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Vincenzo Passerini: SREBRENICA, la vergogna. Undici anni fa l’orrore della pulizia etnica. Racconto di un viaggio.

Jul 17, 2006, L'Adige, 16 luglio 2006
A un certo punto la strada che sale tra le montagne coperte di boschi immette in un vasto pianoro. Ecco Potocari, la nuova Auschwitz.

Orrore dell’umanità, atroce colpa dei serbi, vergogna dell’ONU e della comunità internazionale. Oggi, 11 luglio 2006, seppelliranno con una grande cerimonia religiosa altri 505 resti di altrettanti bosniaci musulmani massacrati e gettati nelle fosse comuni undici anni fa. A quei resti è stato dato finalmente un nome. Siamo a cinque chilometri dalla cittadina di Srebrenica, nella parte est della Bosnia, nella “Repubblica Srspka”. Non lontano, dietro i monti, scorre la Drina che segna il confine con la Serbia. Da lì vennero i soldati che compirono il più orrendo crimine in Europa dopo Auschwitz. Un altro genocidio. Ci sono casette sparse sulle pendici dei monti, ancora sventrate dalla guerra. Ma nel vasto pianoro non c’è un paese. Da un lato della strada ci sono alcune grandi fabbriche abbandonate. Sul lato opposto c’è un immenso cimitero. Il sole picchia forte come undici anni fa. Migliaia di persone stanno arrivando con le macchine e i bus da tutta la Bosnia. Almeno quarantamila, ci diranno. Ci sono anche gruppi di stranieri, accolti con simpatia. Se parli con qualche bosniaco ti dirà: “Srebrenica è la vergogna dell’Europa, ma grazie per essere qui, per non averci dimenticato”. Siamo qui con un pullman della Fondazione Langer di Bolzano. A questo viaggio partecipano venticinque persone provenienti da diverse regioni italiane. C’è anche don Rodolfo Pizzolli della commissione Giustizia e pace della diocesi di Trento. Guida il gruppo Edi Rabini che di Alex Langer fu il braccio destro. Mi ricorda con quale passione e tormento Langer seguì la guerra nella ex-Jugoslavia. Ci sono anche altri gruppi di italiani. E poi tedeschi, francesi, inglesi. C’è anche un gruppo di giovani ebrei proveniente da Israele. Li vede fermarsi e parlare con i giovani bosniaci musulmani. Per un attimo pensi che il mondo possa essere diverso. Che non debba essere consegnato alla maledizione di un genocidio dopo l’altro. Ci sono anche serbi.
I pullman e le auto sono parcheggiate in ordine nel terreno adiacente le fabbriche abbandonate. La gente scende, attraversa la strada e si trova all’ingresso del grande cimitero. Sono famiglie, vengono a seppellire un padre, un figlio, un fratello, un nonno. Con loro parenti, amici. Ma anche tanti altri che vengono per ricordare.
Volti composti, un parlare sommesso, un piangere altrettanto sommesso, un muoversi a migliaia senza urtarsi, senza concitazione, senza una parola o un gesto fuori posto. Un dolore così atroce vissuto con così sublime dignità: che lezione che ci dà questa folla dolente di musulmani che vengono a piangere i loro morti massacrati da serbi cristiani!
Le donne portano borse, zaini, sacchetti con dentro da mangiare e da bere. E ombrelli per ripararsi dal sole. La giornata sarà lunga. La cerimonia comincerà solo alle tre del pomeriggio. All’ingresso una fontana, un cippo di marmo bianco con la scritta “Srebrenica Juli 1995”, un’ampia tettoia quadrata per la cerimonia e, dietro, una enorme, lunga lastra di marmo che scorre inclinata a forme di semicerchio e sulla quale sono incisi i nomi e la data di nascita di 10.701 giovani, uomini, vecchi, dai sedici ai settantasette anni. Non c’è la data di morte. Tutti sono stati ammazzati, ad uno ad uno, nei modi più crudeli, tra il 12 e il 16 luglio del 1995, tutti maschi perché così vuole la regola della pulizia etnica, i loro corpi gettati nelle fosse comuni, coperti e occultati, poi spostati con le ruspe in altre fosse nel tentativo di nascondere un crimine che le autorità serbe di questa parte della Bosnia hanno riconosciuto solo nel 2004 sotto la pressione della comunità internazionale. I familiari e i parenti vanno a cercare il nome dei loro cari, li accarezzano, li fotografano, li indicano ai più piccoli, stanno lì accanto per un po’.
Poi, chi entra nel cimitero si sposta sulla sinistra. Qui sono allineate le 505 piccole bare in undici lunghe file. La scena toglie la parola. Un funerale è già duro per un cuore umano, ma cinquecento bare…come si fa? Le bare sono di tela verde, dentro ci sono i pochi resti della persona uccisa. Un cartellino con un numero ne ricorda il nome. I familiari e i parenti cercano la bara del loro caro. La accarezzano, qualcuno si siede accanto e sta lì per ore. Finalmente gliel’hanno restituito quel povero corpo dilaniato. Finalmente l’incubo durato undici anni è finito. Ma solo poco più di duemila corpi sono stati identificati, avvalendosi delle prove del Dna. Ne restano altri ottomila. Di questo passo ci vorranno tra i dodici e i quindici anni per identificare tutte le vittime. Nel frattempo, quanti familiari moriranno senza la consolazione di aver potuto seppellire il loro caro? Qui si vede quanto durano le guerre. Dal 2003, l’11 luglio, anniversario della conquista di Srebrenica da parte dei serbi che diede inizio alla mattanza, si svolge la cerimonia religiosa di sepoltura dei corpi identificati.
