazionali gestiti dagli Alleati.
Nel gennaio 1946 venne anche creato il Tribunale per il Lontano Oriente, che, a differenza di quello di Norimberga, fu istituito con una proclamazione unilaterale, del generale MacArthur. Ma anche in questa ipotesi dei tribunali nazionali processavano parallelamente migliaia di giapponesi per crimini di guerra.

Il tema del processo di Norimberga evoca moltissime questioni: i tribunali militari internazionali furono istituiti dalle potenze vincitrici e occupanti la Germania e il Giappone debellati e hanno giudicato i detenuti dalle potenze occupanti stesse. Le potenze firmatarie agirono in questo caso come non come organi del diritto internazionale generale, ma come gestori di un ordinamento particolare. Essi esercitarono sulla base di un accordo internazionale una potestà punitiva in qualità di sovrani temporanei della Germania debellata e priva di sovranità. Il Tribunale militare internazionale di Norimberga era quindi internazionale, ma solo nel senso che era un organo comune della volontà degli Stati ammessi a farne parte. Va subito chiarito che sebbene si trattasse di un Tribunale ad hoc questa esperienza è molto diversa da quella dei Tribunali, tuttora funzionanti, per la repressione dei crimini in ex Jugoslavia e in Ruanda.
Il Tribunale di Norimberga si componeva di quattro giudici, uno per ciascun paese alleato. Lo Statuto e l’Accordo si basavano sul meccanismo angloamericano, attribuendo ai difensori il diritto di presentare prove, di testimonianze, di confronti, anche se l’art. 12 permetteva che il processo si svolgesse in contumacia. L’Accordo di Londra disciplinava la giurisdizione, l’aspetto sostanziale e procedurale. Esso disciplinava tre categorie di crimini internazionali: i crimini contro la pace, i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità (“in connection or in execution” di crimini di guerra). L’art. 6 dello Statuto sanciva la competenza del Tribunale per quegli individui che li hanno commessi; il Tribunale era dunque competente per le persone fisiche e per le organizzazioni (direzione partito nazista, Gestapo, SD, SS vengono dichiarate organizzazioni criminali); viene prevista la responsabilità per capi, organizzatori istigatori complici per tutti gli atti commessi in esecuzione di un comune piano o accordo. Gli artt. 7 e 8 stabiliscono che l’essere capi di Stato o ufficiali responsabili non esclude né attenua la punibilità.
A Norimberga furono processate ventidue persone, di cui due in contumacia. Di queste ventidue 19 furono condannate, e 12 giustiziati con la pena di morte.
Il tribunale di Tokyo non ebbe la stessa risonanza di quello di Norimberga. Come già sottolineato, a differenza del tribunale di Norimberga, che fu il risultato di negoziazioni multilaterali, questo Tribunale fu istituito con una proclamazione unilaterale. Si componeva di undici giudici, non scelti da quattro paesi, ma nominati direttamente da Sir MacArthur (gennaio 1946). La competenza, i poteri e le procedure di questo Tribunale erano essenzialmente simili a quelle di Norimberga, anche se MacArthur esercitò un’influenza reale su tutti i giudizi. A Tokio vennero processati ventotto capi giapponesi e ne condannò venticinque. In aggiunta i Tribunali degli alleati processarono oltre 5000 altri giapponesi per crimini di guerra.
Sia il Tribunale di Norimberga, sia quello di Tokio non prevedevano l’appello e sul piano sanzionatorio, e così avvenne, poteva essere irrogata la pena di morte.
Senza dubbio i Tribunali di Norimberga e di Tokio rappresentano una evoluzione nell’elaborazione e nell’applicazione del diritto penale internazionale. Entrambi furono tuttavia criticati in quanto si sostiene che accanto all’esigenza di tutelare quei valori della comunità internazionale, vi fu la costituzione di una sorta di tribunale dei vincitori sui vinti: la composizione dell’organo è in qualche modo rivelatrice che si trattasse di processo politico e ambiguo. Tutti i giudici, infatti, erano cittadini alleati per cui l’imparzialità delle due giurisdizioni era posta fortemente in discussione.
Si è detto anche che questi Tribunali hanno violato il principio di legalità formale dei delitti e delle pene, e il principio di irretroattività, in base a cui una persona non puo’ essere punita per un fatto che non siaprevisto come reato secondo una legge scritta entrata in vigore prima della commissione del crimine. Infine, si è affermato che vi era stata violazione della precostituzione del giudice.

b) I Tribunali per la ex Jugoslavia e il Ruanda.

