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La "cura per la natura": da dove sorge e a cosa può portare. 9 tesi e alcuni appunti

1.12.1990, Buenos Aires, Montevideo

1. La rapida presa di coscienza della sfida ecologica: al di là di possibili manifestazioni effimere o strumentali, si tratta probabilmente della maggiore questione del secolo.

Poche prese di coscienza sono avvenute in tempi così brevi e con una diffusione così generalizzata, quanto quella della crisi ecologica. La consapevolezza dello "stato di malattia" del nostro pianeta, dell'intera biosfera, è relativamente recente. All'inizio poteva riguardare questo e quell'aspetto singolo - come l'inquinamento nucleare o chimico o la scomparsa accelerata di specie viventi - ma è diventata ben presto globale per confrontarsi con le conseguenze ancora in parte ignote dell'effetto serra, lo stato di salute dello strato di ozono o della foresta tropicale.

Lo stesso rapporto Brundtland delle Nazioni Unite ne è una testimonianza interessante e si chiama significativamente "Our Common Future" (il nostro comune futuro). Il sorgere di movimenti ecologisti e di gruppi o partiti verdi, soprattutto in Europa, ne è insieme un segno ed un moltiplicatore.

Un po' tutti se ne sono rapidamente appropriati, dalle industrie ai partiti e governi, alle grandi agenzie internazionali. È possibile che possa rapidamente trasformarsi in una moda e restare un fenomeno effimero. Ma ciò non toglie che si tratta sicuramente della maggiore sfida del secolo che si sta per concludere e di quello che si apre. È una partita che riguarda tutti i popoli, tutte le regioni del mondo, tutte le classi sociali, seppure in modi e con effetti diversi.

2. La crisi ecologica non è risolvibile con parziali aggiustamenti: bisogna passare da un'economia ed una civiltà del breve ad una del lungo termine.

La consapevolezza della finitezza delle risorse, del degrado ambientale, della complessità ed interconnessione globale dei problemi si diffonde e si approfondisce. Sappiamo ormai che la civiltà industriale oggi dominante, generalizzata su scala mondiale dalla vittoria dell'economia capitalistica, ha condotto il pianeta in una situazione nella quale si distrugge molto più di quanto non si costruisca. C'è una drammatica sproporzione tra i tempi biologici (della rigenerazione) e i tempi storici (del prelievo): in un giorno si bruciano oggi sul pianeta tanti combustibili fossili, quanti se ne sono formati in mille anni.

Occorre dunque una decisa e profonda opera di limitazione di tali danni, di efficace prevenzione e risanamento. In poche parole: occorre passare ad un'economia ed una cultura a lungo termine, invece che predatoria e a breve scadenza. Quella attuale si rivela suicida e sembra improntata all'egoistica convinzione del "post nos diluvium".

3. È necessaria una vera e propria "conversione ecologica".

In pochi decenni (dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi), è avvenuto un fondamentale ribaltamento della storia del pianeta: gli esseri viventi - anzi, la specie umana, e al suo interno una porzione minoritaria, ma dominante - non vive più dei frutti della natura, ma intacca l'albero, il "capitale", e a causa dell'ampiezza del suo impatto per la prima volta la sopravvivenza del pianeta è in forse, per opera umana (bomba atomica, modo di produzione, di crescita e di consumo). Questo ribaltamento si ripercuote in ogni ambito, esige un cambiamento generale. Non può essere solo una questione di tecnica ambientale, di controllo dell'inquinamento, di risparmio energetico, di risanamento.

Serve una vera e propria "conversione ecologica" per rendere compatibile la nostra presenza e il nostro impatto sul pianeta con le basi naturali della vita. Si tratta di riequilibrare equilibri profondamente turbati. Forse bisognerebbe passare dal "modello olimpico" ("citius, altius, fortius") oggi prevalente, che si nutre di competizione, a forme di sviluppo duraturo, sostenibile, equilibrato (sobrietà, rigenerabilità). Ci occorre, insomma, il contrario del "motto olimpico": lentius, temperantius, levius.

