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Contro la guerra cambia la vita

1.12.1990, Da "Terra Nuova Forum" Roma, gennaio 1991
Quanti oggi si disperano per non essere riusciti a prevenire prima ed a fermare poi la guerra nel Golfo, si trovano in buona ed illustre compagnia: il Papa ed il Segretario delle Nazioni Unite aprono il lungo corteo di coloro che non si rassegnano facilmente al fatto che la parola sia passata alle armi, che la guerra, "avventura senza ritorno", sia poi effettivamente scoppiata.

E più si sperimenta l'impotenza di milioni di persone comuni e di migliaia di esponenti rappresentativi delle più diverse istituzioni, chiese, associazioni, sindacati, partiti e persino Parlamenti che invocano la fine della guerra, ma non riescono a farsi ascoltare, più ci si domanda cosa di efficace oggi si possa fare di fronte a gravi ingiustizie internazionali, senza affidarsi alla prova di forza militare. E se l'Occidente sviluppato e progredito non riesce a trovare risposte a questa domanda, come si può sperare che altri nel mondo, di fronte ad occupazioni ingiuste, gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, minacce, atti di forza, soprusi, ecc. non cerchino in tutti i modi di ristabilire anche loro con piccole o grandi guerre (e col terrorismo, per chi non dispone del timbro di alcuno stato per legittimare la propria violenza armata) i loro diritti violati? Come pretendere dai palestinesi, dai kurdi, dagli abitanti del Kashmir, dai ciprioti, dagli armeni, dai tibetani, dai popoli baltici e da tanti altri di respingere la tentazione della violenza come mezzo per affermare i loro diritti violati? Tanti pesi, tante misure, ed alla fine ogni volta, quando parlano le armi, finisce per affermarsi semplicemente la legge del più forte, che sia nel giusto o nel torto.

Il "pacifismo gridato" (così lo ha chiamato il card. Martini di Milano) esprime la rabbia e la frustrazione di chi sente questa impotenza, ma davvero non sfugge facilmente all'accusa di usare anch'esso pesi e misure diverse, a seconda di chi si tratta di condannare o approvare.

Chi però non rinuncia a considerare la guerra comunque, ed oggi ancor più di ieri e dell'altro ieri, una sconfitta dell'umanità che finisce per provocare mali maggiori di quelli che pretende di curare, non può rassegnarsi ad accettare che ci siano situazioni che solo con la forza bellica si possono risolvere.

Sono due le linee di azioni che a questo punto sembrano degne di esplorazione approfondita. La prima aiuta a superare il "pacifismo (solo) gridato" e potrebbe essere sintetizzata con un motto formulato dalla "Campagna nord-sud": contro la guerra, cambia la vita. La seconda riguarda il ricorso alla "forza", senza che ciò debba essere sinonimo di guerra, un problema che i non-violenti da sempre pongono e che non può ridursi all'alternativa tra subire o fare la guerra.

Contro la guerra, cambia la vita: le guerre scoppiano "a valle", quando tutta una infausta concatenazione di soprusi, violenze e fallimenti si è già prodotta e sembra diventata irrimediabile; i popoli, la gente comune, sono poi chiamati a pagare il conto finale senza aver potuto intervenire sulle singole voci che lo hanno via via allungato. Ma dinnanzi al fallimento della politica e della negoziazione, che sfocia nella guerra, bisognerà pur rafforzare gli "anti-corpi" a disposizione di ogni singola persona per prevenire le guerre e per non lasciarsene, comunque, catturare, una volta che sono scoppiate. Se tutto uno stile di vita (consumi, produzioni, trasporti, energia, banche...) nel quale siamo largamente coinvolti, per potersi perpetuare ha bisogno di condizioni assai ingiuste che regolano le relazioni tra i popoli e con la natura, bisognerà dunque intervenire "a monte" e mettere in questione la nostra partecipazione (anche individuale) ad un "ordine" economico, politico, sociale, ecologico e culturale che rende necessarie le guerre che lo sostengono. Se il consenso alla guerra (sotto forma di nazionalismi, razzismi, pregiudizi, stereotipi, ecc.) può con tanta facilità diventare maggioritario - non certo soltanto tra "fondamentalisti islamici"..! - si dovrà intervenire anche qui "a monte" ed allargare una solida base ideale e culturale di disposizione alla pace ed alla convivenza, disintossicando cuori e cervelli. Se è considerato scontato che, una volta scoppiata la guerra, non resta che allinearsi ed arruolarsi (materialmente e culturalmente), bisognerà pur che qualcuno lavori per suscitare e consolidare scelte di "obiezione alla guerra". Sono dunque tante le forme di azione che si possono scegliere per "cambiare la vita di fronte alla guerra", nel senso di negarle ogni consenso e sostegno e nel senso di farle mancare - ognuno - almeno un pezzettino di apparente giustificazione.

Più difficile appare oggi la seconda delle linee proposte: sviluppare strumenti "di forza", ma il meno possibile violenti e comunque non bellici. Di fronte all'occupazione violenta del Kuwait da parte dell'Irak, ed alla sistematica azione degli USA e di alcuni fra i loro alleati per arrivare comunque alla guerra con l'Irak e realizzare una globale "resa dei conti" per impedirgli di nuocere in futuro, la scelta non-violenta a molti sembra andata improvvisamente in crisi. La "guerra giusta" è riapparsa solennemente all'orizzonte - questa volta con tanto di voto a schiacciante maggioranza nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU e quindi con la legalità internazionale assicurata. Non poteva mancare qualche vescovo, qualche moralista e qualche elzevirista a benedire il tutto. "Pacifista" è tornato ad essere un sinonimo di fifone, piagnone o alto traditore e cospiratore col nemico, "non-violento" un aggettivo buono per i sognatori. Lo stesso Papa viene indicato come capofila del "disfattismo", visto che non cessa di denunciare e chiamare a fermare questa guerra.