Norimberga non costituisce forse un buon precedente, ma come la seconda guerra mondiale, così quei processi segnano una cesura, un momento epocale per la tutela dei diritti fondamentali. Negli anni ’90 la comunità internazionale, con atto autoritativo del Consiglio di Sicurezza, ha istituito due Tribunali penali internazionali ad hoc che possono direttamente giudicare gli individui responsabili delle gravi violazioni. La comunità internazionale è dunque all’origine della loro creazione: la loro istituzione è avvenuta con due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza: la risoluzione del risoluz. 25.5.93, n. 827 per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia dal 1991 e la risoluzione del 8.11.94, n. 955 per i crimini commessi in Ruanda tra l’inizio di gennaio e la fine di dicembre 1994.
Per quanto attiene la genesi del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia il processo iniziò con alcune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza a partire dal 1991 che dichiaravano la situazione come una grave violazione della pace e sicurezza. Il 6 ottobre 1992 fu creata una Commissione e di esperti per i crimini commessi in ex-Yugoslavia per raccogliere prove ai fini della perseguibilità di queste azioni, che nel suo rapporto constatava gravi violazioni e raccomandava l’istituzione di un tribunale internazionale.
Il Consiglio di Sicurezza nella risoluzione 808 precisava che le continue violazioni di diritto umanitario verificatesi nel territorio della ex Yugoslavia costituiscono minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali per poi decidere che un Tribunale doveva essere creato. La risoluzione 827, con cui venne istituito il Tribunale, conferma che questo organo va qualificato come misura coercitiva ai sensi del capo VII della Carta. Ma né questa, né rapporto del Segretario generale fanno riferimento all’art. 41 o 42, lasciando agli interpreti il compito di inquadrare il Tribunale come misura non implicante l’uso della forza armata o al contrario implicante. In quanto misura adottata sulla base del cap. VII della Carta il Tribunale è destinato ad operare finché perdura tale situazione e per tutto il tempo necessario al ristabilimento e mantenimento della pace.
Il Tribunale per la ex Jugoslavia ha sede all’Aja, ma può condurre procedure ovunque, nell’interesse della giustizia (art. 31 del regolamento di procedura e prova). E’ una giursdizione che presenta una struttura abbastanza complessa. E’ composto di tre organi: il Prosecutor (nominato dal Consiglio di Sicurezza su designazione del Segretario Generale), giudiziario (le camere sono elette dalla Assemblea Generale), e il segretariato (che assiste i giudici e il procuratore nello svolgimento delle loro funzioni). Il Tribunale è composto di due camere di prima istanza, di tre giudici ciascuna, e di una camera di appello di cinque giudici - che vi siedono a titolo individuale-. Esso funziona in base ad uno Statuto allegato alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza e ad un Regolamento di Procedura e Prova.
Il Tribunale è competente solo per le persone fisiche, mentre non sono previste norme per la repressione delle organizzazioni criminali e per le violazioni gravi del diritto umanitario verificatesi nel territorio della ex Yugoslavia fra il 1 gennaio 1991 e una data che sarà fissata dallo stesso Consiglio una volta ristabilita la pace. La competenza è pertanto temporalmente limitata; rispetto alle fattispecie delittuose esso è competente per i crimini di guerra, il genocidio e altri crimini contro l’umanità.- Il giudizio avviene secondo la regola di maggioranza e non si può condannare alla pena di morte.
Con riferimento ai rapporti con i Tribunali nazionali è prevista la primazia del tribunale internazionale, per cui su richiesta di quest’ultimo i tribunali nazionali dovranno spogliarsi della loro competenza (art. 9, 2 comma dello Statuto).
Il Tribunale per la ex Jugoslavia ha pronunciato le sue prime sentenze nell’agosto 1995 e nel novembre 1996 nei confronti di Dusko Tadic e Draze Erdemovic. Attualmente sono state pronunciate molte decisioni di primo grado e di appello e occorre ricodare che è tuttora in corso il primo processo internazionale ad un capo di Stato, nei confronti di Slobodan Milosevic.