4. Ecologia, nuova ideologia o superscienza? No, grazie!

Non si tratta di mettere una nuova scienza sul trono (dopo la teologia, la giurisprudenza, la fisica, l'economia), né di forgiare una nuova ideologia che faccia tornare i conti e risistemi la visione del mondo. Piuttosto ci occorre un nuovo sapere e una nuova determinazione per limitare i danni. Forse è più urgente un non-fare, più che suggerimenti sul cosa fare. Nessuno però si illuda di poter ricorrere semplicemente alla "natura legislatrice", come se ciò bastasse. Dobbiamo, anzi, individuare e realizzare obiettivi umani e sociali.

La "natura" non sostituisce la "cultura": anche decidere quanto inquinamento accettiamo di sopportare o cosa vogliamo cambiare per diminuirlo, quanto rischio ambientale correre, quanta e quale addomesticazione della natura perseguire, è opera di cultura, di politica, di democrazia, di scelta economica e sociale. Il "limite", oltre che naturale, è storico e culturale: dove/come fissarlo e come riempire lo spazio da qui al limite, è scelta politica, sociale, etica, culturale. Non l'Utopia, ma le tante "utopie concrete" (parziali, sperimentali, correggibili).

5. La cura della natura non è un "affare del Nord post-industriale".

L'ecologia ha dei protagonisti e degli obiettivi molto concreti: persone che non ne possono più oppure che vedono più lontano (difendono i loro polmoni, la loro salute, i loro cibi, quella dei loro figli, soprattutto l'eredità comune contro la devastazione). In questo contesto la questione della proprietà - centrale nell'analisi marxista - è piuttosto secondaria; essenziale è la conservazione, rigenerazione, fruibilità equilibrata.

Gli ecologisti pongono degli obiettivi assai particolari e assai universali: preoccuparsi di questo fiume, di questo ettaro di suolo, di questa specie vivente, di questo albero e al tempo stesso agire in un'ottica universale (l'ozono, il clima).

È vero che il movimento verde sorge in gran parte da paesi post-industriali, del Nord, ad alta civiltà e raffinatezza di consumi, ad alta informazione, ed è intrecciato con altri movimenti cosiddetti "post-materiali" (che affrontano questioni apparentemente successive al bisogno primario del cibo e del tetto) - come il pacifismo, il femminismo, i gruppi per i diritti umani, ecc. Può darsi, a prima vista, che la questione della "qualità della vita" possa sembrare un lusso di fronte a chi non si vede assicurata la sopravvivenza.

Ma, in realtà, è una preoccupazione antica, che si collega alla base con le civiltà rurali ed indigene e comunque pre-industriali: con quelle civiltà, cioè, che considerano il pianeta non smontabile e rimontabile a piacere, non vendibile e comprabile, non a totale ed illuminata disposizione di una sola specie vivente ed una sola generazione.

In questo senso, è probabile che l'ecologia esiga un generale prevalere della qualità sulla quantità, una civiltà "post-economica", post-merce e post-denaro. E quindi contro l'economia ridotta a ricerca di profitto a breve termine, contro il dominio assoluto del denaro e della merce assunti a parametro universale.

6. L'ecologia, più che un lusso dei ricchi, è una necessità dei poveri.

Oserei dire che la salvaguardia della natura, assai più che un lusso dei ricchi, è una necessità dei poveri, perché concerne la cura dell'eredità comune (chi non ne ha di privata, dipende assai più da ciò che è di tutti), non è sostituibile, non può essere rimandata a più in là. "La povertà è la più grande fonte di problemi ambientali del Terzo Mondo", una frase che qualche volta si sente, dovrebbe essere letta anche come "La crisi e la distruzione ambientale è oggi tra le cause più grandi della povertà" (lo afferma autorevolmente la rivista "Third World Resurgence" che si pubblica a Penang, in Malesia), e la maggiore integrità possibile della natura proprio per i poveri del mondo è una questione di vita o di morte.

