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Pacifismi

18.1.1989, Alto Adige
E'difficile dire se, nella storia, i movimenti per la pace abbiano ottenuto qualcosa. Mentre l'utilità per esempio dei pompieri può essere desunta principalmente dal numero degli incendi domati, quella dei movimenti pacifisti è più complicata a misurarsi, ed andrebbe - semmai - esaminata soprattutto con riguardo alla prevenzione politica e culturale. Operare per bandire le guerre ed il militarismo dalle menti e dai cuori della gente, prima ancora che dalle politiche dei governi, è sicuramente meritevole ed importante. Fa una gran differenza essere circondati da un clima di esaltazione "eroica" della guerra (come avveniva sotto i regimi fascisti tra le due guerre mondiali in Europa) o da quel "ripudio" della guerra che la Costituzione della Repubblica italiana esprime e che le iniziative pacifiste cercano, da sempre, di incoraggiare e rendere vero.

Ma basta questo, e basta qualche azione simbolica - come dichiarare "territorio libero da armi nucleari" una Regione o un Comune, o aderire a giornate per la pace - per ritenersi efficaci"operatori di pace"?

A guardare alcuni conflitti recenti, verrebbe da scoraggiarsi sui risultati pratici dei movimenti pacifisti. Guerre tra Stati, grandi (come quella tra Iran e Iraq) o piccole (come il conflitto anglo-argentino intorno alle Falkland-Malvine), guerre di Stati contro popolazioni che vogliono l'indipendenza (dal Sahara alla Namibia), guerre di guerriglia (dall'Afghanistan all'Angola), guerre interne (come quelle contro i palestinesi, contro i curdi o contro i tibetani) continuano a svolgersi, e sembrano curarsi poco delle iniziative pacifiste. E se la corsa agli armamenti pare finalmente rallentarsi, non è tanto per merito dei movimenti per la pace, quanto piuttosto per lo storico accordo dell'8 dicembre 1987 tra USA e URSS che ha segnato per la prima volta un passo indietro nel processo di riarmo.

Che ci stanno a fare, allora, i movimenti per la pace? Come possono sperare di contrapporre qualcosa di efficace ad una forza incomparabilmente superiore quale quella esercitata dagli interessi economici e di potere che spingono alle guerre?

Infatti un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si caratterizzasse davvero per partigianeria unilaterale (denunciare certi armamenti e certe guerre e tacere su altre) o se si limitasse ad invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Di ciò i pacifisti di oggi - e le loro diverse associazioni, dal "movimento internazionale di riconciliazione" al "movimento nonviolento", da "Pax Christi" alla neocostituita "Associazione per la pace", dalla "lega degli obiettori di coscienza" ai più diversi sodalizi grandi e piccoli, anche su scala locale - si rendono ben conto. Ed infatti si sta assistendo alla rigenerazione di un pacifismo di tipo nuovo, che promette bene, pur sapendo di dover affrontare immani sproporzioni tra le spinte alla guerra (che sono poi le stesse che comportano distruzione ambientale, sfruttamento economico, oppressione politica) e la necessità di pace (che vuol dire sostanzialmente autolimitazione e rispetto di un equilibrio giusto).

Vediamone alcune, di queste nuove caratteristiche. Innanzitutto viene riconosciuto il nesso tra le "grandi" e le "piccole" scelte: lavorare per l'amicizia tra i popoli vuol dire costruire pace ed amicizia anche nella comunità: nei confronti di chi è diverso, di chi si trova in minoranza, di chi è circondato da incomprensione o ostilità. I rapporti tra popoli diversi, o tra città, non sono fatti solo di pranzi e doni tra sindaci e ministri, ma anche e soprattutto di incontri, scambi, gemellaggi, rapporti epistolari...tra la gente. La lotta per il disarmo puó essere fatta anche dal personale rifiuto del servizio militare o dalla personale "obiezione fiscale" alle spese militari. "Contro la fame, cambia la vita" diceva una felice e ricca indicazione nel quadro delle campagne contro la fame nel mondo: altrettanto vale "contro la guerra, cambia la vita". Perché in qualche misura siamo tutti profittatori di guerra: i prezzi delle materie prime e degli alimenti di cui noi ci serviamo sono frutto di una guerra permanente - anche cruenta! - nei confronti di gran parte della popolazione del pianeta.

Scoprendo e divulgando questi nessi e promuovendo comportamenti personali di riduzione della violenza, i movimenti per la pace - al pari di quelli per la salvaguardia della natura o per la solidarietà con il sud del mondo - sempre più diventano parte di una nuova e grande sensibilità: che cioè il nostro modello di vita attuale - dai consumi agli armamenti, dalla competizione produttiva a quella intellettuale - impone un altissimo livello di conflitti e di violenza, dove i più deboli soccombono per primi, ma dove anche i forti ben presto vengono colpiti dagli effetti-boomerang della distruzione. Conviene "disarmare", finché siamo in tempo.


per l'"Alto Adige" (18.1.1989)

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