Nel corso di questi anni sono stati avanzati molti interrogativi sia con riguardo alla scelta di creare un simile Tribunale, con giurisdizione non universale, ma limitata ai soli crimini commessi nel corso di un conflitto armato, sia rispetto alla forma e allo strumento giuridico, che costituisce l’atto costitutivo del Tribunale: una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Tuttavia si ribatte affermando che l’intervento nella ex Jugoslavia richiedeva un intervento urgente per rispondere ad una situazione di emergenza, in particolari circostanze politiche e sotto forte pressione dell’opinione pubblica, difficilmente realizzabile con il complesso procedimento dell’adozione e ratifica di un accordo internazionale. D’altra parte, il ricorso ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza poteva giustificarsi solo con riferimento ad una situazione specifica ad un organismo ad hoc, non a carattere permanente, né con competenza generale. Ma il vantaggio dell’adozione dello Statuto con risoluzione consiste anche nel fatto che in tal modo il Tribunale avrà giurisdizione nei confronti di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, obbligati a collaborare con il Tribunale sia per quanto riguarda istruzione dei procedimenti d’accusa, sia per la raccolta delle prove e per la consegna degli imputati.
Una disciplina analoga è prevista per il Tribunale del Ruanda, sorto come organo sussidiario del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e come entità autonoma rispetto al Tribunale penale per la ex Jugoslavia ed istituito con la Risoluzione dell’8 novembre 1994 per reprimere le gravi violazioni dei diritti fondamentali.
Prima della creazione del Tribunale penale internazionale sorse un problema degli organi competenti, se occorrevano corti nazionali o internazionali. A livello nazionale vi era il timore che potesse mancare l’imparzialità necessaria per la carica emotiva di quei processi; la guerra civile inoltre aveva provocato fuga di molti giudici che dovevano essere rimpiazzati) Il Governo del Ruanda, allora membro non permanente nel 1994 del Consiglio di Sicurezza, richiese prima l’istituzione del tribunale e poi voto’ contro a causa, in particolare, dell’esclusione della pena di morte.
Con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 955, 8 novembre 1994, fu alla fine istituito il Tribunale ad hoc per la persecuzione delle persone responsabili del genocidio e di altre serie violazioni di diritto internazionale umanitario commessi nei territori del Ruanda e contro cittadini ruandesi responsabili di genocidio o altre violazioni commesse nei territori vicini. Questo organo è organizzato in modo identico al Tribunale penale per la ex Jugoslavia: due camere di primo grado e una di appello, Prosecutor e Cancelliere. Mentre le Camere di primo grado costituiscono una struttura autonoma rispetto a quelle dell’ex Jugoslavia (art. 12 dello Statuto), così come il Cancelliere e il suo ufficio, sono invece in comune con quello dell’Aia il Presidente, la Camera di appello e il Prosecutor, che ha creato una Procura distinta in Ruanda ed è coadiuvato da sostituto procuratore. Fra le ragioni che hanno indotto a collegare così strettamente il Tribunale del Rwanda a quello della ex Jugoslavia vi è quella di assicurare uniformità di criteri nella conduzione dell’attività inquirente; con norme e organi comuni si voleva promuovere una giurisprudenza, una interpretazione e un’applicazione uniforme dei due Tribunali, dato che tali pronunce serviranno da guida nell’applicazione delle norme davanti ai Tribunali nazionali.
A differenza di quello per la ex Jugoslavia il Tribunale del Rwanda svolge l’attività in luoghi molto differenti. Il Prosecutor e la Camera d’Appello sono all’Aja, l’unità investigativa fuori Kigali e le Camere ad Arusha.Anche la procedura è la medesima, improntata cioè al sistema accusatorio.
La competenza ratione tempore del tribunale per il Ruanda è dal 1 gennaio 1994 - anche se il genocidio inizia di fatto il 6 aprile con l’abbattimento dell’aereo di Habyrimana, ma in questo modo si è voluto includere tutta la pianificazione per la commissione dei crimini- al 31 dicembre 1994 (a differenza di quello per la ex Jugoslavia che è competente per tutti gli atti commessi dopo il gennaio 1991). Il Tribunale è competente solo per le persone fisiche, in concorrenza con le giurisdizioni nazionali e secondo un regime di prevalenza su queste ultime, per i crimini commessi sul territorio rwandese o per cittadini rwandesi che li abbiano commessi nei territorio di uno dei Paesi vicini.
Per quanto concerne la competenza ratione materiaedue fra le incriminazioni previste dallo Statuto rilevano particolarmente per la situazione ruandese: i crimini contro l’umanità e il genocidio. Esso è competente inoltre in virtù dell’art. 4 dello Statuto delle altre violazioni dell’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del ’49 e del Protocollo del ’77.
La competenza ratione loci è specificata dall’art. 7 dello Statuto secondo cui territorialmente la giurisdizione del Tribunale ruandese si estende oltre i territori ruandesi includendo gli stati limitrofi dove sono state commesse serie violazioni di diritto internazionale umanitario (mentre per l’altro Tribunale ad hoc la competenza territoriale è limitata ai territori).
Anche il Tribunale per il ruanda ha emesso ormai numerose decisioni di primo e secondo grado; a differenza di quello per la ex Jugoslavia quasi tutte le persone giudicate di fronte a questo organismo sono accusate di atti di genocidio. Attualmente sono in corso processi molto importanti, tra cui il cd. “procès des media” nei confronti dello storico Ferdinand Nahimana, considerato peraltro l’ideologo del genocidio del 1994.
3. 2. Gli organi nazionali

