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Diego Lorenzi: Srebrenica, viaggio al termine della notte

5.10.2018, Finnegans.it

Srebrenica, viaggio al termine della notte .Ovvero, una comunità che rinasce sotto le braci di un sogno incandescente                                                                                

Come nel celebre romanzo di Céline, nel quale è condensata tutta la disperazione del Novecento, la notte di Srebrenica raggruma tutto lo sgomento di fine secolo, scolpito nell’immenso “memoriale” della storia balcanica come eterna testimonianza del più grande genocidio dopo la Shoah.

È da giorni che con gli amici della “Fondazione Alexander Langer” di Bolzano e di “Adopt Srebrenica ”– un’associazione che custodisce e alimenta la speranza della resurrezione della città bosniaca – percorriamo le strade deserte e notturne della città martire, nel più totale silenzio, interrotto di tanto in tanto dal frastuono di un’auto che schizza nella notte a grande velocità, immersi nel ricordo pesante di un conflitto etnico che sanguina ancor oggi.

Siamo arrivati a Srebrenica (città d’argento) da pochi giorni, raccogliendo un invito per “La settimana internazionale della memoria” promossa degli amici di Adopt Srebrenica e fatto proprio dalla Fondazione che ricorda la grande figura umana e politica di Alexander Langer, la sua immensa testimonianza e il suo personale sacrificio. 

  L’impatto del primo giorno con il maestoso Memoriale di Potočari, composto e commovente nella sua dolorosa quanto suggestiva estetica – una foresta di steli bianchi che interagisce armoniosamente con il paesaggio circostante in un incessante e muto colloquio con la luce ed il verde delle colline – è stato emotivamente dirompente, riuscendo a piegare, fino a spezzarla, ogni barriera della ragione innalzata a difesa di sé stessa. Il genocidio, un massacro inspiegabile, una carneficina che supera il confine di ogni possibile delirio della ragione precipitando nel buco nero della barbarie.

Com’è potuto accadere tutto questo? Questa è la domanda che mi accompagnerà per tutto il soggiorno e che brucerà per sempre come una fiamma eterna, inestinguibile.

Difronte al Memoriale, nell’ex fabbrica di batterie divenuta Museo, è stata allestita una grande mostra con foto che raccontano i vari momenti di vita e di morte della città: un’esposizione permanente trasformata in un potente atto d’accusa contro il fallimento della comunità internazionale nel tentativo di fermare il genocidio di Srebrenica.

Il museo ospitava la sede del comando del battaglione olandese della missione ONU “UNPROFOR”, il cui compito era difendere l’“area protetta” di Srebrenica. Come l’abbiano “difesa” è visibile allungando lo sguardo verso l’immenso cimitero di steli bianchi, simboli perenni del disonore di cui si sono macchiati tutti gli organismi politici, civili e umanitari internazionali.

Ci soffermiamo a lungo sulle immagini, sui video, sui racconti di alcuni testimoni, in preda ad una forte commozione e ad un sussultante spaesamento emotivo. Torneremo al Museo poi una seconda volta, dopo alcuni giorni, condividendo fino in fondo l’intensità di quella struggente fascinazione – quasi ipnotica – che sgorga dalle lunghe e spoglie pareti ricoperte di luci e di impenetrabili “ombre”. 

Primo pomeriggio. Sopra Srebrenica si stende un meraviglioso cielo di seta turchina. Facciamo due passi in una città semideserta. Il silenzio assorbe ogni singola parola, introiettando quasi la convinzione che sia impossibile comunicare gli uni con gli altri.

Poco dopo ci ritroviamo tutti presso la Casa della Cultura per l’apertura della “Settimana internazionale della memoria”, dove tutti gli amici e i membri di Adopt Srebrenica ci danno il benvenuto e ci parlano della loro città, delle difficoltà di una coesistenza pacifica, dell’immobilità politico-economica, del lavoro che manca, ma anche della loro “resistenza” e delle loro iniziative, illustrandoci il programma dell’intera settimana. L’accoglienza è calorosa, si respira un’aria familiare: la città ci viene incontro attraverso i loro sguardi e i loro racconti. 

Ospitalità. L’accoglienza è stata squisita, a partire dalla sistemazione nelle famiglie della città, ai pranzi e alle cene preparate dalle donne di Srebrenica e da alcuni ristoratori, dallo straordinario rapporto umano con tutti i membri dell’associazione organizzatrice dell’evento, dalla puntualità, disponibilità e dalla perfetta gestione collettiva del gruppo da parte di Valentina, Bekir, Amra, Zoran (traduttore impeccabile), di Muhamed, “cuore pulsante” del gruppo, quasi sempre in compagnia di Asan, il figlioletto di pochi anni, un bimbetto adorabile che si è aggirato tra di noi per l’intera settimana.
Insomma, un’ospitalità impareggiabile, culminata il giorno prima della partenza con un superbo pranzo all’aperto, sotto un sole cocente, preparato dalla madre e dalla famiglia di Muhamed nella loro casa nel villaggio di Osmače.