L'ecologia, considerata nel suo complesso, postula con forza un'altra economia attenta al lungo termine, alle generazioni future, all'equilibrio globale. Postula senz'altro un'economia più vicina a quella dei poveri tradizionali. Mentre i poveri delle città sono talmente degradati che spesso sono lo specchio caricaturale delle economie che li hanno ridotti così: arraffare subito quel che si può, tanto dopo di noi c'è il diluvio.

L'ecologia, per quanto considerata una preoccupazione "post-materiale", è in realtà una faccenda molto "materiale": pensa all'acqua, agli alberi, al suolo, all'aria, ai cibi, alla qualità dei materiali di cui sono fatti i vestiti e le case, a quanto i nostri polmoni, i nostri nasi, le nostre orecchie possono sopportare; e mette tutto questo sopra e contro la "superfetazione finanziaria", che viene spacciata per economia ed è invece un gioco di borsa e di potere. Al tempo stesso, l'ecologia è molto "anti-materialista" e cioè contro l'idolatria del consumismo.

7. La conversione ecologica è comunque una necessità, se vogliamo che la biosfera sopravviva: non sono risolutive, e comunque non bastano, "riparazioni ambientali" gestite da chi ha provocato il disastro.

Consapevolezza ecologica significa anche rendersi conto, che gli attuali sistemi di produzione, consumo e cultura nei paesi industrializzati sono semplicemente insostenibili, se vogliamo sopravvivere e soprattutto se vogliamo che le popolazioni del Sud possano sopravvivere con dignità. Ma ciò non dovrà farci cadere nella trappola della nuova "tutela ecologica" che offrono industrie, progetti, tecnologie, prodotti, nel tentativo di razionalizzare, prolungare e forse attutire un po' gli effetti della crisi ambientale a beneficio della continuazione dello stesso sistema economico: tante chiacchiere sul "sustainable development" (sviluppo sostenibile) o tanti "piani verdi" per l'agricoltura, la riforestazione, l'irrigazione, hanno questa caratteristica.

Inoltre va detto che molti disastri ambientali, che colpiscono il Terzo Mondo, hanno la loro origine in prodotti, tecnologie e modelli di sviluppo del Nord. Ecco perché occorre una scrupolosa "valutazione di impatto ambientale" anche nei confronti dell'ambientalismo del Nord, che si presenta al Sud o all'Est.

8. La presa di coscienza ecologica può anche condurre ad atteggiamenti assai discutibili.

Al Nord:
vedere la natura come una grande dispensa, da gestire con cura e razionamento, magari attraverso il "global resource management" (amministrazione globale delle risorse) delle grandi agenzie ed imprese internazionali, con "arroganza" o "colonialismo ecologico": si crea cioè una nuova dipendenza in nome di tecnologie, valutazioni di impatto ambientale fatte dal Nord, decise e magari imposte unilateralmente su quanto e cosa la terra può sopportare (numero di figli compreso).

Al Sud:
si può guardare all'ecologia con sospetto, come se fosse l'ultimo trucco del Nord per mettere al guinzaglio il Sud; temere "condizionamenti ecologici"; diffidare del "noi" ambientalista ("siamo tutti sulla stessa barca"); quasi rivendicare il diritto del Sud ad inquinare, a dotarsi di energia nucleare, a distruggere e deforestare come segno di sovranità e di auto-affermazione.

Bisogna invece esplorare e valorizzare il parallelismo con diritti umani e democrazia: sono forse un lusso dei ricchi? Non sono forse condizioni di lotta e di affermazione dei poveri? La giusta ricerca dei maggiori responsabili non deve condurre ad esonerarsi dalla presa di coscienza e conseguente azione; anche perché sarebbe fortemente autolesionista, non diventare ecologisti nel Sud. Dipendenza è anche credere, che si debba ripercorrere una via di "sviluppo" analoga a quella del Nord, prima di poter pensare alla salvaguardia della natura.