3.2.1. 1. I Tribunali nazionali

a) . Il processo ordinario e il processo davanti agli organi di giustizia militare

I crimini internazionali possono essere puniti ad opera dei Tribunali nazionali, siano essi tribunali ordinari o militari.
Molti ordinamenti penali nazionali nel codice penale, in leggi speciali o nei codici penali militari contengono le figure criminose, qualificabili come crimina juris gentium prevedendo, peraltro, un regime eccezionale rispetto alle regole generali in materia per esempio di prescrizione, di competenza giurisdizionale o di cause di giustificazione.
Inoltre con riferimento ai processi davanti ai tribunali ordinari diversi Stati hanno introdotto la regola della competenza universale, per cui lo Stato in questione puo’ giudicare ogni crimine internazionale, a prescindere dal suo luogo di commissione, dalla nazionalità della vittima o dell’autore. A tale riguardo possiamo ricordare il processo svoltosi in Belgio, o, ancora, le discussioni sulla giurisdizione universale suscitate dal processo intrapreso dalla Spagna nei confronti di Augusto Pinochet.

b) “Los juicios por la verdad”

Una via alternativa differente dalla giustizia militare o da quella ordinaria si è sviluppata in Argentina con il nome di “juicios por la verdad”. Si tratta di un meccanismo che nacque dopo un accordo tra il governo argentino, familiari delle vittime della repressione in seno alla Commissione interamericana dei diritti umani in base ad una domanda per ottenre la verità dei fatti davanti a questo meccanismo internazionale. Si chiamano “juicios por la verdad” perché sono finalizzati solamente ad ottenere unicamente la verità storica dei fatti accaduti durante la dittatura militare (1976-1983) e non, invece, ad infliggere una pena ai colpevoli. Quest’ultima possibilità era infatti vietata, in Argentina, dalle cd. Leggi di amnistia (Ley de Punto Final -1986- e Ley de l’Obediencia debida - 1987). La caratteristica di questo meccanismo - di ottenere la verità senza pena- è che si utilizza la via del processo penale, pur in presenza di due provvedimenti legislativi che impedivano in ogni modo la pena.

