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Anna Bravo, recensione del libro di Adriano Sofri "contro Giuliano

1.3.2008, La Repubblica

Questo libro è un doppio esercizio di amicizia. Forte, sommessa, sorvegliata, verso le donne. Sciolta, pronta al conflitto e fiduciosa che non sia distruttivo, verso Giuliano Ferrara. Varrebbe la pena leggerlo anche come un esempio di cura per le relazioni, di impegno alla ricerca di un linguaggio capace di impedire che il dissenso diventi dissidio – un esempio, non un modello, visto che ogni rapporto ha la sua storia.

Ma è un esempio che può estendersi dal legame Sofri-Ferrara a altri protagonisti e soprattutto protagoniste del dibattito di oggi. Prendersi in parola e sul serio è il primo passo per trasformare uno scontro in una vincita a due, talento grandioso, difficile da raggiungere, legittimamente parziale. Non lo si spende per tutti. L’importante è che sono rimasti aperti (o sono nati) flussi di amichevolezza fra donne di idee e sentimenti diversi. La mia amica Nicoletta Tiliacos, nemica strenua dell’aborto chimico, non per questo vuole meno bene a me, che sono possibilista, né io a lei. Merito nostro. L’iniziativa di Ferrara può aver reso molte persone più sensibili, ma a livello pubblico è piombata su un terreno delicatissimo, spingendo indietro dubbi e riflessioni, creando un muro contro muro in cui chi apre bocca si trova subito arruolato nell’uno o nell’altro schieramento.

Di fronte al gran parlare di queste settimane, c’è bisogno di ricordare (o rivelare) alcune verità. Sofri se ne fa carico, con puntiglio e senza quel sarcasmo che nei primi anni settanta era la sua cifra più ammirata, ma che in fondo è violenza fatta parola. Chi legge scopre cose su cui pensare. Che il cortocircuito aborto/pena di morte non l’ha inventato Ferrara, ma alcuni Stati amanti della forca, che l’hanno usato per giustificare il loro no alla moratoria sulle esecuzioni capitali: se si fossero sospese, era il loro argomento, si sarebbero dovute sospendere anche le norme di legalizzazione. Che dietro la formula «sono contro l’aborto» si possono trovare le idee più varie, come nella improbabile dichiarazione di essere a favore. Che anche negli anni settanta il concetto di diritto all’aborto era controverso; negli stessi Stati Uniti, dove il liberalismo esaltava l’autodeterminazione dei cittadini e le lotte dei neri facevano scuola, la prospettiva non è mai stata la semplice aggiunta di un diritto agli altri. Le attiviste pro choice sostenevano piuttosto che lo stato dovesse fare un passo indietro, mettendo fine alla sua ingerenza in scelte intime e personali. E infatti la famosa sentenza sul caso Roe vs Wade non si appoggia al principio della libera disponibilità del proprio corpo, ma alla privacy, alla facoltà inalienabile «di definire la propria concezione dell’esistenza e del senso della vita». Infine – punto cruciale – Sofri scrive che associare aborto e Shoah non innalza il primo, rischia piuttosto di polverizzare la seconda, facendo cadere un tabù indispensabile e già vacillante. E non si attarda a spiegare, perché a chi li considera assimilabili non manca necessaariamente l’informazione, manca un cuore vigile.

 

Ma non è per questo che il libro si fa voler bene - e da altri si farà detestare. E’ per qualcosa di semplice, all’apparenza: la rinuncia dichiarata e praticata a parlare per le donne, a mettersi al loro posto su un terreno che resta irrimediabilmente straniero a chi donna non è. Nato dalla paura millenaria per la capacità generativa femminile, il desiderio di controllarla si è sempre giustificato nella presunzione di saperne di più delle donne stesse, di più della coppia madre/feto e madre/bambino, e dunque di poterle definire e regolamentare. Lungo processo, portato a compimento nel secolo superbo e sciocco. A inizio ottocento il corpo parla ancora, con i suoi dolori, gonfiori, movimenti del feto, ed è ascoltato; alla fine del secolo, è ormai zittito a vantaggio delle mani del medico, dello stetoscopio, dei raggi X. E la gravidanza diventa un insieme di riscontri “oggettivi” valutati da professionisti. A una donna non si spiega solo la trasformazione di cui il suo corpo è protagonista – il che è positivo, e può preludere a una buona allenza con il medico; le si anticipa quel che deve provare. Parlare per le donne significa anche voler pensare per loro.

Quando negli anni settanta una ragazza diceva a un maschio: «parla per te», sottintendeva: «e non credere di poter pensare per me». Oggi ci sono ancora (di nuovo?) uomini che se lo permettono, e forse sono aumentati. Resta il fatto che i maschi possono sì continuare a parlare a nome delle donne, ma hanno perso il diritto a farlo con "innocenza". Femminismo, grazie.

Sofri parla per sé, e a un altro uomo. Gli sembra che Ferrara coltivi l’illusione di poter conoscere l’esperienza dell’aborto, come se la pancia fosse la sua, suo il feto, sua la sensazione di mandarlo via, suo il vuoto che resta. Invece c’è un limite, gli ricorda l’amico all’amico. Esiste qualcosa che si può provare a immaginare, ma sapendo che si resta comunque al di qua, nel pezzo di mondo dove fare un figlio è questione di 20 secondi, fare un aborto può essere un problema di soldi oppure un tormento, ma non diventa mai un’esperienza propria. La più sventata delle ragazzine ne sa di più del filosofo, dello scienziato, persino del compagno che le sta vicino.

Può sembrare ovvio, e non lo è. Nel discorso di Ferrara il vizio del parlare per le donne arriva al paradosso di definire l’aborto un omicidio, invitando però le esecutrici a non ritenersi assassine. O l’uno o l’altro, scrive Sofri. Niente sconti, aggiungerei. Perché il solo modo di tenere insieme quel non senso è considerare le donne un po’ meno responsabili, un po’ meno imputabili, come stabilivano un tempo alcuni codici. Minori a vita. Oppure prototipi della vittima, condannate a competere per la palma dell’oppressione in un mondo dove questa figura ha conquistato una potenza simbolica smisurata. Dietro l’appello all’amore, forse c’è una visione del sociale schiacciata sulla dicotomia offensore/vittima, che è parallela alla dicotomia amico/nemico.

Certo: l’aborto ha una faccia maschile, nasce dalla leggerezza degli uomini, dalla loro incapacità di accettare una gravidanza imprevista. Da viltà – Sofri usa deliberamente il termine “raschiare” per dire che l’evenienza dell’aborto spreme quanto c‘è di meschino in un maschio. Cita Carla Lonzi, che scriveva 38 anni fa: «la domanda da porsi non è se abortire o no, è: “per il piacere di chi sto abortendo?”». Forse è così ancora oggi. Ma nel frattempo tante cose sono cambiate, in tema di vita, morte, dolore. Mi sarebbe piaciuto che in questo libro si dedicasse più spazio alla tendenza di nuovo in atto a «umanizzare» l’aborto in nome della sofferenza femminile. Assassine ma afflitte, oppure innocenti e afflitte. Nel dolore siamo tutte uguali, diceva un titolo di giornale, giorni fa. La maternità “è tutta e sempre un martirio, scriveva Paolo Mantegazza, e la donna è sempre madre, anche quando è vergine”.

Allora, chi non soffre è un’assassina tout court? Il dolore è tornato un obbligo, il solo riscatto socialmente accettato?

Spero che anche di questo si parli fra uomini. Ma al modo di Sofri. Invece mi auguro che a nessuno venga in mente di scrivere un libro intitolato Lettera alla mia compagna che ha abortito.

 

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