Il secondo giorno si è aperto con la visita della città e con una lunga sosta al monumento dei partigiani titini – con targa vergognosamente rimossa dal Pope della chiesa ortodossa e modificata secondo i suoi dettami religiosi (e politici) –; una prima tappa seguita da una corroborante passeggiata lungo la strada che conduce alle storiche Terme Guber, un complesso turistico-alberghiero ora irriconoscibile, sospeso come nel tempo, forse avviato all’estinzione, forse ad una nuova rinascita, chissà.
Poco prima delle terme, l’albergo Domavia si staglia contro un grigio fondale di un cielo arrugginito, facendo tutt’uno col paesaggio. E pensare che le terme, prima del conflitto, erano una fonte di richiamo nazionale e costituivano l’asse portante dell’intera economia della zona, un territorio che costeggia il fiume Drina (ricordato dal premio Nobel Ivo Andrić), ricco di miniere di argento, zinco e piombo.
Oggi le terme si concedono al visitatore nella loro veste più desolante, un misto di decadenza e di rassegnato abbandono, interrotto parzialmente dallo spettacolo delle suggestive sorgenti termali lungo il percorso che conduce alle nuove strutture ricettive, pensate in funzione dell’apertura dei nuovi stabilimenti Guber.

Ma è sul versante culturale che Adopt Srebrenica riesce a stupire positivamente il visitatore alle prese con un paesaggio “disperato”, a tratti angoscioso e spaesante, “devitalizzato”, quasi irriconoscibile; un“ paesaggio interiore” devastato, come si palesa negli sguardi dei pochi passanti che incrociamo lungo le strade che conducono ad un vecchio “ritrovo di caccia”, oggi trasformato in spazio espositivo. Questo luogo, artisticamente suggestivo,  Anselm Kiefer, che ha cantato, raffigurato ed esposto il dolore e l’orrore dell’Olocausto in tutta la sua esplosiva essenza eversiva (anche se, ricordando quello che sosteneva Theodor Adorno dopo Auschwitz a proposito della poesia, si potrebbe dire che  a Srebrenica è impossibile dedicarsi all’arte dopo la barbarie del Genocidio. Aggiungendo, comunque, alcuni anni dopo, che «Il dolore incessante ha altrettanto diritto di esprimersi quanto il torturato di urlare; perciò forse è sbagliato aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere poesie»).

Comunque, il “cantiere creativo” è allestito con un senso misurato e nobile della tragedia che vuole rappresentare e far conoscere: tutto è ridotto all’essenziale, spoglio e crudo nella rappresentazione del dolore collettivo, ma anche della forza rigenerante e vitale di un ricordo che vuole imbattersi in un futuro di ricostruzione e di speranza. È un messaggio che scorre quasi en plain air – in mancanza di pareti e di infissi – e che attraversa la folta pattuglia di ospiti che assistono all’inaugurazione della mostra e del libro di testimonianze e documentazione A place of life, che restituisce la memoria storica, culturale, civile, politica e religiosa della città.
Un prezioso omaggio offerto dai giovani di Adopt Srebrenica – con l’aiuto di qualche autentico custode del patrimonio e dell’identità storica della città, come Krsto Stjepanovic, che racconta con passione alcuni aspetti della vita sociale e politica del passato, con una velata nostalgia condita con una buona dose di pungente realismo, frutto di anni di battaglie e di crudele disincanto.

Il programma dei giorni seguenti si è arricchito di due incontri, pomeridiano e serale, con Srđan Puhalo – uno studioso della società serbo-bosniaca, uno psicologo sociale come si definisce e un coraggioso giornalista che sfida quotidianamente il potere “saettando” dal suo blog e dedicandosi alla scrittura di denuncia attraverso precise e documentate analisi politiche di contro-informazione militante –. Puhalo è riuscito a trattenere l’attenzione del numeroso pubblico intervenuto presso l’auditorium del Dom Kulture per moltissime ore e a creare uno straordinario corto-circuito tra una narrazione scandita da numerosi episodi inerenti il clima e le tensioni sociali ancora presenti nelle comunità serbe e bosgnacche e alcuni racconti affiancati da accurate indagini sull’esercizio del potere e sulle sue quotidiane deviazioni antidemocratiche.
Sono molti gli interrogativi sul futuro della società, sulla sua evoluzione democratica ed accogliente, minacciata – come ormai in gran parte dell’est balcanico – dal ritorno di un becero nazionalismo religioso e sovranista, che coniuga un esasperato uso delle religioni (soprattutto ortodossa e in parte cattolica) a fini di lotta politica, con rivendicazioni territoriali, etniche e patriottiche che si pensava estinte dopo i sanguinosi conflitti bellici. E invece.