3.3. I Tribunali detti "misti"

Una terza configurazione del modello strettamente giurisdizionale di repressione dei crimini internazionali è costituita dai c.d. "tribunali misti". Tale espressione, oltre che essere stata impiegata dalla dottrina internazionale, è sovente apparsa anche nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite. Prima di analizzare nel dettaglio in quali circostanze si è avuta una configurazione detta mista della giustizia penale internazionale, bisogna vedere in che cosa essa consiste:

in primo luogo essa può riguardare la provenienza dei giudici nominati a far parte del collegio giudicante. In questo senso i tribunali internazionali misti sono quelli che prevedono una co-partecipazioni di giudici internazionali (nominati dalle organizzazioni internazionali), e di giudici nazionali del paese in cui il tribunale è istituito. Da un lato, tale configurazione, è realizzata nella speranza di rendere il collegio giudicante il più indipendente possibile. In questo senso, in quei contesti socio-politici in cui i crimini sono stati commessi a causa di forti polarizzazioni etnico-identitarie, si è tentato, grazie alla composizione mista dei membri dei collegi giudicanti, di sfuggire ai rischi di trasferire in sede giurisdizionale, quelle che sono le tensioni identitarie che spesso sono state all'origine stessa dei crimini che si vogliono reprimere. Dall'altra, la co-presenza di giudici nazionali ed internazionali soddisfa, da un punto di vista meramente simbolico, l'esigenza di una parte della "comunità internazionale", di essere fattivamente partecipe delle misure attuate per reprimere la violazione di crimini internazionali.

in secondo luogo, la natura mista di questi organismi, può essere determinata dal tipo di diritto applicabile. In altri termini taluni organismi potranno essere chiamati ad applicare, nella repressione dei crimini internazionali, norme che provengono direttamente dal sistema del diritto penale internazionale, e norme che provengono dal diritto penale nazionale del paese in cui i crimini sono stati commessi.

In questo momento sono tre gli organismi giurisdizionali che possono essere ricondotti a modelli misti. Il tribunale per la Sierra Leone, quello per Timor Est e quello istituito in Cambogia per reprimere i crimini commessi durante la feroce dittatura dei Khmer Rossi.
Se cominciamo la nostra rapida analisi dal tribunale istituito in Sierra Leone, la qualità mista di questo organismo è riconducibile ad un'ulteriore variabile. Esso infatti è composto da un tribunale propriamente detto ed una Commissione per la Verità. Il carattere misto si arricchisce quindi di un altro elemento, ovvero la co-presenza di un sistema strettamente giurisdizionale e di un sistema non-giurisdizionale (o quasi giurisdizionale) di repressione dei crimini internazionale. Il modello della Sierra Leone presenta dunque una variabile innovativa nella configurazione dei meccanismi fino ad ora istituiti. Sarà la prassi del funzionamento di questo organismo che potrà svelare in che modo si potranno coerentemente articolare due tipologie di "giustizia" che possono avere caratteristiche diametralmente opposte.
Il tribunale per la Sierra Leone è stato tuttavia istituito tramite l'accordo internazionale firmato tra le Nazioni Unite e la Sierra Leone del 16 gennaio 2002, attraverso cui si creava una camera di prima istanza al di fuori sia del sistema delle Nazioni Unite che di quello della Sierra Leone. Tale camera speciale veniva successivamente incorporata dalla legislazione nazionale sierra-leonese. Le Nazioni Unite e la Sierra Leone si sono riservate la nomina dei vari membri di questa camera speciale. La competenza ratione materiae è costituita da un nucleo di norme che provengono dal diritto internazionale penale (crimini contro l'umanità - art. 3 comune delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e Protocollo II del 1977), e dal diritto nazionale della Sierra Leone (violenza sessuale - abusi sui minori - incendio ed altre fattispecie presenti nel codice penale sierra-leonese).
Un secondo modello di giustizia internazionale misto è stato creato in Cambogia presso il tribunale di Phnom Penh per la repressione dei crimini commessi dal regime khmer tra il 1975 ed il 1979. Anche qui l'istituzione di questo tribunale deve essere fatta risalire ad accordi firmati tra le Nazioni Unite ed il nuovo governo cambogiano al fine di istituire una cooperazione giudiziaria internazionale per la repressione dei crimini commessi durante la dittatura. Come per la Sierra Leone la composizione dei giudici è mista, mentre per ciò che attiene il diritto applicabile gli organismi internazionali hanno spinto affinché questo tribunale speciale fosse competente per la repressione dei crimini di genocidio e dei crimini contro l'umanità.
Per ciò che attiene al caso di Timor Est, ciò che si è realizzato è stato una sorta di cogestione, nel quadro delle strutture giurisdizionali nazionali, al fine di far fronte al problema della repressione dei crimini commessi nel passato. La cogestione è in particolare di natura organizzativa ed amministrativa. Nel quadro della missione di pace delle Nazioni Unite (UNTAET), gli organismi internazionali hanno assicurato un supporto finanziario esigendo l'istituzione di un pubblico ministero speciale competente per l'istruzione dei casi concernenti i crimini commessi dal regime, ed esigendo la costituzione di un collegio giudicante composto da due giudici nominati a livello internazionale ed uno di provenienza di Timor Est.
L'ultimo caso è quello del Kossovo. Grazie alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n° 1244 del 10 giugno 1999, si è istituito lo Special Representative of the Secretary General (SRSG) per il Kosovo guidato inizialmente da Bernard Kouchner. In forza delle grandi difficoltà di natura tecnico organizzativa ed a causa delle violente contrapposizione tra la maggioranza albanese e la minoranza serba che rendevano assai difficoltosa la creazione di un sistema giudiziario nazionale, è stato creato il Programme of International Judicial Support in Kossovo, attraverso cui, in particolare nella provincia di Mitrovica, sono stati istituiti taluni collegi giudicanti misti. In questi District Court si stava provvedendo alla nomina di giudici nazionali a cui sono stati appunto affiancati giudici internazionali al fine di facilitare loro la risoluzione di questioni tecniche iniziali ed al fine di stemperare le gravi polarizzazioni identitarie che ancora investono il paese.


