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Riccardo Dello Sbarba: Canto funebre per Srebrenica

Jul 16, 2005, Quotidiano Alto Adige
Piana di Potočari, sabato 9 luglio 2005. Dunque, è questo l’orrore: una fila di tir che trasportano nella pioggia 610 bare verdi, leggere come la cenere di Ausschwitz. In ciascuna poveri brandelli di corpi torturati, fucilati, amputati, seppelliti subito in grandi fosse, dette “primarie”, poi di nuovo disseppelliti con le ruspe, frantumati con le benne meccaniche, e poi dispersi in centinaia di fosse più piccole, dette “secondarie”, perché il mondo non li trovasse più, perché così funziona la macelleria etnica.

Quei diecimila poveri corpi di uomini e bimbi bosniaci musulmani di Srebrenica, sterminati nella settimana dall’11 al 18 luglio del 1995 – esattamente 10 anni fa - dalle milizie serbe, dai fascisti cetnici, dalla brigata speciale degli “Scorpioni” e dal battaglione “Drina” al comando del generale Ratko Mladić, tuttora latitante, e dell’ex presidente della Repubblica serba di Bosnia Radovan Karadžić, tuttora latitante.
Dunque, è questo l’inferno, un lungo capannone di un’ex fabbrica di batterie scelta come base dall’Onu, dove si rifugiarono ventimila profughi bosniaci e dove il contingente olandese invece di interporsi consegnò base e profughi ai serbi e se la svignò. Qui cominciò il massacro, 1500 uccisi subito tra le pareti in cemento che conservano ancora i fori delle pallottole, altri 6500 portati nelle fattorie vicine e nei prati e lì sistematicamente trucidati, a gruppi oppure uno dopo l’altro. “Guarda, questo se l’è fatta addosso”, si sente sghignazzare nel video amatoriale che la Tv bosniaca trasmette a ciclo continuo, “sbrigati, sto finendo la batteria” dice l’operatore e il soldato pum, un colpo e via, come schiacciare una zanzara, come spezzare un filo d’erba. Dunque tutto cominciò in questo capannone abbandonato, in queste case e villaggi maledetti dalla strage, questo è l’inferno dove tutto è cominciato e dove adesso tutto ritorna, perché sotto questo capannone vengono ora stipate le bare coi poveri resti in attesa del funerale di massa, che si terrà dopodomani, dall’altra parte della strada, nel “Memoriale di Potočari”, monumento al senso di colpa dell’Occidente, pagato in euro e dollari sonanti che non copriranno mai la vergogna di chi allora doveva proteggere e se la svignò.
In piedi ad aspettare le bare, insieme alle donne di Srebrenica, ci sono anche i cinquanta ragazzi e ragazze del corso internazionale per la pace organizzato dalla Fondazione Langer a Bolzano, più ci siamo noi, un gruppo di adulti cui tremano le gambe. Tre dei ragazzi del corso di Bolzano sono di Srebrenica e tutti e tre hanno qui qualcuno: Ahmed dopodomani seppellirà il padre, Damir lo zio. E Teufik invece il padre l’ha sepolto due anni fa. Ci conduce alla tomba, mio padre è stato mitragliato mentre scappava nel bosco e così si è risparmiato le torture, sussurra, poi chiede alle ragazze di coprirsi il capo, dopodomani, al funerale collettivo. Non preoccuparti, Teufik, certo, lo faremo. Non temere per noi, povero caro amico nostro Teufik.

Sarajevo, domenica 10 luglio 2005. L’impotenza dell’Europa è qui, in questo salone dell’Hotel Holiday Inn, dove i Verdi europei tengono il convegno “Ten years after Srebrenica”, dieci anni anche dopo la morte di Alexander Langer, e qui, dieci anni dopo, si riparte da Alex e dal suo “L’Europa nasce o muore a Sarajevo”, a Sarajevo assediata e bombardata, non a Parigi, o Londra, non nel voto anti-costituzione, ma nella Sarajevo del viale dei cecchini, del grattacielo del governo che sta ancora lì come uno scheletro desolato, troppo caro per essere riparato, troppo caro per essere abbattuto. L’Europa è naufragata nella cinquecentesca biblioteca nazionale arsa dalle bombe al fosforo, 5 secoli di sapienza raccolti in due milioni di libri e pergamene andati al rogo in 5 minuti.
All’Holiday Inn si celebra il fallimento degli accordi di Dayton che hanno spartito per linee etniche la Bosnia, qui la federazione Croato-Musulmana, là la Repubblica Srpska, una soluzione che sedò la guerra ma non ha fatto la pace, rimprovera Selim Bešlagić, ex sindaco di Tuzla l’interetnica, amico di Alexander Langer, ora deputato al parlamento, che a Tuzla vuole erigere una statua “a Alex, che ci fu così disperatamente vicino”. La Bosnia etnicamente divisa è un costrutto artificiale senza anima né corpo.

