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Alexander Langer: che fine fa la rivoluzione

11.9.1985, Manoscritto per Istituto Aurora

1. Sul concetto di avanguardia..
Il concetto stesso viene definito in modo militare. Avanguardia si riferisce ad un modello di guerra. I promotori, gli agitatori, i salvatori, i missionari, le avanguardie, credono di dover portare gli altri lì dove loro stessi pensano di essere arrivati, di farlo fare – per il loro bene, s'intende – quel che da soli non farebbero. Un modello di azione più conviviale, più solidale, più circolare (agire insieme, partire dall'interno, “grass-roots-initiatives...) probabilmente risparmierebbe tanti guai provocati dalle “avanguardie” che presumono di aver individuato il “livello più alto dello scontro” e di essere già piazzate lì.

2. Tu che sei un' avanguardia...

Sì mi sono sentito “avanguardia” ed ho agito sentendomi tale. In vari modi ho pensato (e forse più sfumatamente penso ancora) di dover prendere su di me le sofferenze del mondo, di “salvare”, di “illuminare”. Sto cercando di superare questa coscienza infelice, sperando di stare meglio io, di produrre meno guasti e di favorire più autonomia negli altri.

Non nego che spesso ho avuto una sensazione piacevole e gratificante nel provare acuta consapevolezza e lucidità dove altri mi sembravano ciechi e sordi. Ma più ho agito da “avanguardia”, meno sono arrivate in profondità le ripercussioni di quello che facevo e faccio. Oggi, all'azione di avanguardia preferisco semmai la testimonianza individuale, l'obiezione di coscienza quando credo di dover fare qualcosa che mi preme e che altri non vedono, sperando – piuttosto – che questo provochi effetti autonomi in altre persone.

3. il riferimento alla classe operaia..

L'interesse oggettivo e materiale della “classe operaia” (concetto anch'esso assai mitizzato e ideologizzato) è un po' il fratello siamese di quello dei padroni capitalisti: basti pensare come tanti operai – ovviamente sotto il ricatto esistenziale – preferiscano lottare per posti di lavoro altamente nocivi, a se stessi ed agli altri, piuttosto che uscirne. E' un po' come i soldati che, di fronte alla guerra, credono che sia preferibile combattere per vincerla piuttosto che disertare o comunque rifiutare ogni forma di collaborazione. In questo senso non credo (più) che dalla “classe operaia” possa venire l'impulso decisivo per superare il capitalismo ed, a maggior ragione, l'industrialismo, anche se non sottovaluterei il forte interesse operaio a cambiare una situazione in cui le persone sono davvero le appendici delle macchine e la loro sopravvivenza è legata all'erogazione delle briciole di un'economia basata sulla crescita (detta “sviluppo”) e sul funzionamento costante ed a spirale dell'espansione. Ma sarà difficile il divorzio tra operai ed industrialismo.

4. sui disoccupati...

L'esistenza endemica e crescente di altissime percentuali di disoccupati (un terzo dei giovani d'Europa, tra poco) è un'altra conferma dell'inutilità di fare affidamento sulla supposta centralità della “classe operaia” .

Il più forte interesse materiale, nel breve periodo, dei disoccupati è la radicale redistribuzione del lavoro e delle fonti di reddito, che dovrà essere sganciato – almeno parzialmente – dal possesso di un posto di lavoro.

Questo interesse non sempre sarà spontaneamente condiviso dalla classe operaia e dalle sue organizzazioni tradizionali, ma non vedo altra strada possibile. Intanto varrebbe comunque la pena iniziare una profonda “rivoluzione culturale” per distinguere il ruolo sociale dal possesso di un lavoro “formale” (retribuito, regolamentato). I disoccupati non devono passare una vita alla ricerca frustrante e frustrata di un posto di lavoro (che in genere non avranno), bisognerà individuare altre possibilità di affermazione. Per esempio il lavoro cooperativo, autogestito, forme di salario sociale, rivalutazione del lavoro “informale” (domestico, artigiano, servizi comunitari, ecc.), e così via.

5. conflitti di classe in Italia...

Vedo più forte e reale il conflitto tra possessori e non possessori di lavoro, oppure tra percettori e non percettori di reddito che non il tradizionale conflitto di classe tra operai e padroni. Ma ciò non vuol dire che in Italia non ci siano consistenti conflitti sociali, derivanti da forti ingiustizie nella distribuzione della proprietà, della sovranità sul proprio lavoro e sul proprio tempo, della “risorsa casa”, dei redditi, del carico fiscale, ecc.

Purtroppo nella dinamica sociale finiscano spesso per prevalere conflitti corporativi o conflitti fasulli (vedi la falsa epopea della scala mobile).

6. che fine fa la rivoluzione...

Il termine rivoluzione è diventato anch'esso mitico e comunque di significato troppo sfuggente. Per esempio mi pare assai difficile individuare delle “rivoluzioni” con le quali ci si possa identificare senza grandi riserve. Ma non é tanto la “radicalità” insita al concetto di rivoluzione che deve spaventare, mi sembra, quanto l'idea che si debba rompere col passato, con la tradizione, con l'esperienza in nome di un'utopia, spesso astratta. Forse sarebbe “rivoluzionario” oggi dire davvero basta alla logica della crescita e dell'espansione, ed adoperarsi per un modello socio-economica basato sulla circolarità, sulla mutualità, sulla stabilità, piuttosto che sulla concorrenza, lo squilibrio, il rapido mutamento.

 

Pubblicato sul Mensile dell'Istituto Aurora per la ricerca politica sulla pace e lo sviluppo - Roma

Direttrice: Giovanna Declich

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