§ 4. I modelli non-giurisdizionali

Come già anticipato nell'introduzione, le grandi trasformazioni politico istituzionali che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni del secolo XX, hanno evidenziato come il problema della giustizia per i crimini commessi dai regimi autoritari ed illiberali, divenisse una questione fondamentale per la legittimazione delle nuove democrazie. In America Latina, nell'Europa dell'Est, nell'Europa balcanica così come in taluni paesi dell'Africa Australe, il dissolversi di regimi militari o di sistemi fortemente repressivi a seguito di negoziazioni politiche svoltesi tra i vari movimenti di liberazione nazionale e gli establisment politico militari, ha prodotto una sostanziale impossibilità di utilizzo di strumenti giurisdizionali per giudicare i responsabili di crimini internazionali. In questa stallo in cui non si potevano processare gli apparati di Stati criminali per non mettere in pericolo le transizioni politiche faticosamente intraprese, nuove modalità di dealing with the past sono state sperimentate. In particolare si è affermato il modello detto delle Commissioni per la Verità (Truth Commissions) che in moltissimi paesi, con configurazioni e risultati assai differenti, sono state istituite.
Anche se le prime commissioni, sebbene in forma embrionale, sono state create in Africa, è con l'avvento delle transizioni democratiche latino americane che questo modello di "fare i conti con il passato" si è imposto all'opinione pubblica internazionale. Argentina, Cile, El Salvador, Guatemala, così come molti altri paesi dell'America Latina, hanno istituito tali organismi per risolvere il problema dell'impossibilità politica di istruire i processi contro i responsabili dei vari regimi militari colpevoli di crimini internazionali. Le Commissioni per la verità latino-americane erano però organismi sprovvisti di veri poteri coercitivi di indagine. Esse sono state istituite mentre i parlamenti votavano leggi di amnistia generale per tutti i militari colpevoli di crimini internazionali. Se l'oblio completo dei crimini del passato era il rischio che si stava concretizzando, le Commissione hanno tentato di fornire una versione condivisa ed ufficiale della storia. In tutti i casi, pur se i nomi dei responsabili dei crimini sono stati tenuti nascosti, la pubblicazione di un rapporto finale ha permesso di sottoporre alla nazione una ricostruzione della storia che metteva largamente sotto accusa le vecchie oligarchie militari e gli apparati dei vari regimi autoritari. Ben poca cosa rispetto all'atrocità dei crimini commessi.
Il sistema delle Commissioni per la Verità ha subito una radicale evoluzione in Sudafrica durante la transizione politica che ha condotto il paese dall'apartheid alla democrazia. Anche in Sudafrica, come in America Latina, le forze politiche che avevano sostenuto il regime segregazionista, hanno accettato di cedere parte del potere politico alla black majority a seguiti di complicati negoziati che sono sfociati nel 1996 nell'approvazione di una nuova Costituzione democratica. La possibilità di procedere a processi penali ordinari nei confronti di tutti coloro che si sono macchiati di crimini gravissimi durante il regime è risultata assai difficile. Il Sudafrica, ed in particolare il partito di Nelson Mandela, per non incorrere nel rischio di una totale impunità (attraverso leggi di amnistia generale), ha proposto l'istituzione di una Commissione dotata di poteri quasi giudiziari. La Commissione sudafricana è infatti stata dotata della potestà di concedere amnistia individuali a fronte di una confessione pubblica dei crimini commessi. Se una giustizia in senso strettamente retributivo non ha potuto aver luogo, altri importanti risultati politico giuridici sono stati conseguiti. In particolare, grazie al meccanismo confessione pro amnistia, ha permesso di svelare una grandissima quantità prove inconfutabili dei crimini internazionali commessi durante l'apartheid. Due elementi meritano tuttavia di essere sottolineati:
In primo luogo le vittime, sebbene abbiano rinunciato ad un loro diritto alla giustizia codificato nella nuova Costituzione democratica, hanno avuto, almeno secondo i dettami normativi della legge che istituiva questa Commissione, a delle riparazioni da parte del nuovo Stato democratico. Questo rimane tuttavia il punto più controverso. Fino a questo momento, solo una parte minima delle riparazioni promesse sono state versate. Anche se il governo continua ad affermare il suo impegno a tener fede alle "promesse" fatte, non ha ancora ottemperato al suo obbligo di indennizzare le vittime. I prossimi mesi si rivelano cruciali. La tenuta di questo sistema assai innovativo e per certi versi assolutamente straordinario, potrebbe naufragare di fronte alla assenza di volontà politica del nuovo governo democratico, di stanziare i fondi necessari alle riparazioni.