Dopo aver visto la bara del loro caro, i familiari si spostano sul lato destro del cimitero dove c’è il luogo della sepoltura. Cinquecento tombe sono state scavate accanto a quelle degli anni scorsi. Una distesa di buchi e di cumuli di terra, di lapidi di legno dipinte di verde con una targa nera di metallo attorno alle quali si muovono o sostano migliaia di persone. Eppure la lezione di sublime dignità continua e continuerà per tutto il giorno. Alle quindici comincia la cerimonia religiosa. Gli uomini allineati davanti, le donne sedute dietro. Ci sono le autorità, c’è anche Carla Del Ponte presidente del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja che sta processando i responsabili dei crimini nella ex Jugoslavia. Proprio l’altro ieri, venerdì 14 luglio, è cominciato il processo a sette generali e ufficiali serbi di Bosnia accusati del genocidio di Srebrenica. Ma Ratko Mladic e Radovan Karadzic, i maggiori responsabili, sono ancora latitanti. Il processo è stato aggiornato al 21 agosto prossimo.
Dopo le lunghe preghiere e i canti, le bare ad una ad una, chiamate dallo speaker, vengono portate dagli uomini, appoggiate sopra la testa, al luogo della sepoltura.
Poi la gente lascia il cimitero, attraversa la strada ed entra nelle fabbriche abbandonate. Il luogo della vergogna dell’ONU. Tutto è come undici anni fa. Tutto è in rovina, rottami, pozzanghere, buche. In uno di questi edifici c’era la base dell’ONU, quattrocento soldati olandesi. Avevano il compito di difendere il territorio di Srebrenica, dichiarato zona sottoposta a tutela internazionale. Quando le truppe serbe l’11 luglio 1995 occuparono Srebrenica, i soldati ONU si ritirarono qui, nella loro base di Potocari. Non difesero la città, né i comandi ONU fecero intervenire i caccia a fermare i serbi. I quarantamila abitanti bosniaci fuggirono: quindicimila uomini cercarono la fuga nei boschi, gli altri vencinquemila abitanti, in prevalenza donne, bambini, malati fuggirono verso la base ONU inseguiti e colpiti dalle bombe dei serbi. Qui solo cinque mila vennero accolti. Gli altri restarono fuori. I serbi raggiunsero la base e la occuparono. I soldati ONU non mossero un dito. Si lasciarono disarmare, perfino spogliare delle divise, derubare degli automezzi militari che i serbi utilizzarono per andare alla caccia degli uomini fuggiti nei boschi. Caccia durata giorni. Ne presero alcune migliaia, li uccisero tutti. Alla base ONU di Potocari il comandante dei serbi Mladic discute con arroganza con un terrorizzato colonnello Karremans che comanda i caschi blu olandesi. Le telecamere dei serbi filmano per propaganda queste scene che noi oggi possiamo vedere. Poi i serbi separano le donne e i bambini dagli uomini. Ventitremila tra donne e bambini vengono portati via dalla base con gli autobus. La maggior parte si salverà (ma tante donne furono violentate e uccise). I giovani e gli uomini vengono portati nelle case e nei villaggi intorno a Potocari e uccisi ad uno ad uno: scuole, dighe, magazzini, spiazzi, fabbriche diventano luoghi di torture indescrivibili e di esecuzioni. Anche a Potocari, nella fabbrica accanto a quella dove stanno i soldati dell’ONU avvengono torture ed esecuzioni. E mentre i serbi se ne vanno da Potocari il 14 luglio per concludere nei dintorni il genocidio, i soldati ONU rimangono lì per una settimana da soli a fare la vita normale di sempre. E quando il 21 luglio il contingente ONU lascia Potocari ci sono i brindisi d’addio con i serbi.
Dopo la cerimonia di sepoltura, le persone entrano in queste fabbriche di Potocari dove si consumò la vergogna dell’ONU e da dove partì il genocidio. Guardano i graffiti volgari da caserma dei soldati olandesi. Rivelano il disprezzo per i bosniaci. Guardano i graffiti dei soldati serbi: rivelano il disprezzo per i bosniaci. Giovani bosniaci si improvvisano guide e spiegano agli stranieri cosa accadeva lì dentro. Lo fanno con serietà e senza animosità. Fanno vedere i luoghi delle torture e delle esecuzioni. Tutto è rimasto come prima. Perfino le macchie scure del sangue.
Tutto questo accadeva in Europa soltanto undici anni fa.

(pubblicato su l’Adige del 16 luglio 2006)
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