Nell’affollato incontro serale lo studioso ha presentato l’ultima fatica editoriale, Samo FrontalNo (Solo frontale), un testo che, prendendo spunto dai numerosi interventi sociali e politici apparsi quasi quotidianamente nel suo seguitissimo blog, racconta in modo spesso ironico, come vengono presentati nella società bosniaca molti episodi legati ai crimini di guerra, alle sofferenze dei bambini durante il conflitto e a quelle inaudite a cui è stata sottoposta la comunità bosgnacca. Aggiungendo come l’attuale potere politico dominante stia ostacolando, con ogni mezzo, qualunque tentativo di una corretta informazione storica, politica e sociale.
Una giornata intensa, scandita da numerose pulsazioni vitali… nel corpo quasi inanimato della vita politica e culturale di Srebrenica.

I due giorni conclusivi sono stati un prezioso interludio prima del distacco dall’abbraccio di Srebrenica e da quello degli animatori di Adopt Srebrenica; una pausa con alcuni approdi turistico-culturali: un’escursione riposante lungo la Drina e la visita ad alcune fabbriche dismesse – vittime di una fuligginosa devastazione umana e temporale, scheletriche ossature a guardia di un paesaggio e di una natura che le sta lentamente colonizzando –.
Passeggiando tra le rovine ed inseguendo il loro silenzio si è assaliti da un doloroso sgomento al solo pensiero che solo alcuni decenni fa qui pulsava la vita produttiva di un’intera città. E al visitatore non resta che contemplare con rabbia il cieco furore di una follia umana autodistruttrice.

Mentre sul calar della notte, presso uno spazio che sarebbe fantastico poter “adottare” come luogo della rinascita culturale della città, i ragazzi dell’associazione hanno offerto a tutti noi una performance di poesia e musica dal titolo “Cerco una strada per il mio nome”, ispirata all’opera del grande poeta bosniaco Izet Sarajlić (1930 – 2012), monologo poetico interpretato con convinzione e molto estro recitativo da un giovane attore e intervallato da alcuni brani classici ed etnici proposti abilmente da un fisarmonicista e da una violinista. Vi proponiamo i versi della magnifica poesia di Sarajlić, scritta nel 1968, nella bella traduzione di Sinan Gudžević e Raffaella Marzano.

Cerco una strada per il mio nome

Passeggio per la città della nostra giovinezza
e cerco una strada per il mio nome.
Le strade ampie, rumorose le lascio ai grandi della storia.
Cosa stavo facendo mentre si faceva la storia?
Semplicemente ti amavo.
Cerco una strada piccola, semplice, quotidiana,
lungo la quale, inosservati dalla gente,
possiamo passeggiare anche dopo la morte.
Non importa se non ha molto verde,
e neanche propri uccelli.
È importante che in essa possano trovare rifugio
sia l’uomo che il cane in fuga dalla battuta di caccia.
Sarebbe bello che fosse lastricata di pietra,
ma tutto sommato questa non è la cosa più importante.
La cosa più importante è
che nella strada con il mio nome 
a nessuno capiti mai una disgrazia.

Il giorno successivo – ultima tappa della “settimana internazionale della memoria” – è stato, con quello della visita al Memoriale di Potočari e al Museo, il più toccante e il più tristemente suggestivo. Iniziato con una visita al piccolo villaggio di Osmače – che, ricordiamo, con  Brežani è stato protagonista e vincitore del Premio Scarpa per il Giardino del 2014 (storie di uomini e paesaggi, di memoria e di valori, raccontati splendidamente nel libro-dossier curato da Domenico Luciani, Patrizia Boschiero, con Andrea Rizza Goldstein, Fondazione Benetton Studi Ricerche, Antiga Edizioni) – dove Muhamed Avdić, in veste di narratore, ha ricordato molti episodi della guerra e del genocidio avvenuto in quei luoghi.
Di come poi, una volta terminato il conflitto, sia ricominciata la ripopolazione del territorio, anche in seguito agli aiuti umanitari, culturali e materiali arrivati dall’Italia attraverso il lavoro di molte associazioni e gruppi di volontari (tra tutti, quello della Fondazione Alexander Langer di Bolzano e di alcune associazioni agrobiologiche che hanno istruito ed incoraggiato la gente del posto a lavorare la terra, producendo soprattutto il grano saraceno ed alcuni prodotti caseari).
Muhamed è ritornato a Osmače nel 2008, decidendo di costruire una casa “in pietra” per la famiglia e coltivare un pezzo della vecchia terra da cui era stato costretto a fuggire. Oggi lavora nella pubblica amministrazione di Srebrenica, ma ritorna a Osmače sempre con entusiasmo e con la voglia inesauribile di “conservare e custodire il ricordo” attraverso la ricostruzione materiale e spirituale del villaggio.