In secondo luogo, merita di essere sottolineato il fatto che, il codice di procedura della Commissione sudafricana ha imposto a tutti, membri dei movimenti di liberazione nazionale e membri delle forze militari e di polizia del Sudafrica segregazionista, di procedere alla confessione pubblica per poter ottenere l'amnistia. In altri termini, il modello sudafricano ha impedito che si realizzasse una visione rigidamente manichea della guerra di liberazione. Anche se i principi ed i valori della guerra di liberazione sono stati sempre fortemente ribaditi dalla Commissione, il fatto che crimini efferati fossero stati commessi anche dai black liberation movements, ha fatto si che fosse imposto anche ai membri di queste importanti organizzazioni politiche, di confessare pubblicamente azioni criminose commesse durante l'opposizione all'apartheid.


§ 5. Le Corti Gacaca rwandesi: un modello ibrido

Un ulteriore tipologia di risposta ai crimini internazionali è stata sperimentata, a partire dall'estate 2002 in Rwanda. La complessa e drammatica storia di questo paese dell'Africa equatoriale, merita qualche precisazione. E' sapere comune che nel 1994 il paese ha vissuto l'esperienza di un genocidio. Per reprimere i crimini che hanno causato la morte di centinaia di migliaia di persone sono stati istituiti: prima un tribunale internazionale ad hoc e, successivamente, i tribunali nazionali ordinari rwandesi sono stati dotati di particolare competenza per la repressione del crimine di genocidio. Molteplici ragioni politiche e sociali hanno inevitabilmente frustrato l'efficacia di questi due sistemi giurisdizionali. La necessità di spingere ancor più in profondità l'azione di giustizia ha fatto si che si creassero i presupposti per la creazione di una terza modalità di repressione dei crimini commessi durante il genocidio: le Corti Gacaca. Si tratta della riattualizzazione di un meccanismo di giustizia tradizionale. Storicamente la giustizia detta dei Gacaca appartiene a quei sistemi di risoluzione dei conflitti che l'antropologia giuridica ha classificato come caratteristici delle culture tradizionali. Tali sistemi, così come i Gacaca rwandesi (nella loro configurazione tradizionale e nella loro forma moderna), sono fortemente basati sui forza dei legami comunitari (clanici o etnico identitari) in cui, la figura di un capo, impone la sua autorità sulle decisioni in merito a controversie che gli vengono sottoposte dalla comunità di appartenenza. Si tratta quindi di sistemi di risoluzione delle controversie che mirano principalmente a comporre i conflitti che si sono creati creando una situazione di fatto in cui le parti non abbiano più materia di contesa. Si possono altresì definire come sistemi negoziali basti su un marcato coinvolgimento diretto dei membri della comunità. Le Corti Gacaca tradizionali hanno continuato a funzionare, come modello di risoluzione delle controversie, anche durante il periodo coloniale.