9. Una modesta proposta di orientamento

Concludendo, cerco di sintetizzare quelli che mi paiono essere i lineamenti di fondo che il movimento verde potrebbe esprimere al Nord, all'Est e al Sud, dove naturalmente questi termini non hanno un significato geografico, ma principalmente sociale, e dove è chiaro che la varietà delle singole situazioni non consente che una sommaria esposizione schematica.

a) autolimitazione al Nord, in nome della pace tra gli uomini e con la natura, fratellanza ecologica, solidarietà iter-generazionale, contrazione e cioè meno anziché più ("pagare il debito ecologico, risarcire le vittime"), disarmo in tutti i sensi.

b) cauto e critico recupero all'Est, che non deve buttarsi sulla strada dell'Occidente ma "sanare il proprio debito ecologico": quindi il piacere della sobrietà e la qualità della vita più nella democrazia, nella cultura, nell'identità, negli scambi, ecc. che nell'imitazione materiale dell'Ovest.

c) individuazione di vie diverse al Sud: coniugare fin d'ora lo sforzo di sottrarsi alla dipendenza con l'azione di riscatto da un'economia, uno sviluppo che porta ad essere debitori insolventi con la natura; cercare vie diverse, con il minimo impatto sull'ambiente (eredità comune, anzi, madre di tutti).

In nome di questi sforzi, assai più che con la minaccia di mettersi ad inquinare, si può obbligare il Nord a condividere questo sforzo e sostenerne la sua parte anche in termini finanziari. Solo in questa prospettiva si può obbligare il Nord a cambiare il suo stile di vita, i suoi consumi. L'obiettivo è dunque di "sanare il proprio debito ecologico e individuare in tempo un''economia', che non debba fare ulteriori debiti ecologici".

Cari compagni del Sud, non eravate voi a dire che volevate una via endogena, autonoma, diversa dal Nord? Ed ora vi mettete a rivendicare gli stessi sacchetti di plastica, la stessa motorizzazione, le stesse centrali nucleari e lo stesso tasso di spreco energetico, come conquista di parità?

Di tutto ciò nulla è facile. Non c'è ricetta ecologista. Si deve piuttosto lavorare con fantasia e prudenza.

LA STRADA DEI CAMBIAMENTI

La strada dei cambiamenti è quella che oppone l'omeopatia alla chirurgia, le utilitarie ai macchinoni, il femminile al maschile, il locale al planetario, l'equilibrio alla rottura, la semplicità alla sofisticazione; e, in treno, le carrozze di seconda classe a quelle di prima: dove la gente eccezionalmente si parla.

(A questa lunga lista di opposti, Langer ne aggiunge un altro pezzettino fatto però di parole sparse. Parole come "politica", "sussistenza", "valutazione di impatto ambientale e generazionale", "commercio equo e solidale", "convegni sulla socialità e l'autostop", ecc. Non sono che suggestioni, dalle quali si può partire per altri viaggi).

L'EGOISMO E L'ALTRUISMO ECOLOGICO

L'esigenza dI giustizia, derivante dalla presa di coscienza ecologica, è forse più profonda e radicale rispetto al marxismo o ad altre dottrine economiciste o di ridistribuzione del progresso; senz'altro più solidale ed universale delle diverse correnti nazionaliste.

Cosa ci dovrebbe spingere a tutto ciò? La consapevolezza? La paura? La legge, la politica? Le tecnologie, i controlli? L'egoismo, l'altruismo ecologico? La cura per la natura riesce forse a promuovere una sintesi tra le "ideologie della generosità" (altruismo), che spesso diventano missionarie ed interventiste, e le "ideologie dell'autodifesa" (egoismo), che viceversa rischiano di essere cieche e sorde alla giustizia. La cura della natura è necessità "altruista" non meno che "egoista".


Relazione al "Secondo Incontro latinoamericano di Cultura, Etica e Religione di fronte alla sfida ecologica" organizzato dal CIPFE (Centro de Investigación y Promoción Franciscano y Ecológico) di Montevideo (Uruguay), nel dicembre '90, a Buenos Aires ....con alcuni punti sparsi raccolti da José Ramos Regido e Enzo Nicolodi che avevano pure preso parte all'incontro..

 

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