Un ricordo suggellato dalle rovine della scuola dei villaggi, da lui frequentata da bambino, che un tempo ospitava quasi 500 alunni e che oggi contorce il suo scheletro avvinghiato agli alberi del bosco. Per arrivarci percorriamo qualche chilometro lungo uno sterrato a bordo di un camion, sotto le staffilate dei rami di una foresta cupa e impenetrabile. Ad un certo punto dobbiamo scendere e penetrare lentamente in mezzo agli arbusti di una radura, fino a raggiungere l’edificio conficcato ai margini di un boschetto. Una volta raggiunto, lo attraversiamo sostando a lungo in tutti gli antri possibili, in tutte le aule barbaramente sfigurate e abbandonate al loro destino, accompagnati dai lunghi racconti di Muhamed che lo hanno visto bambino e alunno di quella scuola.
In un attimo riattiviamo la capacità di ripercorrere idealmente e fantasticamente la vita scolastica, gioiosa ed infantile dei bambini dei villaggi, trasportati dalla lunga, intensa e lucida narrazione, ricca di pathos e di garbata fermezza interiore del protagonista, che ad un certo punto, comunque, si lascia andare a qualche attimo di autentica commozione, condivisa da tutti.

Ecco, se c’è un’immagine simbolica che può sancire l’indecente trionfo della barbarie – spettrale ed ignominiosa – di Srebrenica e dei villaggi del suo altipiano, è questa scuola straziata, interrata nel bosco, corrosa dal tempo e inibita per sempre alle voci e alla vitalità dei bambini.

Conclusioni

Dopo Srebrenica, con Edi e Sergio abbiamo fatto visita all’associazione Tuzlanska Amica, una comunità di volontari, giovani e non, diretta dalla neuropsichiatra Irfanka Pašagić, attiva fin dai primi anni novanta nel gestire in prima persona l’orfanatrofio di Tuzla e poi assistere, educare ed aiutare l’inserimento sociale di molti ragazzi e ragazze una volta usciti dai centri di accoglienza.
La sua è un’attività impareggiabile, inserita in una realtà difficile e che – al di là dei grumi di odio feroce che ancor oggi stringono in una morsa soffocante la vita di molte persone – dimostra la vivacità di questa comunità interetnica che sgomita quotidianamente per contendersi un po’ di luce e un po’ di speranza, dopo le bombe, il terrore ed i massacri.

                                                                                                                                         Ed è per questo motivo, per questa prodigiosa ascesa nella parete luminosa di un futuro da conquistare, che abbiamo deciso, io per primo, di essere coinvolti in questa “condivisione” etica e morale, civile e culturale, offrendo il nostro sostegno affinché si riesca tutti insieme ad uscire dall’emergenza sociale ed umanitaria, per progettare insieme una nuova rinascita.

Una riscossa civile e morale è possibile e oggi più che mai necessaria; lo dobbiamo a tutti coloro che hanno sofferto e patito per il genocidio di Srebrenica, per i massacri di Tuzla, di Sarajevo, di tutti i villaggi e le città dell’ex Jugoslavia. È solo una speranza, ma imprescindibile.

Ringraziamenti

Grazie alla Fondazione Alexander Langer di Bolzano, a Edi, Daniele, Valentina, Irfanka, Amra, Bekir, Zoran, Muhamed, Krsto, Borko, Paolo, Gabriele, Ilaria, Cristina, Sergio, Edvige, Gina, Laura, Caterina, Lucio, Massimo, a tutti i compagni di viaggio e a tutte le donne di Srebenica, di Tuzla e di Osmače che ci hanno accolto e ospitato nelle loro case, alle associazioni Adopt Srebrenica e Tuzlanska Amica, alla Fondazione Benetton di Treviso che per prima ha portato alla luce gli straordinari giacimenti civili e culturali di quei luoghi e a tutti coloro che hanno sorvolato idealmente il nostro viaggio alla memoria.

Treviso, 5 ottobre 2018

La versione originale, con documentazione fotografica
in winnegans.it

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