Il moderno modello delle Corti Gacaca, istituite per reprimere i crimini internazionali del periodo del genocidio, ha mantenuto taluni caratteri tradizionali. In primo luogo le udienze sono completamente pubbliche e collettive (esse si celebrano in luoghi aperti nei vari distretti che compongono il frazionamento amministrativo rwandese). Tutti i partecipanti hanno eguale diritto di parola. La ricostruzione fattuale del crimine avviene mediante la sovrapposizione delle testimonianze degli individui che partecipano all'udienza. Il sistema delle Corti Gacaca competenti per i crimini commessi durante il genocidio è assai complesso. In primo luogo è stata fondamentale l'elezione, mediante votazione popolare, delle migliaia di individui che sono divenuti "Inyangamugayo" ovvero i giudici di queste Corti. Essi dovrebbero ricalcare i caratteri della prototipo del capo tradizionale che, grazie alla sua condotta, la sua integrità e la sua legittimazione pubblica, ha la forza di imporre il verdetto. Fondamentalmente l'obbiettivo del governo rwandese, attraverso l'istituzione di questo nuovo sistema basato su meccanismi tradizionali, è quello di coinvolgere il più possibile la popolazione nel processo di rielaborazione del dramma del genocidio. In secondo luogo le Corti Gacaca sono costruite in modo piramidale che da una sorta di giurisdizione nazionale arriva fino a piccole Corti a livello di distretto secondo una composizione a scatole cinesi. L'idea è fondamentalmente quella di far parlare direttamente le vittime e far parlare coloro che hanno commesso i crimini (senza mediazione di meccanismi e procedure giuridiche). In particolare è vivamente stimolata la confessione dei crimini attraverso sistemi di riduzione della pena. Tuttavia, molti sono tuttavia i dubbi che i commentatori internazionali hanno sollevato rispetto a tale sistema. In particolare, ciò che ha destato le maggiori perplessità è il potere che è stato conferito a questi giudici popolari. Questi ultimi, secondo i dettami giuridici della legge che istituisce le Corti Gacaca, non debbono essere in alcun caso giudici di professione, sebbene gli "Inyangamugayo" abbiano il potere di commisurare pene assai severe (fino a 25 anni di reclusione). Tutto ciò sembra assai sproporzionato per un giudice non professionista che opera attraverso una procedura che non prevede serie garanzia di difesa ed efficaci meccanismi di appello.

6. Conclusioni.

Da questa rapida ricognizione dei meccanismi di persecuzione dei crimini internazionali degli individui si registra una dimensione complessa e molteplice: meccanismi nazionali e sovranazionali, meccanismi misti, meccanismi giurisdizionali e non giurisdizionali, e, ancora, Stati che devono coordinarsi in maniera verticale (con la Corte penale internazionale, per esempio) o in maniera orizzontale (con altri Stati secondo meccanismi classici di cooperazione interstatale). Infine in una prospettiva più strettamente giuridica si auspica che questa lotta contro i crimini internazionali possa assumere una dimensione maggiormente giuridica e meno politica al fine, da un lato, di non consentire la riduzione dei principi di garanzia per l’imputato tipici di un diritto penale democratico, e dall’altro, di non consentire che questa giustizia penale internazionale diventi il riflesso dei rapporti di forza fra Stati, che possono produrrea disuguaglianze tra gli individui giudicati per la sola appartenenza ad uno Stato.


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