L'argomento più forte dei sostenitori della "guerra giusta" (magari ribattezzata "azione di polizia internazionale") è di ordine storico-morale: "se Hitler fosse stato fermato già nel 1934, al momento dell'occupazione della Renania, si poteva forse risparmiare al mondo intero la tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale". Dove per "fermare Hitler" si dà per scontato che si debba leggere "fare la guerra a Hitler". E dove si dimentica che la coalizione anti-Hitler avrà, sì, battuto l'incubo del totalitarismo nazi-fascista, ma rifondato anche - su 40 milioni di morti - un ordine internazionale che ha tranquillamente consegnato mezza Europa ad un altro totalitarismo e l'intero sud del pianeta allo sfruttamento e, in molti casi, a vecchi o nuovi colonialismi e totalitarismi.

Se quindi è giusto fare tutto il possibile per fermare aggressioni, ingiustizie e soprusi, a partire dal chiamarli per il loro nome ed identificarli come tali, non mi sembra invece nè giusta, nè risolutiva l'idea di farne derivare con una sorta di funesto automatismo la sanzione bellica. Piuttosto la guerra nel Golfo (che fin d'ora appare - a dispetto di tutte le censure nell'informazione - ben più "sporca" di quanto non sia stata presentata, camuffata in geometrica potenza dell'azione chirurgica elettronica) dimostra che si devono inventare nuovi strumenti alternativi e non-violenti, persuasivi ed efficaci, per ridurre il tasso di violenza nel mondo e per risparmiare bagni di sangue (che si chiamino guerra o repressione, che siano internazionali o interni). Ne provo ad indicare quattro, di cui mi sembra ci sia bisogno (potendoli qui appena accennare, naturalmente):

1) sviluppare l'arma dell'informazione e della disarticolazione della compattezza derivante da repressione, disinformazione, censura; perché non "bombardare" con trasmissioni radio e TV, con volantini, con documentazione, piuttosto che con armi? ("Radio Free Europe" o "Radio Vaticana" hanno fatto probabilmente di più per la destabilizzazione dei regimi dell'est che non le divisioni della NATO) Perchè non fornire supporti ed aiuti ai gruppi impegnati nei diversi regimi totalitari per i diritti umani, piuttosto che fornire armi agli Stati che un giorno si spera facciano loro la guerra?

2) costituire e moltiplicare gruppi/alleanze/patti/tavoli inter-etnici, inter-culturali, inter-religiosi di dialogo e di azione comune, piuttosto che dialogare solo da campo a campo o da blocco a blocco; è l'abbattimento dei muri, o perlomeno lo sforzo di renderli penetrabili (vedi l'esperienza inter-etnica dell'"altro Sudtirolo"!) Oggi uno dei "buchi neri" in questa crisi è l'assenza di forti legami inter-culturali ed inter-etnici tra arabi ed israeliani, tra Europa e mondo arabo, tra Cristianesimo ed Islam; non sono quindi da disprezzare anche modesti strumenti quali i "gemellaggi" tra Comuni, Regioni, associazioni, ecc., che avvicinano concretamente i popoli e rendono più difficile il consenso a "bombardare l'altro" (che si accetta di bombardare tanto più quanto meno lo si conosce);

3) lavorare seriamente per un nuovo diritto internazionale e per un nuovo assetto dell'ONU, basato oggi non solo sugli esiti della seconda guerra mondiale (con le sue "Grandi Potenze", i loro diritti di veto, ecc.), ma anche su un concetto ed una pratica di "sovranità degli Stati" poco consono al destino comune dell'umanità. La tradizionale distinzione tra "affari interni" che esigono la non-ingerenza degli altri (per cui torture e massacri non riguardano la comunità internazionale, finchè non scoppia un contenzioso tra almeno due Stati) ed "internazionali" non regge alla prova delle emergenze ecologiche, nè dei diritti umani;

4) chiedere all'ONU di promuovere una sorta di "Fondazione S.Elena" (nome dell'isola in cui alla fine fu esiliato Napoleone, tra gli agi e gli onori, ma reso innocuo), per facilitare ai dittatori ed alle loro sanguinarie corti la possibilità di servirsi di un'uscita di sicurezza prima che ricorrano al bagno di sangue pur di tentare di salvarsi la pelle (Siad Barre, Ceausescu, Marcos, Fidel Castro, il re del Marocco, Saddam Hussein... potrebbero o potevano utilmente beneficiarne piuttosto che giocare il tutto per il tutto); la questione di amnistie e indulti per chi è abbastanza lontano ed abbastanza vigilato da non poter più fare danni, non dovrebbe essere insolubile.

Ho scelto appena alcuni esempi, tra i molti che si potrebbero fare (pensiamo solo alle diverse possibili articolazioni dell'embargo commerciale, sportivo, scientifico, ecc.), perchè sono convinto che oggi il "settore R&S" (ricerca e sviluppo) della non-violenza debba fare grandi passi avanti e non fermarsi solo alle ormai tradizionali risorse della disobbedienza civile. E la spaventosa guerra in corso non deve farci fare tutti quanti un salto indietro, riammettendo la guerra tra i protagonisti della storia e tra gli strumenti - seppur estremi - della convivenza tra i popoli. Con il livello odierno di armamenti, di affollamento demografico del mondo e di precarietà ecologica del pianeta comunque non ci può più essere più "guerra giusta", se mai ve ne poteva esistere in passato.

Da "Terra Nuova Forum" Roma, gennaio 1991
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