Strade della Bosnia, 8-11 luglio 2005. Il bus corre tra campi di cereali e campi di mine, questi ultimi si riconoscono non solo dall’incolto, ma dal filo spinato che li circonda e dai cartelli rossi che avvertono: mine!, le stesse che migliaia di opuscoli descrivono tonde e piatte o lunghe a quattro chiodi, a strappo o a pressione, ma non ci sono abbastanza soldi per sminare tutto e dunque si recinta e si spera nella fortuna. Nella terra di nessuno che divide l’entità serba da quella musulmana non c’è frontiera, ma case e campi sono stati evacuati, si attraversa questo mondo sospeso con un vuoto nell’anima, finché nei cellulari scatta il cambio del gestore e le scritte in latino virano in cirillico o viceversa.
A Nord, dopo Orašje, durante la guerra la gente si affacciava al corridoio di separazione per vendere ogni genere di merci, soprattutto armi di ogni calibro e tutto esentasse, zona franca di tal successo che oggi è diventata un enorme centro commerciale, l’ “Arizona Market”, paradiso dei prodotti taroccati, costruito e gestito in gran parte da un’impresa italiana, il nostro contributo alla ricostruzione.

Srebrenica, lunedì 11 luglio 2005. Cinquantamila donne e uomini musulmani di Bosnia affollano il memoriale di Potočari, è il giorno del funerale collettivo, le bare sono allineate sul prato a sud, i parenti silenziosi si dispongono a nord lungo le fosse numerate, tutti gli altri si raccolgono intorno alla grande tettoia sotto cui gli Imam cantano le sure del Corano. Parlano i ministri degli esteri di Francia e Inghilterra, chiedono scusa per la “vergogna di Srebrenica”, ma nessuno gli crede e nessuno li applaude, applausi invece a Paul Wolfowitz, il falco che Bush ha messo alla Banca Mondiale, che promette soldi e lavoro, e applausi al rappresentante del tribunale internazionale che pronuncia la parola che tutti vogliono sentire: genocidio, genocidio, genocidio.
L’Ulema di Sarajevo ricorda che dio insegna la tolleranza, la giustizia e la verità, non la vendetta. Le bare vengono sollevate da migliaia di mani che se le passano, il lungo bruco verde arriva all’area delle sepolture e poi s’inabissa nelle fosse, migliaia di pale chiudono con la terra le tombe, migliaia di lapidi verdi portano tutte un’identica data di morte, luglio 1995, e tutte nomi di maschi, tranne una donna, l’unica, che vinta dall’orrore si impiccò nel bosco.
Nataša Kandić, a Bolzano premio Langer nel 2000, è l’unica serba che in questa immensa spianata musulmana abbia diritto di parola. Il “Dani”, il settimanale più autorevole di Sarajevo, apre con lei il numero speciale del decennale della strage. Fondatrice dell’ “Humanitarian Law Center” a Belgrado, Nataša ha svelato le complicità di Belgrado nella strage di Srebrenica. E’ una “traditrice del proprio fronte etnico”.
Irfanka Pašagic (premio Langer nel 2005) psichiatra, profuga di Srebrenica, fondatrice a Tuzla di “Tuzlanska Amica” per il recupero dei bambini violati dalla guerra, rincuora le donne di “Women of Srebrenica”, le vedove del genocidio: questo lutto collettivo, spiega, è il primo passo per la riconciliazione. E’ una “costruttrice di ponti”.
Ma riconciliazione è parola troppo grossa. Solo duemila cadaveri hanno un nome, altri seimila corpi sono stipati negli obitori di Tuzla e Sarajevo in attesa di riconoscimento. Finché ogni famiglia non avrà una tomba su cui piangere, parlare di riconciliazione non si riesce. Non c’è pace senza pace interiore, dice Hajra Čatić, presidente delle “Donne di Srebrenica”.
I cinquantamila di Potočari invocano verità e giustizia, intonano il “canto funebre per Srebrenica” e l’inno nazionale bosniaco, sventolano la bandiera coi gigli d’oro della Bosnia musulmana.
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